Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18711 del 23/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 23/09/2016, (ud. 05/05/2016, dep. 23/09/2016), n.18711

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10270-2015 proposto da:

M.P., C.F. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA LAURA

MANTEGAZZA 24, presso lo studio del Dott. GARDIN MARCO rappresentato

e difeso dall’avvocato ANGELO OLIVA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AXA S.R.L., c.f. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FABIO MASSIMO 107,

presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO TORINO, rappresentata e

difesa dall’avvocato ANTONIO SARTORI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 481/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 11/02/2015 R.G.N. 18/1/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato OLIVA ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità e in

subordina rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO del PROCESSO

Con ricorso ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 47, (c.d. rito Fornero, secondo il testo nella specie ratione temporis vigente) l’ing. M.P. chiese accertarsi l’invalidità del licenziamento per giusta causa, intimatogli il (OMISSIS) da AXA S.r.l., in conseguenza della contestata arbitraria assenza dal (OMISSIS) e di contestata insubordinazione determinata dall’irregolare rientro in servizio nei giorni dal (OMISSIS), con assunzione di rappresentanza aziendale, anche in sedi istituzionali, nel periodo di allontanamento cautelare, fatti che avevano reciso irreversibilmente l’indispensabile vincolo fiduciario e che avevano determinato nel periodo di assenza un danno economico per la sua sostituzione nonchè per lo scompenso organizzativo all’intero servizio di igiene ambientale.

Il ricorrente sostenne l’insussistenza del fatto contestatogli, deducendo di aver inviato il 30 luglio 2013 la comunicazione relativa alle ferie all’indirizzo di posta elettronica della dipendente B.L., secondo prassi aziendale, improntata all’informalità derivata dalla stretta sinergia di rapporto lavorativo esistente con la dirigenza aziendale. Ricevuta il 22 agosto la missiva, che gli contestava ai sensi degli artt. 220, 222 e 223 del c.c.n.l. le assenze giustificate con abbandono del posto di lavoro e ne disponeva la sospensione cautelare per dieci giorni, inviate le sue giustificazione nella certezza che l’addebito fosse il frutto di un equivoco, era rientrato in servizio il (OMISSIS), per poi ricevere con missiva datata 27 agosto, pervenute il 30 successivo, ulteriore contestazione, cui faceva quindi seguito il licenziamento.

Espletata Istruttoria nella fase sommaria, con audizione di quattro informatori, il giudice adito presso il Tribunale di Lecce con provvedimento del 21 maggio 2014 ordinò la reintegra dell’attore nel posto di lavoro. Avverso tale provvedimento la società propose opposizione, che venne accolta con sentenza del 28 ottobre 2014. Contro tale decisione M. Pietro, a sua volta, propose reclamo con ricorso in data 27 novembre 2014, lamentando l’omessa valutazione di elementi probatori rilevanti.

L’anzidetto reclamo veniva rigettato dalla Corte di Appello di Lecce con sentenza numero 481 in data 2/11 febbraio 2015. Secondo la Corte distrettuale, era incontestato che il M. avesse ricoperto la posizione di vertice nell’organigramma della società, soprattutto dal gennaio 2010, con ampiezza di poteri che presupponeva un intenso legame fiduciario con l’amministratore unico della società, che, sebbene estremamente attivo nel controllo dell’andamento complessivo dell’azienda, aveva di fatto delegato l’organizzazione del servizio in appalto al ricorrente, con il quale intratteneva rapporti quotidiani. Era altrettanto pacifico che l’amministratore unico della AXA venne a conoscenza dell’assenza dal lavoro dell’attore per puro caso.

Orbene, dalle dichiarazioni rese dagli informatori la Corte salentina rilevava, anzitutto, che l’organizzazione del cantiere di Mesagne prevedeva la compresenza del responsabile M. e di tre coordinatori, di modo che in ogni periodo dell’anno, estate compresa, dovevano rimanere in servizio almeno tre persone.

Dalle esaminate risultanze istruttorie, emergeva che l’assenza per infortunio di un impiegato aveva impedito di fatto l’operatività della turnazione nel periodo agosto/ottobre 2013. Peraltro, la teste B. ammise di aver ricevuto al proprio indirizzo email il modulo recante la comunicazione del periodo feriale del M., ma di non averla trasmessa all’amministratore unico, perchè ciò non rientrava nelle sue competenze.

