Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18771 del 12/07/2019

Cassazione civile sez. I, 12/07/2019, (ud. 23/05/2019, dep. 12/07/2019), n.18771

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DIDONE Antonio – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29611/2014 proposto da:

M.L., S.M., elettivamente domiciliati in Roma Via

Pippo Tamburri 1/c presso lo studio dell’avvocato Salluzzo Claudia

che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Del Campo

Alberto Rosario Giovanni, Sanfilippo Pierpaolo Michele;

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) Srl, elettivamente domiciliato in Roma V.cola Di

Rienzo 264 presso lo studio dell’avvocato Longari Ludovica che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Nicolosi Salvatore;

– controricorrente –

avverso le sentenze della CORTE D’APPELLO di CATANIA del 16 marzo

2012 e del 14 aprile 2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/05/2019 da NAZZICONE LOREDANA;

udito l’Avvocato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale SOLDI

ANNA MARIA, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catania con sentenza non definitiva del 16 marzo 2012 ha respinto l’eccezione di prescrizione del diritto al risarcimento del danno vantato dal Fallimento (OMISSIS) s.r.l. per mala gestio dell’amministratore S.M., e, quindi, con sentenza definitiva del 14 aprile 2014 lo ha condannato al risarcimento del danno, liquidato in Euro 198.528,38, oltre accessori, dichiarando anche inopponibile alla massa l’atto costitutivo di fondo patrimoniale stipulato dal medesimo e dalla coniuge in data 27 novembre 2002.

Ha ritenuto la prima decisione che la sospensione della prescrizione sia l’oggetto di un’eccezione in senso lato e che siano in atti tutti gli elementi atti a dimostrarne la fondatezza, rivestendo l’amministratore detta carica sino al fallimento dichiarato il 15 gennaio 1998, onde alla data di notificazione dell’atto introduttivo in data 7 gennaio 2003 il quinquennio del termine prescrizionale non era ancora decorso.

Con la sentenza definitiva, la corte territoriale ha, quindi, osservato che l’azione ex art. 146 L. Fall. cumula i presupposti di quelle di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., ed il fallimento ha dedotto l’inadempimento consistito nella prosecuzione dell’attività d’impresa pur dopo l’azzeramento del capitale sociale per perdite, dapprima verificatosi con l’esercizio 1994, e poi, dopo il primo abbattimento e ricostituzione di capitale, nuovamente nell’esercizio 1995: situazione pertanto nota all’a.u., al più tardi, con la chiusura del medesimo esercizio al 31 dicembre 1995, trattandosi di perdita talmente rilevante rispetto al capitale sociale da non poter non essere individuata dall’amministratore unico. Ha aggiunto che la gestione aziendale continuò per due anni, sino alla dichiarazione di fallimento, con incremento delle perdite.

In ordine al quantum, ha respinto il criterio del deficit patrimoniale, addivenendo alla quantificazione delle perdite relative alle sole nuove operazioni, considerando i patrimoni all’inizio ed alla fine del periodo di compimento delle operazioni vietate e con il correttivo della ulteriore detrazione degli oneri e delle spese di gestione, degli ammortamenti, delle svalutazioni e dei costi fissi, come quelli di Euro 20.000,00 annui, necessari per compensare almeno un dipendente. Tutto ciò considerato, ha liquidato il danno in via equitativa, aggiungendo, quale obbligazione di valore, la rivalutazione monetaria Istat e gli interessi legali sulla somma via via rivalutata in ragione dell’anno.

Infine, ha ritenuto fondata l’azione revocatoria del fondo patrimoniale, ricorrendone tutti i presupposti.

Avverso queste sentenze propone ricorso il soccombente, affidato a otto motivi.

Resiste con controricorso la procedura.

