Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18787 del 12/07/2019

Cassazione civile sez. I, 12/07/2019, (ud. 14/06/2019, dep. 12/07/2019), n.18787

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 22937/2018 r.g. proposto da:

B.E., (cod. fisc. (OMISSIS)), rappresentato e difeso,

giusta procura speciale apposta in calce al ricorso, dall’Avvocato

Andrea Maestri, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in

Ravenna, Via Meucci n. 7;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro legale rappresentante

pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna, depositata in

data13.2.2008;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

14/6/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bologna – decidendo sull’appello proposto da B.E., cittadino della Nigeria, avverso l’ordinanza emessa in data 25.10.2016 dal Tribunale di Bologna (con la quale erano state respinte le domande avanzate dal richiedente, come tali volte al riconoscimento dello status di rifugiato e, in via subordinata, della protezione sussidiaria ed umanitaria) – ha confermato il provvedimento impugnato, rigettando, pertanto, l’appello.

La corte del merito ha ritenuto non credibile il racconto della vicenda posta alla base della decisione di espatriare da parte del richiedente e comunque la non riconducibilità dello stesso nel paradigma applicativo di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 2 in tema di riconoscimento dello status di rifugiato: il ricorrente aveva infatti narrato innanzi alla commissione territoriale che era stato costretto a fuggire dalla Nigeria per le conseguenze derivanti dal possibile coinvolgimento in un tentativo di sequestro di persona, vicenda per la quale si era subito dissociato dall’intento criminale degli altri compartecipi, ma in conseguenza della quale avrebbe potuto subire in Nigeria anche l’applicazione della pena di morte. La corte territoriale ha evidenziato che, anche in relazione alla richiesta di protezione sussidiaria, era stato lo stesso ricorrente ad aver escluso di essere indagato per quella vicenda delittuosa e che pertanto non poteva ritenersi sussistente il pericolo del richiedente ad essere sottoposto a pena di morte ovvero a trattamento disumano in carcere. Il giudice di appello ha poi escluso che, secondo le notizie acquisite tramite fonti informative qualificate, potesse rintracciarsi in Nigeria una situazione di violenza indiscriminata su tutto il territorio e che, pertanto, la vicenda allegata dal ricorrente non necessitasse neanche di un ulteriore approfondimento istruttorio officioso; ha infine escluso una condizione di personale vulnerabilità del richiedente che legittimasse il riconoscimento della protezione umanitaria.

2. La sentenza, pubblicata il 13.2.2008, è stata impugnata da B.E. con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 10 Cost., comma 3, del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, artt. 2, 3, 14 e 17, del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8 e del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 32, comma 3, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra – si duole del mancato riconoscimento della protezione umanitaria. Si evidenzia in primo luogo che il ricorrente intendeva fornire acquiescenza al diniego sulla domanda di riconoscimento dello status di rifugiato e che pertanto l’oggetto della impugnazione era ristretto solo alle domande di protezione sussidiaria e umanitaria. Si denuncia l’omessa cooperazione istruttoria da parte del giudice di appello laddove quest’ultimo aveva ritenuto non credibile il richiedente e, dunque, non provata la provenienza del ricorrente stesso. Si evidenzia ancora che, sulla base dei rapporti informativi di Amnesty International, emerge che la Nigeria è interessata da situazioni di violenza indiscriminata e generalizzata, tale da consentire il riconoscimento della reclamata protezione sussidiaria.

2. Con il secondo motivo si articola, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6, e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, e dell’art. 33 della Convenzione di Ginevra. Si osserva come la motivazione impugnata non avesse in alcun modo considerato la situazione del paese di transito del richiedente (la Libia) sempre al fine di valutare la situazione di particolare vulnerabilità del ricorrente.

3. Con il terzo e quarto motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo in ordine alla domanda di protezione umanitaria.

4. Il ricorso è inammissibile.

4.1 Il primo motivo di censura è in realtà inammissibile.

4.1.1 Va subito osservato, in relazione alla reclamata protezione sussidiaria di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a e b, come la parte ricorrente non censuri in alcun modo la ratio decidendi principale posta alla base della decisione di diniego anche della reclamata protezione sussidiaria, e cioè la non credibilità della versione dei fatti raccontata dal richiedente (anche in relazione al difetto di indicazioni sulla provenienza), valutazione quest’ultima che, peraltro, ha giustificato anche il mancato (e qui contestato) approfondimento istruttorio della vicenda umana del cittadino nigeriano.

Tale omessa censura rende pertanto inammissibile le ulteriori doglianze articolate dal richiedente.

4.1.2 A ciò va anche aggiunto che un ulteriore profilo di inammissibilità della censura debba essere rintracciato nella richiesta – rivolta dal ricorrente alla Corte di legittimità – di rivalutazione della situazione di pericolosità interna della Nigeria attraverso la rilettura degli atti istruttori, sulla cui base il giudice di appello ha invece sviluppato una motivazione coerente ed esente da criticità argomentative, spiegando che non tutto il territorio nigeriano può considerarsi esposto a rischi terroristici di violenza indiscriminata.

4.2 Il secondo motivo è anch’esso inammissibile.

Sul punto occorre richiamare la giurisprudenza espressa da questa Corte secondo la quale, nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 31676 del 06/12/2018; Sez. 6, Ordinanza n. 29875 del 20/11/2018; Sez. 6, Ordinanza n. 2861 del 06/02/2018).

Situazione quest’ultima neanche prospettata ed allegata da parte del ricorrente.

Ne consegue l’inammissibilità della doglianza così formulata.

4.3 Il terzo motivo è invece inammissibile in ragione della sua evidente genericità.

Il mezzo si compone solo di affermazioni generiche ed astratte, senza mai precisare quale siano i “fatti storici” il cui omesso esame integrerebbe il vizio denunciato sotto l’egida dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

4.4 Il quarto motivo è anch’esso inammissibile perchè si fonda su fatti nuovi (mancata considerazione della situazione di integrazione socio-lavorativa del richiedente) di cui la parte ricorrente non dimostra la già intervenuta allegazione nelle fasi precedenti del giudizio di merito.

Ne consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Nessuna statuizione è dovuta per le spese del giudizio di legittimità stante la mancata difesa dell’amministrazione intimata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019

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