Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 188 del 05/01/2011

Cassazione civile sez. lav., 05/01/2011, (ud. 09/06/2010, dep. 05/01/2011), n.188

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. MONACI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.L., gia’ elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FEDERICO

CONFALONIERI 1, presso lo studio dell’avvocato RUSSO EGIDIO, che lo

rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso e da

ultimo domiciliato d’ufficio presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE

SUPREMA DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

REGIONE LAZIO, A.U.S.L. ROMA (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 3932/2006 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/08/2006 R.G.N. 1722/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/06/2010 dal Consigliere Dott. STEFANO MONACI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PATRONE Ignazio, che ha concluso per la dichiarazione di

inammissibilita’ e in subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La controversia ha per oggetto la richiesta del medico convenzionato dr. S.L. di pagamento delle differenze tra quanto gli era gia’ stato erogato e quanto dovuto tenuto conto del numero effettivo di pazienti che aveva a carico.

Il giudice di primo grado accoglieva la domanda e condannava l’Azienda USL Roma (OMISSIS) a corrispondere al sanitario la somma di Euro 5.335,52, oltre accessori, nonche’ al pagamento delle ulteriori somme dovute, a titolo di indennita’ di collaboratore di studio medico ed indennita’ di concorso nelle spese del Servizio Sanitario Nazionale.

Nel giudizio di impugnazione la Corte d’Appello di Roma andava invece in contrario avviso e, con sentenza n. 3932/06, rigettava la domanda proposta dal dr. S., disponendo la compensazione delle spese dei due gradi.

2. La sentenza rilevava, innanzi tutto, che era pacifico il fatto che il numero degli assistiti era superiore a 1.500 (esattamente 1.800), e che non vi era stata una espressa autorizzazione da parte della ASL e/o della Regione.

La Corte d’Appello sottolineava che il compenso del medico era forfetario e ragguagliato alla sola quota capitaria degli assistiti, entro il limite del massimale; nel caso specifico, pero’, proprio per il superamento del massimale espressamente previsto dalla normativa, si era al di fuori di questa particolare disciplina.

Ne’ era applicabile l’art. 2126 c.c., perche’ la norma si riferiva soltanto al rapporto di lavoro subordinato.

Ne’, infine, sussistevano gli estremi per l’applicazione dell’istituto della ripetizione dell’indebito ai sensi dell’art. 2033 c.c., mancando la prova rigorosa dell’avvenuto pagamento o dell’effettivo compimento della prestazione, oppure dell’istituto dell’arricchimento senza causa, perche’ mancava la prova della perdita patrimoniale richiesta dalla norma.

3. Avverso la sentenza d’appello, depositata in cancelleria il 31 agosto 2006, e che non risulta notificata, il dr. S. ha proposto ricorso per cassazione, con quattro motivi di impugnazione, notificato, in termine, il 6 ed il 9 novembre 2006. Gli intimati Unita’ Sanitaria Locale Roma (OMISSIS) e la Regione Lazio non hanno presentato difese in questa fase.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Nel primo motivo di impugnazione il dr. S. denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, per errata interpretazione dell’art. 45 dell’Accordo Collettivo per i Medici di Medicina Generale, reso esecutivo con D.P.R. 28 luglio 2000, n. 270.

Critica l’interpretazione della norma contrattuale collettiva da parte della sentenza impugnata.

Sostiene che in base a ragioni storiche ed organizzative complesse alcuni medici di medicina generale avevano avuto un massimale superiore ai 1.500 assistiti, e che il dr. S. rientrava tra quelli che avevano diritto a questa deroga; quest’ultimo, in particolare, aveva diritto alla deroga in forza di una sentenza del Pretore di Roma divenuta definitiva, di una sentenza di ottemperanza del TAR del Lazio e della conseguente autorizzazione scritta della Regione Lazio.

2. Nel secondo motivo il ricorrente lamenta la contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia.

Rileva che tutta la sentenza si era basata sull’erroneo presupposto che l’acquisizione da parte del dr. S. di un numero di pazienti sino a 1800 non fosse stato autorizzato, e contesta questa affermazione, ribadendo di essere stato autorizzato di una sentenza del Pretore di Roma passata in giudicato, da una successiva sentenza di ottemperanza del TAR e da una apposita autorizzazione di ripristino concessa dalla Regione Lazio.