Il ricorrente ha depositato la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi di ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione dell’art. 2392 c.c. e art. 100 c.p.c., perchè la corte territoriale, nella sentenza non definitiva, ha in sostanza ritenuto non prescritta la sola azione sociale di responsabilità, mentre la curatela ha lamentato unicamente la violazione del previgente art. 2449 c.c. a danno dei creditori sociali, nè la società potrebbe in tal caso ritenersi danneggiata, ostandovi la conforme volontà dei soci, onde ha errato la sentenza definitiva a condannare la ricorrente per una somma superiore al passivo fallimentare costituito dai crediti insinuati;

2) violazione degli artt. 2393,2394 e 2395 c.c., art. 146 L. Fall., nei testi anteriormente vigenti, non avendo la corte territoriale, con la sentenza non definitiva, dichiarato prescritta l’azione della curatela, pur essendo decorso il quinquennio dalla conoscibilità della insufficienza patrimoniale da parte dei creditori ed atteso che questo è il termine da computarsi in presenza della unica e inscindibile azione ex art. 146 L. Fall.; ove si ritenga che possa valere anche la prescrizione propria dell’art. 2393 c.c. e dunque il regime della sua sospensione, nella specie non vi erano i presupposti sostanziali di tale azione, come dedotto col primo motivo;

3) violazione degli artt. 2935,2938 e 2949 c.c., artt. 112,115 e 116 c.p.c., avendo la corte territoriale rilevato erroneamente d’ufficio la sospensione della prescrizione con la sentenza non definitiva, laddove si tratta di eccezione in senso stretto;

4) violazione degli artt. 1218,1226,2043,2056,2392-4, 2449,2697 e 2729 c.c., avendo la sentenza definitiva ritenuto il compimento di nuove operazioni ed il nesso causale con il danno, mentre era onere del fallimento dimostrare la novità delle operazioni stesse e solo i creditori possono agire direttamente contro gli amministratori, onde non esisteva il danno nella misura liquidata, non rilevando invece il danno alla società o ai creditori non ammessi al passivo, nè avrebbe potuto la corte territoriale far ricorso al metodo della differenza dei netti patrimoniali; il motivo riporta ampi passaggi della c.t.u., lamentando che la corte territoriale non li abbia valorizzati;

5) omesso esame di fatti decisivi, consistenti: nella individuazione alla chiusura dell’esercizio 1995 della conoscenza dello stato di scioglimento in capo all’amministratore, nella insussistenza di nuove operazioni quanto agli atti di mera attuazione di preesistenti appalti, nella mancata considerazione delle perdite che si sarebbero comunque prodotte anche in pendenza di liquidazione;

6) violazione degli artt. 1218,1224,2043 e 2697 c.c., per avere cumulato rivalutazione ed interessi legali sulla somma liquidata, senza che la curatela abbia neppure provato il maggior danno;

7) omessa pronuncia sulla dedotta inammissibilità, improcedibilità, difetto di interesse e legittimazione passiva di M.L. con riguardo alla revocatoria del fondo patrimoniale; errata dichiarazione di inopponibilità al fallimento del fondo anche con riguardo alla quota della medesima;

8) errata condanna alle spese di lite, in quanto la pretesa del fallimento è stata ridimensionata dalla corte del merito, la quale avrebbe pertanto dovuto provvedere alla compensazione delle spese.

2. – Il primo motivo è infondato.

La violazione del disposto dell’art. 2449 c.c. nel testo in vigore prima della riforma del diritto societario del 2003 – il quale imponeva agli amministratori il divieto di nuove operazioni, tutte le volte che la società fosse in sostanziale situazione di scioglimento – era idonea, in quanto inadempimento degli amministratori ai doveri della carica, ad integrare il presupposto sia dell’azione di responsabilità per i danni alla società, ai sensi dell’art. 2393 c.c., sia dell’azione di responsabilità con riguardo ai danni cagionati ai creditori dall’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfarli, ai sensi dell’art. 2394 c.c..

Altro, rispetto all’ordinaria responsabilità ora menzionata – vale a dire, rispetto al meccanismo di insorgenza di un debito “in seconda battuta”, di natura reintegratoria, in ragione del previo inadempimento al debito originario – era la cd. responsabilità per le nuove operazioni, sancita dalla norma, direttamente in capo agli amministratori, quale obbligazione primaria e solidale, laddove si prevedeva che essi in caso di violazione del divieto “assumono responsabilità illimitata e solidale per gli affari intrapresi”.

