Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18732 del 10/09/2020

Cassazione civile sez. II, 10/09/2020, (ud. 22/01/2020, dep. 10/09/2020), n.18732

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20418/2019 proposto da:

N.B.I., rappresentato e difeso dall’Avvocato Giuseppe

Lufrano, con studio in Civitanova Marche via Fermi, n. 3;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato domiciliata in Roma, Via Dei Portoghesi 12;

– controricorrente –

e contro

COMMISSIONE TERRITORIALE PER IL RICONOSCIMENTO DELLA PROTEZIONE

INTERNAZIONALE ANCONA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 100/2019 della Corte d’appello di Ancona,

depositata il 24/01/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

22/01/2020 dal Consigliere Dott. Annamaria Casadonte.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– il presente giudizio di legittimità trae origine dal ricorso proposto da N.B.I., nato il (OMISSIS), avverso la sentenza che ha respinto il suo gravame nei confronti della pronuncia del Tribunale di Ancona che aveva confermato il diniego delle domande di riconoscimento dello status di rifugiato, di protezione sussidiaria e di rilascio del permesso per motivi umanitari;

– a sostegno delle domande avanzate il richiedente aveva esposto di avere abbandonato la (OMISSIS), dopo esservi ritornato una volta conclusi gli studi in Nigeria presso uno zio materno, per il timore che la nuova moglie del padre lo potesse avvelenare come aveva fatto con quest’ultimo; a causa di tale timore era dapprima ritornato in Nigeria presso lo zio, poi quest’ultimo l’aveva indotto ad andare in Libia a lavorare;

– la corte territoriale aveva respinto l’appello evidenziando come la vicenda narrata fosse riconducibile ad una vicenda privata, ispirata dalla ricerca di migliori condizioni economiche, ma non riconducibile ai requisiti per il riconoscimento dello status di rifugiato in ragione della persecuzione personale (per razza, sesso, opinioni politiche, religione e o per l’appartenenza a determinate categorie di persone);

– la corte distrettuale escludeva anche la possibilità di ravvisare i presupposti soggettivi ed oggettivi per la protezione sussidiaria ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14;

-la corte escludeva, infine, la protezione umanitaria poichè non si ravvisavano specifiche situazioni soggettive in relazione alle quali potessero paventarsi lesioni di diritti umani di particolare entità;

– la cassazione della sentenza è chiesta sulla base di tre motivi;

– resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 7 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 27, comma 1 bis, per avere qualificato i fatti posti dal ricorrente a fondamento della sua domanda come “vicende private” determinate da esigenze prettamente economiche e legate a dissapori familiari;

– il motivo è infondato;

– la qualificazione operata dalla corte territoriale appare corretta alla stregua delle allegazioni del richiedente, dalle quali non può prescindersi per la esamina delle domande di protezione;

– peraltro le vicende private possono assumere rilievo nella misura in cui i soggetti non statuali, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), che siano eventualmente responsabili di persecuzione e danno grave, non siano adeguatamente contrastati dallo Stato o dalle organizzazioni internazionali (cfr. Cass. 9043/2019);

