Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18723 del 23/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 23/09/2016, (ud. 05/07/2016, dep. 23/09/2016), n.18723

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 14543-2015 proposto da:

PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, C.F. (OMISSIS), in persona del

Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, presso in cui Uffici domicilia ope legis in

ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;

– ricorrente –

contro

L.F., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, LUNGOTEVERE RAFFAELLO SANZIO 9, presso lo studio dell’avvocato

MASSIMO LUCIANI, che lo rappresenta e difende unitamente

all’avvocato AMOS ANDREONI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 15/01/2015 R.G.N. 2666/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/07/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato SPINA MARIA LUISA;

udito l’Avvocato LUCIANI MASSIMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario, che ha concluso per l’inammissibilità e in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto l’appello proposto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri avverso la sentenza del Tribunale di Roma che, in parziale accoglimento delle domande avanzate da L.F., aveva dichiarato l’illegittimità del provvedimento di collocamento a riposo, disposto nei confronti del ricorrente con decorrenza dal 1 aprile 2010, e condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri a reintegrare in servizio il dirigente sino al compimento del 65 anno di età ed a corrispondere allo stesso le retribuzioni maturate dalla data del recesso sino a quella della effettiva reintegra.

2 – La Corte territoriale ha premesso che la risoluzione anticipata e unilaterale del rapporto dirigenziale era stata disposta dalla appellante ai sensi della L. n. 102 del 2009, art. 17, comma 35 novies (che aveva modificato il D.L. 25 giugno 2008 n. 112, art. 72, comma 11, convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 133) ed era stata motivata, richiamando la circolare del 18.11.2008, ed in particolare la necessità di preservare il necessario equilibrio tra le dotazioni organiche e consistenza del personale in servizio, evitando di creare situazioni soprannumerarie non consentite dalla attuale normativa”.

3 – Il giudice di appello ha ritenuto condivisibile la dichiarata illegittimità del recesso perchè la motivazione del provvedimento era del tutto carente, sostanziandosi nel mero richiamo ai criteri generali dettati dalla stessa Presidenza del Consiglio, e perchè alla data del 1 aprile 2010 mancava un preventivo piano organico di rideterminazione dei fabbisogni del personale, adottato solo in epoca successiva alla risoluzione del rapporto, ossia nell’agosto del 2010.

4- Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la Presidenza del Consiglio dei Ministri sulla base di un unico motivo. L.F. ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1 – Il ricorso denuncia, con un unico motivo, “violazione e falsa applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11 (vigente retione temporis) e art. 74, convertito in L. n. 133 del 2008, del comma 35 novies della L. n. 102 del 2009, art. 17, del D.L. n. 98 del 2011, art. 16, comma 11, nonchè della L. n. 183 del 2010, art. 30, comma 1”. Rileva la ricorrente che:

a) con circolare n. 10 del 20 ottobre 2008 erano stati indicati i criteri generali sulla cui base occorreva poi procedere ai collocamenti a riposo;

b) detti criteri erano stati ribaditi nella successiva circolare del 18.11.2008 con la quale era stato previsto che i collocamenti a riposo sarebbero stati disposti per “preservare il necessario equilibrio tra dotazioni organiche e consistenza del personale in servizio…”;

c) il decreto del 29.10.2009, pubblicato sulla G.U. del 30.12.2009 n. 302, aveva operato una ricognizione della pianta organica della Presidenza del Consiglio dei Ministri, aumentata in modo frammentario a seguito del trasferimento di personale da altri Ministeri;

d) il successivo decreto del 5 agosto 2010 aveva rideterminato la dotazione dirigenziale, con soppressione di 7 posti di dirigente di prima fascia e 48 posti di dirigenti di seconda fascia.

In diritto evidenzia che la Corte territoriale, nell’affermare la necessità della motivazione del provvedimento di recesso, non aveva considerato la norma di interpretazione autentica dettata dal D.L. n. 98 del 2011, art. 16, comma 11, con il quale era stato previsto che la facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, potesse essere esercitata senza ulteriore motivazione nei casi in cui i criteri applicativi fossero stati preventivamente determinati con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo.

