Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18767 del 10/09/2020

Cassazione civile sez. trib., 10/09/2020, (ud. 28/11/2019, dep. 10/09/2020), n.18767

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16097 del ruolo generale dell’anno 2014

proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del direttore generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

– ricorrente –

contro

Magimo Società cooperativa a r.l., in persona del legale

rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti

Marcello Poggioli, Tommaso Rotella e Giuseppe Rossodivita, per

procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata in

Roma, via Grazioli Lante, n. 5, presso lo studio di quest’ultimo

difensore;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria

Regionale dell’Emilia Romagna, n. 90/13/2013, depositata in data 11

dicembre 2013;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 novembre

2019 dal Consigliere Dott. Triscari Giancarlo.

 

Fatto

RILEVATO

che:

dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle entrate aveva notificato a Magimo Società cooperativa a r.l. un avviso di accertamento con il quale aveva recuperato a tassazione ai fini Irap, costi non deducibili, nonchè l’Iva indebitamente detratta; in particolare, era stato contestato che la costituzione della società cooperativa edilizia, avvenuta formalmente allo scopo di consentire ai tre soci (legati da vincoli di parentela) l’accesso ai servizi abitativi a condizioni economiche più favorevoli di quelle di mercato, costituiva un mero schermo societario in quanto, in realtà, il reale acquirente del complesso immobiliare era solo il socio R.M., sicchè l’intera operazione era stata posta in essere con finalità elusive, in modo da consentire a quest’ultimo di non versare l’Iva per la ristrutturazione del complesso immobiliare; avverso il suddetto atto impositivo la società aveva proposto ricorso che era stato rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Modena; avverso la decisione del giudice di primo grado la società aveva proposto appello;

la Commissione tributaria regionale dell’Emilia Romagna ha accolto l’appello, in particolare ha ritenuto che assumeva valore assorbente il motivo di appello relativo all’erroneità della sentenza circa la questione del difetto di motivazione dell’atto impugnato, in quanto contraddittorio nelle sua esposizione motivazionale e in relazione alle previsioni normative poste a fondamento;

avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso l’Agenzia delle entrate affidato a quattro motivi di censura, cui ha resistito la società depositando controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. c) e d), nonchè dell’art. 109 TUIR, e del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37 e 37bis, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, per avere ritenuto che la motivazione dell’avviso di accertamento era contraddittoria e insufficiente, non consentendo lo stesso di ricostruire esattamente l’iter logico seguito dall’ente impositore al fine di garantire il diritto di difesa del destinatario;

in particolare, parte ricorrente evidenzia che, differentemente da quanto ritenuto dal giudice del gravame: non vi è incompatibilità, nel riferimento contenuto nell’avviso di accertamento, tra la previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. c) e d), trattandosi, in entrambi i casi di accertamento avente natura analitica; il riferimento compiuto all’art. 109, TUIR, era stato fatto al fine di individuare, nel suo complesso, la normativa di riferimento di natura sostanziale; era legittimo il riferimento all’abuso del diritto, non limitato, peraltro, alle sole ipotesi di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, in quanto la fattispecie ipotizzata, cioè l’uso distorto dello schema societario, rientrava nel principio generale antiabuso per il quale non sussistono regole procedimentali di accertamento; circa, poi, il riferimento alla figura dell’interposizione fittizia, non era stato contestato al fine di contestare all’effettivo percettore il reddito non dichiarato;

con il secondo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 2 e 3, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, comma 5, per avere ritenuto che l’avviso di accertamento non era adeguatamente motivato;

i motivi, che possono essere esaminati unitariamente, in quanto attengono alla questione del difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, sono infondati;

gli stessi, invero, non tengono conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, fondata sulla complessiva valutazione della insufficienza e contraddittoria motivazione dell’avviso di accertamento in quanto tale privo della indicazione dei presupposti sui quali lo stesso era basato;

in realtà, il nucleo centrale della decisione del giudice del gravame, più che sul riferimento alle previsioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. c) e d), ovvero sulla previsione di cui all’art. 109 TUIR, si fonda sulla considerazione che la pretesa fatta valere con l’avviso di accertamento risultava del tutto incerta tenuto conto del fatto che, da un lato, era stato fatto richiamo al principio dell’abuso del diritto e, dall’altro, all’istituto dell’interposizione fittizia di persona, profili che, nell’apprezzamento compiuto in sentenza, sono stati valutati in termini di contraddittorietà, poichè non consentivano alla contribuente di avere certezza degli elementi fondanti le ragioni della pretesa;

va, a tal proposito, osservato che il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione (Cass. civ., 13 luglio 2018, n. 18632);

costituisce dunque condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante e assorbente lo scopo di eludere il fisco, incombendo, peraltro, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate (Cass. civ., 20 giugno 2018, n. 16217);

il presupposto, dunque, si cui si fonda la pretesa con la quale si contesta l’abuso del diritto è il fatto che sia stato utilizzato uno strumento giuridico negoziale di per sè lecito ma, tuttavia, piegato per una finalità distorta, costituendo solo un mezzo per perseguire vantaggi fiscali non leciti;

in questo contesto, la figura della interposizione fittizia di persona si pone in una prospettiva diversa: non è l’uso di uno strumento negoziale, di per sè lecito, che viene in considerazione, ma la creazione di una situazione di apparenza negoziale i cui effetti, in realtà, non sono voluti dalle parti contraenti;

questa differenziazione dell’ambito di applicazione dei due istituti, sui quali il giudice del gravame ha fondato la considerazione di fondo della contraddittorietà dell’avviso di accertamento e, quindi, della sua mancanza di chiarezza circa le ragioni fondanti la pretesa, non è stata colta dalle censure in esame che hanno, invero, argomentato in base a considerazioni ad essa non conferenti;

con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, per non avere considerato che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice del gravame, nell’avviso di accertamento erano stati evidenziati chiaramente i fatti costitutivi della pretesa fiscale;

il motivo è inammissibile;

la questione relativa alla sufficienza motivazionale dell’avviso di accertamento è stata presa in considerazione dal giudice del gravame e, a seguito di un esame del contenuto del suddetto atto, lo stesso è pervenuto alla considerazione della illegittimità della pretesa per difetto di motivazione;

va, quindi ribadito che, secondo questa Corte (Cass., Sez. Un., 28 giugno 2019, n. 17564; Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053) “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”;

con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione e falsa applicazione degli art. 112 e art. 132 c.p.c., n. 4), per non avere pronunciato sulla questione della ripresa a tassazione dell’Iva chiesta a rimborso per difetto dei presupposti di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 30;

il motivo è infondato;

la pronuncia censurata ha ritenuto che l’intero avviso di accertamento era privo di sufficiente motivazione e, in questo contesto, ha compiuto una valutazione complessiva, coinvolgente anche la questione relativa alla presente ragione di censura, sìcchè non può ragionarsi in termini di omessa pronuncia, come invece prospettato con il presente motivo;

in conclusione, sono infondati il primo, secondo e quarto motivo, inammissibile il terzo, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite che si liquidano in complessive Euro 5.600,00, oltre spese forfettarie nella misura del quindici per cento e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 28 novembre 2019.

Depositato in cancelleria il 10 settembre 2020

 

 

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