In altri termini, se quest’ultima costituisce indubbiamente l’indice di un diretto coinvolgimento nei confronti dei terzi creditori, ciò però non escludeva affatto che la violazione del dovere di non intraprendere nuove operazioni, laddove fosse constatata o diligentemente constatabile la situazione di sostanziale scioglimento della società, potesse costituire la condotta tipica, posta a fondamento delle ordinarie azioni di responsabilità dell’organo gestorio, di cui agli artt. 2392 ss. c.c..

Proprio questa la situazione nel caso di specie, in cui la curatela ha allegato a carico dell’ex amministratore la violazione al dovere sancito dal precedente art. 2449 c.c., quale presupposto dell’azione di responsabilità prevista dall’art. 146 L. Fall.: ne consegue l’infondatezza del motivo, che non coglie nel segno affatto, laddove pretende che la violazione del detto obbligo non possa per definizione danneggiare la società, ma i soli creditori; così dimostrando di equivocare in ordine alla portata applicativa della disposizione.

Nè, vale appena la pena aggiungere, la volontà dei soci, eventualmente conforme alla prosecuzione dell’attività sociale pur dopo il verificarsi della causa di scioglimento della società, vale di per sè ad esonerare gli amministratori inadempienti dalle conseguenze risarcitorie per i danni derivati, atteso che, anche prima dell’introduzione dell’art. 2380-bis c.c., agli amministratori compete autonomamente il rispetto delle previsioni inderogabili di legge, dalla cui osservanza neppure i soci, con consenso unanime, potrebbero esonerarli.

3. – Il secondo motivo è infondato.

La corte territoriale ha ritenuto che non fosse maturato il termine prescrizionale dell’azione di cui all’art. 2393 c.c., in quanto ha operato la sospensione della prescrizione, prevista dall’art. 2941 c.c., n. 8, tra l’organo gestorio e la società.

Incongruo è dunque il richiamo operato dal ricorrente al diverso termine prescrizionale, di cui all’art. 2394 c.c., atteso che correttamente la procedura si è in tal modo avvalsa della disciplina più favorevole, sul punto e nel caso concreto, dell’azione sociale di responsabilità, il cui esercizio in sede fallimentare è attribuito al curatore, ai sensi dell’art. 146 L. Fall..

4. – Il terzo motivo è infondato, attesa la rilevabilità d’ufficio della sospensione della prescrizione, la quale, a differenza della prescrizione, non costituisce l’oggetto di un’eccezione in senso stretto.

Infatti, come è stato chiarito, “l’eccezione di sospensione della prescrizione ex art. 2941 n. 8 c.c. integra un’eccezione in senso lato e, pertanto, può essere rilevata d’ufficio dal giudice, anche in grado di appello, purchè sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti” (Cass. 30 settembre 2016, n. 19567; e v. Cass., sez. un., n. 10531 del 2013).

5. – Il quarto motivo è in parte infondato ed in parte inammissibile.

Laddove esso persevera nel negare l’esperibilità dell’azione di responsabilità sociale, o, nella specie, della curatela per i danni cagionati alla società in forza del compimento di nuove operazioni, non coglie nel segno, errando nella interpretazione e nell’individuare l’ambito applicativo dell’art. 2449 c.c., come sopra esposto; laddove, invece, il motivo nega la sussistenza in concreto di operazioni qualificabili come “nuove”, esso impinge in un giudizio sul fatto, interamente demandato al giudice del merito e qui non ripetibile, con la conseguente inammissibilità delle censure che a tale riesame tendono.