Aggiunge che le circolari del 20.10.2008 e del 18.11.2008 integravano il presupposto necessario per escludere l’obbligo di ulteriore motivazione ed afferma che la Corte territoriale aveva errato nell’affermare che la rideterminazione dei fabbisogni di personale dovesse precedere la risoluzione del rapporto. Precisa che in ambito pubblico non è possibile procedere al ridimensionamento degli organici dirigenziali se non in caso di vacanza degli stessi, sicchè necessariamente l’atto adottato con il D.M. 5.8.2010 doveva essere successivo alla risoluzione dei rapporti. Infine sostiene che non è consentito al giudice ordinario sindacare l’esercizio dei poteri datoriali quanto al merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive.

2 – E’ infondata l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sulla quale la difesa del controricorrente ha insistito anche nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. e nel corso della discussione orale.

Questa Corte ha affermato che “per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), il ricorso per cassazione deve contenere l’esposizione chiara ed esauriente, sia pure non analitica o particolareggiata, dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le reciproche pretese delle parti, con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano, le eccezioni, le difese e le deduzioni di ciascuna parte in relazione alla posizione avversaria, lo svolgersi della vicenda processuale nelle sue articolazioni, le argomentazioni essenziali, in fatto e in diritto, su cui si fonda la sentenza impugnata e sulle quali si richiede alla Corte di cassazione, nei limiti del giudizio di legittimità, una valutazione giuridica diversa da quella asseritamene erronea, compiuta dal giudice di merito.” (Cass. 3.2.2015 n. 1926).

Il ricorso deve, quindi, contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo, ivi compresa la sentenza stessa.

Ciò significa che la valutazione sulla completezza della esposizione dei fatti contenuta nell’atto introduttivo deve essere effettuata considerando il fine che il requisito mira ad assicurare e contemperando la esigenza di fornire alla Corte tutti gli elementi necessari ai fini della decisione con quella della necessaria sinteticità degli atti processuali.

Ne discende che, come evidenziato dalle Sezioni Unite di questa Corte, la “esposizione sommaria dei fatti di causa” non richiede nè la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali nè che “si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale s’è articolata” (così in motivazione Cass S U 11 4 2012 n. 5698), essendo sufficiente una sintesi della vicenda “funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata”. Le stesse Sezioni Unite hanno anche significativamente aggiunto che “il ricorso non può dirsi inammissibile quand’anche difetti una parte formalmente dedicata all’esposizione sommaria del fatto, se l’esposizione dei motivi sia di per sè autosufficiente e consenta di cogliere gli aspetti funzionalmente utili della vicenda sottostante al ricorso stesso”.

Nel caso di specie, pertanto, la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 non può essere affermata solo perchè nel ricorso non risulta riportato il contenuto degli scritti difensivi delle parti, posto che gli argomenti sui quali le stesse avevano fondato le rispettive posizioni sono chiaramente desumibili dalla sintesi contenuta nella parte introduttiva del ricorso nonchè dalla motivazione della sentenza impugnata, integralmente trascritta nell’atto.

2.1 – Il ricorso, inoltre, non è sovrapponibile a quello ritenuto inammissibile da questa Corte con la sentenza n. 11593 del 6 giugno 2016, richiamata nella memoria del controricorrente. In quel caso, infatti, il giudice di appello aveva fondato la decisione su una pluralità di rationes decidendi, non tutte specificamente censurate, ed aveva anche riconosciuto natura di norma di interpretazione autentica al D.L. n. 98 del 2011, art. 16, comma 11, pervenendo ad affermare la illegittimità del recesso dopo avere escluso che le circolari invocate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri integrassero l’atto organizzativo richiamato dalla norma interpretativa.

Al contrario la sentenza qui impugnata non ha pronunciato sulla natura dell’ art. 16, invocato dalla difesa dell’Amministrazione, nè ha detto alcunchè sulla effettiva sussistenza delle ragioni che, secondo la Presidenza, avrebbero giustificato l’esercizio della facoltà, avendo ritenuto assorbente il profilo della genericità della motivazione.

Ne discende che è ammissibile il ricorso, nella parte in cui, per sostenere la legittimità del recesso, fa leva da un lato sulla natura interpretativa del D.L. n. 98 del 2011, art. 16, comma 11, e dall’altro sulla errata applicazione del D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11.

3 – Il motivo è, peraltro, infondato.