Secondo la Corte di Appello, esisteva un’apposita modulistica che i responsabili di cantiere dovevano utilizzare per le richieste di ferie, ferie che per l’intenso legame fiduciario con l’amministrazione e per l’assenza di figure aziendali intermedie andavano portate a conoscenza dell’amministratore all’indirizzo di posta elettronica (OMISSIS), affinchè quest’ultimo le vagliasse in relazione alle contingenti necessità.

Non era attendibile la testimonianza, secondo la quale abitualmente il M. inviava le richieste di ferie alla B., trattandosi di figura non prossima al vertice aziendale, ma di una semplice impiegata di ordine. Anche a voler ritenere un’informalità di rapporti, con possibilità di deroga alla prassi standard, di certo occorreva comunque che il responsabile di cantiere informasse l’amministratore delegato delle istanze di ferie, stante la necessità di garantire la costante presenza di personale in grado di sovrintendere con competenza al servizio.

Un volta assodato che l’amministratore non ebbe notizia, nè informale e neanche formale, dell’assenza del ricorrente, il fatto che fosse stato inviato il modulo con richiesta di ferie alla B. aggravava e non attenuava la condotta del reclamante, che per il suo ruolo era tenuto alla conoscenza e al rigoroso rispetto delle prassi aziendali, essendo in buona parte responsabile del loro coordinamento. Ad ogni modo, pur volendo ipotizzarsi un errore di invio del modulo, era indubbio che il M. dovesse comunque controllare le richieste inoltrate e la loro pertinenza. La particolare situazione del cantiere di Mesagne, già da metà luglio 2013 privo del coordinatore, assente per infortunio, imponeva poi speciale lealtà e diligenza, sicchè il reclamante avrebbe dovuto sincerarsi, formalmente ed informalmente, dell’avvenuto rilascio di positiva autorizzazione alla fruizione delle ferie richieste, ben sapendo che non si poteva garantire il meccanismo della turnazione mediante la presenza di tre coordinatori.

Inoltre, secondo la Corte salentina, il rientro in servizio al termine del periodo di auto-assegnazione delle ferie, nonostante la previa comunicazione del provvedimento di sospensione, con svolgimento di attività di rappresentanza, anche istituzionale della società, era sintomatico di spregio radicale dei doveri minimi di correttezza e lealtà, caratterizzanti il rapporto sinallagmatico, con effetto di ingiustificabile autoassoluzione, neanche proceduta da misure interdittive giudiziarie.

Pertanto i comportamenti descritti, con la unilaterale decisione di godere delle ferie, avevano compromesso in modo grave e irreparabile il legame fiduciario. Nè poteva negarsi che il comportamento di M. avesse cagionato danno all’immagine della società, disservizi e sovraccarico di lavoro per gli addetti al coordinamento, oppure che le gravissime inadempienze fossero attenuate per aver lasciato il proprio recapito per i contatti di necessità, trattandosi di circostanza che nel contesto dato era essa stessa sintomatica della volontà di ricercare una possibile copertura in caso di eventuale accesso sul cantiere dell’amministratore. Neanche, ad avviso della Corte di Appello, poteva sostenersi che la tensione tra il vertice sociale ed il ricorrente, verificatasi nel luglio 2013 – originata da richieste non soddisfatte di adeguamenti retributivi e di dotazione della vettura aziendale – avesse connotato di intento ritorsivo il recesso, avuto riguardo alla piena fondatezza delle ragioni di licenziamento comminato nel rispetto degli artt. 220 e ss. del contratto collettivo nazionale di lavoro. Al contrario, proprio l’infruttuosa rivendicazione dei miglioramenti poteva aggiungere ulteriore connotazione negativa al comportamento di M., il quale, evidentemente consapevole di non poter fruire delle ferie a causa della carenza di personale ostativa alla turnazione, e non intendendo tollerare un rifiuto, preordinò l’invio del modulo all’indirizzo errato, fidando nella possibilità di accreditare l’equivoco dovuto a inefficienza dell’impiegata.

