Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18786 del 20/08/2010

Cassazione civile sez. lav., 20/08/2010, (ud. 08/06/2010, dep. 20/08/2010), n.18786

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere –

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

ACILIA 4, presso lo studio dell’avvocato FUNARI, rappresentato e

difeso dall’avvocato GARRAFFA GOFFREDO, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

STUDIO ALFA di MESSINA DOROTEA & C. SAS in persona del

soci

accomandatario e legale rappresentante pro tempore elettivamente

domiciliata in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio

dell’avvocato MANFREDONIA PIERLUIGI, rappresentata e difesa

dall’avvocato ORLANDO VINCENZO, giusta mandato speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 305/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO del

19.2.09, depositata il 23/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’8/06/2010 dal Consigliere Relatore Dott. SAVERIO TOFFOLI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. FUCCI

Costantino.

 

Fatto

MOTIVI

La Corte pronuncia in camera di consiglio ex art. 375 c.p.c., a seguito di relazione ex art. 380 bis.

La Corte d’appello di Palermo, con sentenza pubblicata il 23.3.2009 e notificato il seguente 21 maggio, in riforma di sentenza parziale e di sentenza definitiva del Tribunale di Trapani, rigettava la domanda proposta da G.G. contro la s.a.s. Studio Alfa di Messina Dorotea e C, relativa alle retribuzioni che al primo sarebbero state dovute in forza di un rapporto di lavoro subordinato intrattenuto con il fratello G.N.B., titolare di un’attivita’ professionale trasferita – si deduce mediante un trasferimento di azienda – a detta societa’.

La decisione era basata sull’esame della questione preliminare relativa all’effettiva sussistenza del dedotto rapporto di lavoro. La Corte, sulla base del risultato dell’interrogatorio libero delle parti e delle deposizioni testimoniali, dava rilievo innanzitutto al particolare contesto in cui si era svolta la collaborazione prestata dall’odierno ricorrente. Egli in precedenza aveva lavorato per anni nello studio del fratello e il rapporto si era interrotto traumaticamente con un licenziamento a seguito del quale era cessata la frequentazione tra i due congiunti. Era successo pero’ che G., venuto a sapere da un terzo che al fratello era stata diagnostica una malattia tumorale in relazione alla quale doveva sottoporsi ad ulteriori controlli nel (OMISSIS), si era fatto vivo e per cortesia si era offerto di occuparsi dello studio nel breve periodo (una settimana) del previsto allontanamento. La collaborazione pero’, in un clima di (parzialmente) recuperato spirito fraterno, era durata per il periodo di 3 – 4 mesi, che aveva preceduto la prevista ed imminente morte di B. ed era stato contrassegnato dalla progressiva ridotta presenza di quest’ultimo nell’attivita’ dello studio. La Corte ritenne che la collaborazione, per la sua motivazione (fraterna pieta’, intento di riconciliazione, ecc.) e per le sue modalita’ (mancanza di un orario di lavoro e dell’esercizio di poteri di organizzazione) non aveva presentato i caratteri della subordinazione. Del resto Beniamino aveva corrisposto al fratello solo delle “regalie” (per L. due milioni) e G. non aveva rivendicato alcuna retribuzione se non due anni dopo.

G.G. ricorre per cassazione con due motivi a cui l’intimata resiste con controricorso.

Il primo motivo risulta inammissibile perche’ prende in considerazione la questione della configurabilita’ di un trasferimento di azienda, non esaminata dal giudice di merito in quanto assorbita dal rigetto della domanda per la ritenuta insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato.

Anche il secondo motivo, che denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in riferimento agli artt. 2230 e 230 bis c.c. e’ qualificabile come inammissibile, in ragione della inidoneita’ del conclusivo quesito di diritto, formulato a norma dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis.

Come e’ stato piu’ volte osservato da questa Corte, il quesito di diritto imposto dall’art. 366 bis cod. proc. civ., rispondendo all’esigenza di soddisfare l’interesse del ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui e’ pervenuta la sentenza impugnata, ed al tempo stesso, con una piu’ ampia valenza, di enucleare, collaborando alla funzione nomofilattica della S.C. di cassazione, il principio di diritto applicabile alla fattispecie, deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una regola iuris in quanto tale idonea sia a risolvere la specifica controversia che a ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (cfr. Cass. S.U. n. 3519/2008 e 18759/2008; Cass. n. 11535/2008).

Nella specie e’ stato formulato il seguente quesito: “Se la ripresa di una attivita’ lavorativa organizzata in forma aziendale, stabile e strutturata con mezzi informatici, locali e personale subordinato dipendente possa considerarsi ab origine a titolo gratuito, pur in presenza delle direttive e della onerosita’ del rapporto, valorizzando il pagamento di una cospicua somma di denaro (due erogazioni di L. un milione ciascuna) da parte del titolare dello studio in favore del fratello gia’ dipendente della stessa organizzazione, e richiamato per collaborare e farne parte in modo tecnico funzionale (art. 2094 c.c. e 2099 c.c.). E’ agevole rilevare che il quesito e’ essenzialmente basato su una ricostruzione degli aspetti fattuali della fattispecie che non trova adeguato riscontro nella sentenza di merito e, del resto, nell’esposizione del motivo la parte procede a una diversa lettura delle risultanze istruttorie.

Il ricorso deve quindi essere dichiarato inammissibile. Le spese del giudizio vengono regolate facendo applicazione del criterio legale della soccombenza (art. 91 c.p.c.).

P.Q.M.

LA CORTE dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese in Euro trenta/00 per esborsi ed Euro millecinquecento/00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Cosi’ deciso in Roma, il 8 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 20 agosto 2010

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