– ha osservato questa Corte nell’ordinanza n. 9043/19 “Chi voglia ricomprendere le cosiddette “vicende private” tra le cause di persecuzione o danno grave, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale è costretto a valorizzare oltre misura il riferimento ai “soggetti non statuali” indicati nella lett. c) del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, come corresponsabili della persecuzione o del danno grave, insieme allo Stato, ai partiti e alle organizzazioni collettive. Questa tesi non è condivisibile per le seguenti considerazioni: – nella suddetta lett. c) dell’art. 5 i “soggetti non statuali” sono considerati responsabili della persecuzione o del danno grave solo “se (“può essere dimostrato che…”: cfr. art. 6 della direttiva n. 2004/83/CE) i responsabili di cui alle lettere a) e b) (vale a dire lo Stato e le organizzazioni di cui si è detto) non possono o non vogliono fornire protezione”, a fronte, evidentemente, di atti persecutori e danno grave non imputabili direttamente ai medesimi “soggetti non statuali”, ma pur sempre allo Stato o alle menzionate organizzazioni collettive; – il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 6, come si è detto, non comprende i “soggetti non statuali” tra quelli che possono offrire protezione, ma solo lo Stato, i partiti e le organizzazioni, in linea con il Considerando 19 della direttiva n. 2004/83/CE; analogamente, è significativo che gli atti persecutori analogamente, è significativo che gli atti persecutori rilevanti sono quelli consistenti prevalentemente in azioni o provvedimenti legislativi, amministrativi, di polizia o giudiziari, sanzioni penali sproporzionate o discriminatorie, rifiuto di accesso ai mezzi di tutela giuridica, ecc. (art. 7, comma 2), quindi in comportamenti riconducibili o riferibili, di regola, allo Stato o a soggetti e organizzazioni collettive; – una interpretazione che, facendo leva sul generico riferimento del legislatore ai “soggetti non statuali”, faccia assurgere le controversie tra privati (o la mancata o inadeguata tutela giurisdizionale offerta dal paese per la risoluzione delle stesse) a cause idonee e sufficienti a integrare la fattispecie persecutoria o del danno grave, verrebbe a porsi in rotta di collisione con il principio secondo cui “i rischi a cui è esposta in generale la popolazione o una parte della popolazione di un paese di norma non costituiscono di per sè una minaccia individuale da definirsi come danno grave” (Considerando 26 della direttiva n. 2004/83/CE), oltre ad essere poco sostenibile sul piano sistematico; – infatti, la protezione internazionale nelle forme del rifugio e in quella sussidiaria, come rilevato da questa Corte (Cass. n. 16362 del 2016), costituisce diretta attuazione del diritto costituzionale di asilo, che è riconosciuto allo straniero al quale sia pur sempre “impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche” (art. 10 Cost.), concetto questo cui sono estranee, in linea di principio, le vicende prive di rilevanza generale e in tal senso private, fermo restando che ai cittadini di paesi terzi e apolidi può essere “concesso di rimanere nel territorio di uno Stato membro non perchè bisognosi di protezione internazionale, ma per motivi caritatevoli o umanitari riconosciuti su base discrezionale” dagli Stati membri (Considerando 9 della direttiva n. 2004/83/CE; analogamente, a norma dell’art. 6, comma 4, della direttiva 2008/115/CE, gli Stati membri possono riconoscere ai cittadini di paesi terzi il cui soggiorno nel territorio sia irregolare un’autorizzazione o un permesso di soggiorno per “motivi caritatevoli, umanitari o di altra natura”)”;

– nell’aderire a tale precedente, va dunque ribadito che le liti tra privati per ragioni proprietarie o familiari non possono essere addotte come causa di persecuzione o danno grave, nell’accezione offerta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, trattandosi di “vicende private” estranee al sistema della protezione internazionale, non rientrando nè nelle forme dello status di rifugiato (art. 2, lett. e), nè nei casi di protezione sussidiaria, (art. 2, lett. g), atteso che i c.d. soggetti non statuali possono considerarsi responsabili della persecuzione o del danno grave ove lo Stato, i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, comprese le organizzazioni internazionali, non possano o non vogliano fornire protezione contro persecuzioni o danni gravi ma con riferimento ad atti persecutori o danno grave non imputabili ai medesimi soggetti non statuali ma da ricondurre allo Stato o alle organizzazioni collettive di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. b);

– con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) ed D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e per motivazione apparente per avere escluso che nel Paese di provenienza del richiedente vi fosse una situazione di violenza generalizzata ed indiscriminata;

– il motivo è infondato;

– la corte territoriale ha specificamente valutato la sussistenza della situazione riconducibile alla previsione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), così come delineate dalla Corte di Giustizia nella sentenza C-465/07, Elgafaji ed ha escluso sulla base di fonti auterevoli ed aggiornate (sito (OMISSIS) del Ministero degli Esteri) la ravvisabilità in (OMISSIS) di una situazione di conflitto estremo e generalizzato idoneo a coinvolgere tutta o gran parte della popolazione sì che la mera presenza in quel territorio sia motivo di esposizione al rischio di minaccia grave ed individuale;

– con il terzo motivo si censura la sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, per avere escluso la sussistenza di condizioni di vulnerabilità del richiedente in caso di rimpatrio forzoso;

– il motivo è infondato;

– la corte territoriale ha verificato, sia con riferimento alle allegazioni del richiedente che alle informazioni risultanti dalle fonti acquisite d’ufficio, se nel caso di specie erano ravvisabili specifiche situazioni soggettive (gravi condizioni di salute, figli minori, ecc. ecc.) che giustificassero il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari;

– l’esito sfavorevole di tutti i motivi giustifica il rigetto del ricorso;

– in applicazione del principio di soccombenza, parte ricorrente va condannata alla rifusione delle spese di lite a favore di parte controricorrente nella misura liquidata in dispositivo;

– ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite a favore di parte controricorrente e liquidate in Euro 2100,00 oltre spese prenotate e prenotande a debito ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 22 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 settembre 2020

 

 

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