Avverso la sentenza della Corte territoriale proponeva ricorso per cassazione l’ingegner M.P. come da atto di cui alla richiesta di notifica in data 10 aprile 2015, con tre motivi:

1) errata, insufficiente e contraddittoria motivazione della motivazione in relazione a più punti decisivi della controversia (evidentemente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);

2) contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia (ancora ex art. 360, n. 5 cit.);

3) violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., nonchè della L. n. 300 del 1970, art. 7 e dei principi di specificità nonchè immodificabilità della contestazione, del principio di proporzionalità tra infrazione e sanzione ex art. 2106 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

Ha resistito al ricorso avversario la S.r.l. AXA, in persona dell’amministratore unico e legale rappresentante p.t. dottor C.G., mediante controricorso di cui è stata richiesta la notifica in data 8 maggio 2015, poi avvenuta a mezzo posta come da relata del successivo giorno 11, eccependo tra l’altro l’inammissibilità dei motivi, fatti valere ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in virtù di quanto disposto dall’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5. Inoltre, la controricorrente ha eccepito l’inammissibilità di nuovi documenti e questioni, soltanto per la prima volta dedotti con il ricorso per cassazione.

Soltanto parte ricorrente, infine, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. in vista della pubblica udienza.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il ricorso va respinto, risultando inammissibili i primi due motivi ed infondato il terzo.

Infatti, non vi è dubbio che in ordine alle prime due doglianze parte ricorrente abbia inteso denunciare i pretesi vizi al sensi e per gli effetti dell’art. 365 c.p.c., comma 1, n. 5, nella specie tuttavia applicabile nei limiti consentiti dall’attuale formulazione di detta norma di rito.

Nel caso in esame, però, non solo il ricorrente finisce per pretendere una rivisitazione del fatto, siccome nel suo complesso accertato dal giudice di merito, come tale insindacabile nel giudizio di legittimità, ma formula censure, evidentemente ai sensi del citato art. 360, n. 5, ormai non più consentita dalla conformità delle precedenti decisioni di merito (sentenza pronunciata all’esito dell’opposizione e successiva in sede di reclamo, avverso la prima).

Anche prima della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, era costante l’affermazione che tale norma non conferisse alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento.

Nel caso in esame, poi, la sentenza qui impugnata risale al due/undici febbraio 2015, in epoca quindi alquanto posteriore al 12 settembre 2012. Trova, dunque, applicazione il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 2, n. 5, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale prevede che la sentenza può essere impugnata per cassazione “per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. A norma dell’art. 54, comma 3 medesimo decreto, tale disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata In vigore della legge di conversione (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012).

Con la sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053, le Sezioni Unite hanno chiarito, con riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una quaestio fasti, che il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, consente tale denuncia nei limiti dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

In proposito, è stato, altresì, affermato che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, Il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. 8053/14 cit).

Inoltre, le Sezioni Unite di questa Corte con la succitata pronuncia n. 8053 del 07/04/2014 hanno pure chiarito che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni Inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (in senso analogo v. ancora tra le altre Cass. Au. n. 8054/2014, nonchè Cass. civ. sez. 6 – 3, ordinanza n. 21257 del 08/10/2014, secondo la quale dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, Il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente Incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione).

Ad ogni modo, l’inammissibilità del motivo discende dalla disposizione di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5.

Nulla, invero, è detto nella normativa di riferimento per il contenuto dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado introdotto dal reclamo e quindi vi è necessità di Integrazione della disciplina pur speciale dettata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 58 e 61. In ragione della ritenuta possibilità di integrare la disciplina del reclamo con quella dell’appello nel rito del lavoro, trovano conseguentemente applicazione, nel giudizio di cassazione, anche l’art. 348 ter c.p.c., comma 3, secondo cui quando è pronunciata l’inammissibilità, contro il provvedimento di primo grado può essere proposto ricorso per cassazione nei limiti dei motivi specifici esposti con l’atto di appello, nonchè il medesimo art. 348 ter c.p.c., successivo comma 4, in base al quale allorquando l’inammissibilità è fondata sulle stesse ragioni, inerenti alle questioni di fatto, poste a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione di cui al comma 3 può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, nn. 1, 2, 3 e 4, (quindi con esclusione del vizio di cui al n. 5). Opera poi – per quel che qui interessa – anche la modifica che riguarda il vizio di cui al più volte citato art. 360, n. 5 codice di rito per la pronuncia c.d. “doppia conforme”. L’art. 348 ter, comma 5, prescrive, infatti, che la disposizione di cui al comma 4 – ossia l’esclusione del n. 5, dal catalogo dei vizi deducibili di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, – Si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado. Ossia il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. doppia conforme, come è stato nella specie (Cass. lav. n. 23021 del 29/10/2014, secondo cui dunque la disciplina speciale prevista dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 58, concernente il reclamo avverso la sentenza che decide sulla domanda di impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall’art. 18 della L. 20 maggio 1970, n. 300, va integrata con quella dell’appello nel rito del lavoro. Ne consegue l’applicabllità, nel giudizio di cassazione, oltre che dell’art. 348 ter c.p.c., commi 3 e 4, anche del comma 5, il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma 4 – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c.p.c. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado, cosiddetta “doppia conforme”. In senso analogo v. anche Cass. lav. n. 22142 del 29/10/2015.