La facoltà della Pubblica Amministrazione di risolvere unilateralmente il rapporto di impiego al raggiungimento della massima anzianità contributiva è stata prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, primo e secondo periodo, poi convertito dalla L. 6 agosto 2008, n. 112, che, nel testo originario, prevedeva: “Nel caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2 possono risolvere, fermo restando quanto previsto dalla disciplina vigente in materia di decorrenze dei trattamenti pensionistici, il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi. Con appositi decreti” (…) “sono definiti gli specifici criteri e le modalità applicative dei principi della disposizione di cui al presente comma relativamente al personale dei comparti sicurezza e difesa (n.d.r., a cui, in sede di conversione, si aggiungeva quello “affari esteri”), tenendo conto delle rispettive peculiarietà ordina mentali”.

L’art. 72, comma 11, veniva successivamente novellato dalla L. 4 marzo 2009, n. 15, art. 6, comma 3, che ne modificava il testo, sostituendo il requisito del compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni, con il requisito del “compimento dell’anzianità massima di servizio di 40 anni”.

Entrambe le formulazioni della norma, succedutesi in breve arco temporale, si limitavano a richiedere il requisito, in un caso della massima anzianità contributiva, nell’altro della massima anzianità di servizio, senza imporre ulteriori condizioni, quanto alla formazione della volontà negoziale dell’Amministrazione, e senza richiedere in modo espresso il rispetto dell’obbligo motivazionale. La determinazione di specifiche modalità applicative era, infatti, espressamente prevista solo per il personale dei comparti sicurezza, difesa ed affari esteri, in ragione delle peculiarietà dei rispettivi ordinamenti.

Successivamente, il D.L. 10 luglio 2009, n. 78, art. 17, comma 35-novies, convertito dalla L. 3 agosto 2009, n. 102, applicabile alla fattispecie ratione temporis, sostituiva il comma 11 dell’art. 72. Si faceva riferimento (anni 2009, 2010, 2011) al requisito della massima anzianità contributiva; si confermava il preavviso; si precisava la unilateralità del recesso collegandolo all’esercizio del potere di organizzazione esercitato ai sensi dell’art. 5, comma 2, del T.U., con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro; si prevedeva l’applicabilità della disciplina anche per il personale dirigenziale. L’adozione di specifici criteri e modalità applicative continuavano ad essere previsti solo per i camparti sicurezza difesa e affari esteri.

Tali punti sono rimasti immutati anche nelle successive novelle, fino all’intervento comma 5, del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, in ragione del quale il vigente art. 72, comma 11, primo periodo, prevede che “Con decisione motivata con riferimento alle esigenze organizzative e ai criteri di scelta applicati e senza pregiudizio per la funzionale erogazione dei servizi, le pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, incluse le autorità indipendenti, possono, a decorrere dalla maturazione del requisito di anzianità contributiva per l’accesso al pensionamento” (…) “risolvere il rapporto di lavoro e il contratto individuale anche del personale dirigenziale, con un preavviso di sei mesi e comunque non prima del raggiungimento di un’età anagrafica che possa dare luogo a riduzione percentuale” (…).

La ricostruzione della disciplina va completata con il richiamo al D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 16, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 luglio 2011, n. 111, che, ha stabilito: “In tema di risoluzione del rapporto di lavoro l’esercizio della facoltà riconosciuta alle pubbliche amministrazioni prevista dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 72, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, non necessita di ulteriore motivazione, qualora l’amministrazione interessata abbia preventivamente determinato in via generale appositi criteri di applicativi con atto generale di organizzazione interna, sottoposto al visto dei competenti organi di controllo”.

3.1 – Le disposizioni sopra citate sono già state interpretate da questa Corte con la sentenza n. 21626 del 23.10.2015, che ha affermato il carattere innovativo e non interpretativo del D.L. n. 98 del 2011, art. 16, e con la sentenza n. 11595 del 6 giugno 2016 con la quale, ribadito il principio, si è precisato che ” se è chiaro che il requisito della adozione dell’atto generale organizzativo (sostitutivo dell’ulteriore motivazione) è frutto di scelta innovativa (come detto dalla citata pronunzia del 2015), altrettanto chiaro e condiviso è che l’obbligo motivazionale solo de futuro sostituito dall’atto generale – sussisteva già a regolare l’originaria risoluzione di cui all’art. 72, comma 11 del D.L. del 2008″.