6. – Del pari in parte inammissibile ed in parte infondato il quinto motivo, laddove esso lamenta l’omesso esame di tre diverse circostanze – la conoscenza dello stato di scioglimento in capo all’amministratore solo dopo la redazione del bilancio dell’esercizio 1995, l’insussistenza di nuove operazioni in presenza della mera esecuzione di contratti di appalto pregressi, la mancata considerazione delle perdite che si sarebbero comunque prodotte anche in pendenza di liquidazione – che invece o sono state pienamente esaminate (la prima e la terza) o non risultano prima dedotte (la seconda), con conseguente mancata integrazione, in ambo i casi, della fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ogni altra censura si risolve in un del pari inammissibile giudizio sul fatto.

7. – Il sesto motivo è infondato, dovendosi ribadire come, ai fini dell’integrale risarcimento del danno conseguente a fatto illecito, sono dovuti sia la rivalutazione della somma liquidata ai valori attuali, al fine di rendere effettiva la reintegrazione patrimoniale del danneggiato, che deve essere adeguata al mutato valore del denaro nel momento in cui è emanata la pronuncia giudiziale finale, sia gli interessi compensativi sulla predetta somma, che sono rivolti a compensare il pregiudizio derivante al creditore dal ritardato conseguimento dell’equivalente pecuniario del danno subito (e multis, Cass. 14 giugno 2016, n. 12140; 10 giugno 2016, n. 11899; 19 maggio 2009, n. 11593).

Ciò in quanto il ritardato adempimento dell’obbligo di risarcimento causa al creditore un danno ulteriore, rappresentato dalla perduta possibilità di investire la somma dovutagli e ricavarne un lucro finanziario, che va liquidato dal giudice in via equitativa, anche facendo ricorso ad un saggio di interessi (cd. interessi compensativi) non costituenti frutto civile dell’obbligazione principale ma mera componente dell’unico danno da fatto illecito.

8. – Il settimo motivo è infondato.

La corte territoriale ha, anzitutto, preso espressamente in esame il punto in questione e l’ha disatteso, con la conseguente insussistenza del denunziato vizio di omessa pronuncia. Essa ha, invero, fatto applicazione del principio secondo cui “In tema di azione revocatoria, nel giudizio promosso dal creditore personale di uno dei coniugi per la declaratoria di inefficacia dell’atto di costituzione di un fondo patrimoniale stipulato da entrambi i coniugi, sussiste litisconsorzio necessario del coniuge non debitore, ancorchè non sia neppure proprietario dei beni costituiti nel fondo stesso, in quanto beneficiario dei relativi frutti, destinati a soddisfare i bisogni della famiglia, e, quindi, destinatario degli eventuali esiti pregiudizievoli conseguenti all’accoglimento della domanda revocatoria” (e multis, Cass. 3 agosto 2017, n. 19330).

Quanto al profilo secondo cui l’inefficacia avrebbe dovuto essere limitata alla quota di proprietà del fallito, il motivo è del pari infondato.

Invero, va ricordato il principio (Cass. 14 marzo 2013, n. 6575) secondo cui “La natura di comunione senza quote della comunione legale dei coniugi comporta che l’espropriazione, per crediti personali di uno solo dei coniugi, di un bene (o di più beni) in comunione abbia ad oggetto il bene nella sua interezza e non per la metà, con scioglimento della comunione legale limitatamente al bene staggito all’atto della sua vendita od assegnazione e diritto del coniuge non debitore alla metà della somma lorda ricavata dalla vendita del bene stesso o del valore di questo, in caso di assegnazione”.

Onde, avendo la comunione legale dei coniugi natura di comunione senza quote, il pignoramento si esegue per l’intero, con conseguente revocabilità dell’atto complessivo e non in quota pari alla sola metà del bene.

9. – L’ottavo motivo è infondato.

Invero, la sentenza impugnata ha fatto corretta applicazione del principio secondo cui all’esito complessivo della lite va rapportata la nuova regolamentazione delle spese di lite (e multis, Cass. 12 aprile 2018, n. 9064; Cass. 1 giugno 2016, n. 11423).

10. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% ed agli accessori, come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento a carico della parte ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 12 luglio 2019v

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