Cfr., altresì, Cass. 2 civ. n. 5528 del 10/03/2014, secondo cui nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dall’art. 348 ter c.p.c., comma 5 il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse).

Pertanto, posto che nell’ambito delle impugnazioni rientra indubbiamente anche il reclamo di cui al c.d. rito Fornero, per il quale non a caso giudica in sede di gravame la Corte di Appello, il primo ed il secondo motivo di ricorso avverso le conformi decisioni di merito, sono inammissibili.

Infatti, la prima decisione, poi confermata con il reclamo, è soltanto quella, di merito, pronunciata in sede di opposizione con sentenza, laddove l’ordinanza, pronunciata in sede di cognizione sommaria, qualora opposta, viene per intero superata dalla successiva sentenza, emessa all’esito del relativo giudizio di piena cognitio (cfr., tra l’altro, Cass. lav. n. 25046 del 11/12/2015, secondo cui la fase di opposizione non ha natura impugnatoria, ma si pone in rapporto di prosecuzione, nel medesimo grado di giudizio, con la fase sommaria, tanto che il ricorso che la introduce deve contenere gli elementi indicati dall’art. 414 c.p.c., ossia quelli idonei a delimitare il tema della decisione nel giudizio di cognizione ordinaria.

In senso analogo, v. anche Cass. lav. n. 3136 del 17/02/2015, secondo cui la fase dell’opposizione, ai sensi della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l’ordinanza, ma solo una prosecuzione del medesimo giudizio in forma ordinaria, sicchè non è configurabile alcuna violazione riconducibile all’art. 51 c.p.c., n. 4, nel caso in cui lo stesso giudice-persona fisica abbia conosciuto della causa in entrambi le fasi. Conforme Cass. lav. n. 4223 del 03/03/2016.

Cfr., inoltre, in motivazione Cass. sez. un. civ. n. 19674 del 18 settembre 2014 n. 19674, che rigettava l’eccezione d’inammissibilità del proposto regolamento preventivo, ancorchè proposto durante la prima fase del procedimento d’Impugnazione del licenziamento, quale previsto dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art 1, temine 47 e segg., che ha introdotto un nuovo rito speciale finalizzato all’accelerazione dei tempi del processo, nonchè della stessa proposizione dell’impugnativa, avendo il legislatore voluto che la questione della reintegrazione – e più in generale dell’impugnativa del licenziamento per l’accesso alle tutele di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 18 – sia subito portata innanzi al giudice e decisa in tempi rapidi. Il carattere peculiare di questo nuovo rito sta nell’articolazione del giudizio di primo grado in due fasi: una fase a cognizione semplificata (o sommarla) e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena nello stesso grado. “La prima fase è caratterizzata dalla mancanza di formalità: non c’è – rispetto al rito ordinario (quello delle controversie di lavoro) – il rigido meccanismo delle decadenze e delle preclusioni di cui agli artt. 414 e 416 c.p.c.; l’istruttoria, essendo limitata agli atti di istruzione indispensabili, è semplificata o sommaria quale quella così qualificata nel procedimento di cui all’art. 702 bis c.p.c. e segg.. La seconda fase è invece introdotta con un atto di opposizione proposto con ricorso contenente i requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., opposizione che non è una revisio prioris istantiae, ma una prosecuzione del giudizio di primo grado, ricondotto in linea di massima al modello ordinario, con cognizione piena a mezzo di tutti oli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. La questione di legittimità costituzionale della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, e dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4 sollevata dal giudice rimettente per l’ipotesi in cui la fase dell’opposizione sia da configurarsi carne un vero e proprio giudizio di carattere impugnatorio è stata dichiarata manifestamente inammissibile dalla Corte (C. cost, ord., 16 luglio 2014 n. 205), che ha rilevato l’improprio tentativo di ottenere da questa Corte, con uso distorto dell’incidente di costituzionalità, l’avallo dell’interpretazione proposta dal rimettente in ordine ad un contesto normativo che egli pur riconosce suscettibile di duplice lettura; tanto più che il giudice rimettente riteneva essere preferibile, e costituzionalmente più compatibile, l’opposta interpretazione, secondo cui andrebbe, invece, escluso un tale contenuto impugnatorio alla opposizione.