3. Nel terzo motivo il ricorrente denunzia la violazione dell’art. 112 c.p.c..

La Corte d’Appello avrebbe introdotto nella lite argomenti nuovi che non erano oggetto della controversia.

Questa ultima concerneva soltanto l’interpretazione da dare alla norma (appunto il DPR n. 270 del 2000, art. 45) relativa alla quota individuale cui si doveva fare riferimento per il pagamento delle indennita’.

La Corte d’Appello di Roma, invece, si era pronunziata d’ufficio su una eccezione che poteva essere sollevata soltanto da una parte interessata.

4. Infine nel quarto motivo di impugnazione il dr. S. deduce la violazione dell’art. 342 c.p.c..

Lamenta in proposito che la Corte d’Appello aveva omesso di dichiarare nullo l’appello con cui la AUSL Roma (OMISSIS) si era limitata a reiterare le stesse difese di primo grado, senza alcuna censura alle argomentazioni svolte dal giudice di primo grado, e che percio’ i motivi di impugnazione in appello mancavano della necessaria specificita’.

5. I primi due motivi di impugnazione, strettamente connessi (e parzialmente ripetitivi), possono essere trattati congiuntamente.

Non sono fondati.

Le censure proposte sono del tutto generiche: in sostanza il ricorrente lamenta l’omesso esame di alcuni documenti (una sentenza del Pretore di Roma, una sentenza di ottemperanza del TAR del Lazio, un provvedimento amministrativo della Regione Lazio), senza trascriverne neppure per estratto il testo, e senza neppure precisare se le due sentenze erano intercorse tra le parti di questo giudizio (o se riguardavano le posizioni di altri sanitari, anche se, in ipotesi, toccando la medesima problematica).

Sotto questo profilo, i due motivi mancano, dunque della necessaria autosufficienza.

D’altra parte, dalla motivazione in fatto contenuta nella sentenza impugnata non risultano ne’ l’esistenza, ne’ l’eventuale contenuto, dei documenti menzionati dal ricorrente.

Ne’ le mancate trascrizioni possano essere sostituite dal deposito dei documenti, e dalla precisazione, anche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n 6), che il ricorso si fondava su di essi, proprio perche’ il ricorso deve necessariamente essere sorretto da una propria autosufficienza interna che ne consenta l’esatta comprensione alla semplice lettura del testo (salvo successive verifiche sui documenti prodotti ed ammissibili).

7. Il terzo motivo di impugnazione e’ infondato. La sentenza impugnata si basa sulla mancata spettanza, in base alla contrattazione collettiva, di una ulteriore remunerazione dell’attivita’ professionale dei medici convenzionati oltre il massimale di assistiti previsto, ma questa non e’ una distinta eccezione, ma una mera argomentazione in diritto, che poteva essere prospettata, anche d’ufficio, in ogni grado e fase del giudizio.

Il ricorrente lamenta, in sostanza, che la Corte d’Appello abbia accolto l’impugnazione avversaria sulla base di una argomentazione non prospettata dalla controparte.

Questo, pero’ rientra nei poteri (ed anzi nei doveri) del giudice, e non implica affatto una violazione del principio del contraddittorio.

Una richiesta della parte non puo’ essere confusa con l’argomentazione sviluppata a suo sostegno per ottenerne l’accoglimento.

8. Il quarto motivo e’ infondato, perche’ si basa su un’argomentazione in fatto, peraltro generica, – quella secondo cui nell’atto di appello l’Azienda USL non avrebbe confutato le argomentazioni della sentenza di primo grado -che non trova riscontro nell’accertamento dei fatti stessi contenuto nella sentenza impugnata.

9. Il ricorso dunque deve essere rigettato in quanto infondato. Dato che l’Azienda USL intimata non ha presentato difese in questa fase, la Corte non deve provvedere su spese di causa.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Cosi’ deciso in Roma, il 9 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 5 gennaio 2011

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