A dette conclusioni la Corte è pervenuta dopo avere sottolineato la necessità di interpretare la normativa che qui viene in rilievo, non solo alla luce dei principi costituzionali consacrati nell’art. 97 Cost., ma anche e soprattutto della direttiva 2000/78 CE, perchè il compimento della massima anzianità contributiva necessariamente si correla all’età del lavoratore, con la conseguenza di rendere applicabile la richiamata direttiva nella parte in cui prevede che disparità di trattamento in ragione dell’età non costituiscono discriminazione solo qualora “siano oggettivamente e ragionevolmente giustificate, nell’ambito del diritto nazionale, da una finalità legittima, compresi giustificati obiettivi di politica del lavoro, di mercato del lavoro e di formazione professionale, e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.

E’ stato, quindi, affermato che “La facoltà attribuita dal D.L. n. 112 del 2008, art. 72, comma 11, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, alle Pubbliche amministrazioni di poter risolvere il rapporto di lavoro con un preavviso di sei mesi, nei caso di compimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni del personale dipendente, deve essere esercitata, anche in difetto di adozione di un formale atto organizzativo, avendo riguardo alle complessive esigenze dell’Amministrazione, considerandone la struttura e la dimensione, in ragione dei principi di buona fede e correttezza, imparzialità e buon andamento, che caratterizzano anche gli atti di natura negoziale posti in essere nell’ambito del rapporto di pubblico impiego contrattualizzato. L’esercizio della facoltà richiede, quindi, idonea motivazione, poichè in tal modo è salvaguardato il controllo di legalità sulla appropriatezza della facoltà di risoluzione esercitata, rispetto alla finalità di riorganizzazione perseguite nell’ambito di politiche del lavoro. Tale motivazione, si aggiunge, si rende ancor più necessaria in mancanza di un atto generale di organizzazione perchè costituisce il solo strumento di conoscenza e verifica delle ragioni organizzative che inducono l’Amministrazione ad adottare atti di risoluzione contrattuale. In mancanza, la risoluzione unilaterale dei rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato viola le norme imperative che richiedono la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 5, comma 2), l’applicazione dei criteri generali di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 c.c.), e i principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost., nonchè l’art. 6, comma 1, della direttiva 78/2000/CE.”.

La sentenza impugnata, che ha ritenuto necessaria la motivazione del provvedimento di recesso ed ha escluso che potesse essere tale il mero richiamo alle circolari adottate dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla necessità “di preservare l’equilibrio fra dotazioni organiche e consistenza del personale in servizio”, è, quindi, conforme ai principi di diritto sopra richiamati, che il Collegio intende qui ribadire.

3.2 – Il motivo di ricorso è, invece, inammissibile nella parte in cui censura la sentenza impugnata denunciando la erroneità della interpretazione data alle circolari richiamate dall’appellante.

E’ consolidato, infatti, nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo cui le circolari non contengono norme di diritto e sono riconducibili alla categoria degli atti unilaterali negoziali o amministrativi, sicchè la loro interpretazione costituisce un apprezzamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice del merito, sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione (Cass. 26.7.2002 n. 1114; Cass. 10.3.2004 n. 4942; Cass 10 4.2006 n. 8296).

Nel caso di specie, inoltre, secondo lo stesso assunto della ricorrente, le circolari avrebbero integrato il presupposto di fatto in presenza del quale la amministrazione era esonerata dall’obbligo di motivare ulteriormente il provvedimento di risoluzione del rapporto, per cui risulta evidente che la valutazione espressa dalla Corte territoriale poteva essere censurata in questa sede solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, con i limiti conseguenti alla riformulazione dettata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54.

3.3 – Parimenti inammissibile è il motivo nella parte in cui richiama la L. n. 183 del 2010, art. 30, poichè la censura non è pertinente e non coglie le ragioni del decisum. La Corte territoriale, infatti, ha correttamente ritenuto che la illegittimità del recesso discendesse già dalla mancanza di motivazione, sicchè non ha effettuato il controllo sulla effettività della ragione indicata dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri quale causa del recesso.

E’ evidente, pertanto, che nessun sindacato di merito è stato effettuato sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive di competenza del datore di lavoro.

4 – Il ricorso va, pertanto, rigettato.

La complessità e la novità delle questioni trattate, solo di recente decise da questa Corte, giustificano l’integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

Non ricorrono le condizioni richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, per le ragioni indicate da Cass SU 8 5 2014 n. 9938.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa integralmente le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 5 luglio 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016

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