Quindi dopo una fase iniziale concentrata e deformalizzata – mirata a riconoscere, sussistendone i presupposti, al lavoratore ricorrente una tutela rapida ed immediata e ad assegnargli un vantaggio processuale (da parte ricorrente a parte eventualmente opposta), ove il fondamento della sua domanda risulti prima facie sussistere alla luce dei soli atti di istruzione indispensabili – il procedimento si riespande nella fase dell’opposizione, alla dimensione ordinaria della cognizione piena con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti. L’esigenza di evitare che la durata del processo ordinario si risolva in un pregiudizio per la parte che intende far valere le proprie ragioni (C. cost. 28 gennaio 2010 n. 16) va coniugata sempre con l’effettività e pienezza della tutela. La diversità e peculiarità della materia giustificano un binario accelerato nei limiti in cui – come ha avvertito la Corte costituzionale con riferimento a moduli processuali speciali finalizzati ad accelerare la definizione delle controversie (C cost. 10 novembre 1999 n. 42) – non sia pregiudicato lo scopo e la funzione del processo e non sia compromessa l’effettività della tutela giurisdizionale. La quale potrebbe in ipotesi necessitare di un’istruttoria non sommaria, evenienza questa che l’art. 702 ter c.p.c., commi 2 e 3 prevede in generale nel procedimento sommario di cognizione contemplando la conversione nel rito ordinario (non diversamente da quanto previsto per quello che era uno speciale procedimento sommario di cognizione in materia societaria, finanziaria e creditizia dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 19, comma 3, prima dell’abrogazione L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 54) e che invece solo un’espressa disposizione derogatoria, quale quella contemplata dal D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 3, comma 1, esclude per lo speciale rito sommario di cognizione applicabile alle controversie disciplinate dal Capo 3 del medesimo D.Lgs.. La questione di costituzionalità avente ad oggetto uno di tali ultimi speciali procedimenti sommari di cognizione, sollevata in particolare in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo dell’ingiustificato limite alla prova, è stata ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale (C. cost 23 gennaio 2013 n. 10), non avendo in particolare il giudice remittente sperimentato la possibilità di interpretare la norma nel senso che essa consenta al giudice di assicurare, pur nell’ambito dell’istruttoria deformalizzata, propria del procedimento sommario di cognizione, le garanzie che egli ritiene necessarie al fini del rispetto dei parametri costituzionali invocati.

Si tratta, quindi, nella specie di una fase del giudizio di primo grado – la prima fase – che è semplificata e sommaria, ma non già cautelare in senso stretto: non occorre la prova di alcun concreto periculum, essendo l’urgenza preventivamente ed astrattamente valutata dal legislatore in considerazione del tipo di controversia. La sommarietà riguarda le caratteristiche dell’istruttoria, senza che ad essa si ricolleghi una sommarietà della cognizione del giudice, nè l’instabilità del provvedimento finale (l’idoneità al giudicato è espressamente prevista per la sentenza resa all’esito dell’opposizione e non può essere esclusa per l’ordinanza conclusiva della fase sommaria, irrevocabile fino alla conclusione di quella di opposizione; sul passaggio in giudicato dell’ordinanza emessa nell’ordinario rito sommario di cognizione ex art. 702 bis c.p.c. v. Cass., sez. 6-1, 10 luglio 2012, n. 11512)….”

Di conseguenza, Casa. lav. n. 3136 del 04/12/2014 – 17/02/2015, citata, richiamava tra l’altro l’ordinanza delta Corte costituzionale n. 205/2014 e quella dette Sezioni unite civili n. 19674/14 per confermare che la fase dell’opposizione, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 51, non costituisce un grado diverso rispetto a quella che ha preceduto l’ordinanza: essa non è, In altre parole, revisio prioris instantiae ma solo una prosecuzione del giudizio di primo grado in forma ordinaria e non più urgente, sicchè le Sezioni unite di questa Corte avevano espressamente definito quella successiva all’opposizione come fase del giudizio di primo grado).

Dunque, nella specie non ha alcuna rilevanza l’originaria ordinanza di reintegra del 21 maggio 2014, poichè superata dalla successiva sentenza n. 4499/28.10.2014 (con accoglimento dell’opposizione della AXA S.r.l, avverso il primo provvedimento), sentenza poi confermata dalla successiva pronuncia della Corte di Appello, che rigettava il reclamo del M.. Pertanto, sussiste la c.d. doppia conforme, che preclude l’esame delle censure di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. In base a quanto previsto sul punto dall’art. 348 ter stesso codice di rito.

Quanto, poi, al 3 motivo, il ricorrente sostiene In particolare che dal tenore delle contestazioni a suo tempo mossegli, preliminari all’impugnato licenziamento, mai ed in alcun modo gli era stato ascritto che con il suo comportamento avesse cagionato danno all’immagine della società, disservizi e sovraccarico di lavoro per gli addetti al coordinamento del cantiere, e tanto meno che la sua assenza, peraltro giustificata, avesse pregiudicato il meccanismo di rotazione fra i tre coordinatori, con conseguente palese violazione dell’art. 24 Cost. e 7 dello Statuto del Lavoratori, essendo stata ritenuta la legittimità del recesso in base a fatti nuovi rispetto all’oggetto dell’addebito disciplinare.

La violazione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, unitamente all’inosservanza dei dettami di cui al citato art. 7, aveva impedito al ricorrente, in sede di reclamo, di difendersi adeguatamente in ordine a circostanze non costituenti oggetto di addebito disciplinare, introdotte artatamente nella comparsa di costituzione della reclamata ed utilizzate Illegittimamente dalla Corte di Appello per supportate il provvedimento qui poi impugnato. Nulla di quanto rappresentato dalla Corte di Appello nei riportati brani della motivazione corrispondeva al vero e comunque poteva essere posto a sostegno della decisione, in quanto in nessun modo era stato contestato negli addebiti disciplinari di non aver osservato le disposizioni aziendali in materia di turnazione.

Quindi, venivano riportati fatti e circostanze come già precisati nelle note autorizzate depositate il 13 marzo 2014, a seguito dell’escussione degli informatori e nella memoria difensiva di costituzione nella fase di opposizione.

Quanto ivi precisato, secondo il ricorrente, denunciava l’evidente errore in cui era incorso il collegio giudicante, in primis per palese violazione di legge, perchè l’omesso rispetto della turnazione non aveva mai formato oggetto di un addebito disciplinare e comunque perchè l’operatività della turnazione era regolarmente avvenuta, stante l’infortunio del D.C. certificato il 16 agosto e non nel mese di luglio, come sin da subito precisato da esso M. e come attestato dal suddetto certificato 16-08-13, allegato al ricorso.

L’azienda, Infatti, pur avendo precisa contezza dell’esatta data In cui avvenne l’Infortunio -in base alla documentazione inviata dal diretto interessato- aveva ben pensato di tacere tale dato significato ai giudici dell’Appello, giungendo addirittura a sfruttare a proprio favore nei suoi scritti difensivi l’erroneo ricordo dell’informatore, così alterando la verità fattuale degli eventi ed orientando in maniera falsata il percorso motivazionale del collegio giudicante. Era documentalmente accertato che la turnazione fu rispettata anche nel mese di agosto, atteso che il D.C. certifica il proprio infortunio il giorno 16, dopo aver goduto delle ferie estive in turnazione con i colleghi sino al giorno undici, e qualche giorno dopo à suo rientro in azienda, in data 12 agosto, allorquando il M. aveva iniziato le proprie ferie nel periodo di turno previsto.

D’altro canto, parimenti erronea, priva di coerenza logica ed infondata nella ricostruzione, oltre che offensiva nel riguardi di esso ricorrente, era l’ulteriore deduzione della Corte distrettuale, secondo cui il reclamante, evidentemente consapevole di non poter fruire delle ferie, a causa della carenza di personale che Impediva la turnazione, non intendendo tollerare un rifiuto, aveva preordinato l’invio del modulo ad un indirizzo errato, fidando nella possibilità di accreditare l’equivoco dovuto a inefficienza dell’impiegata. Il collegio giudicante, pertanto, si era basato su di un dato (attuale assolutamente falso, oltre che mai contestato in sede disciplinare, ma ritenuto determinante per la decisione, cosicchè la sentenza della Corte territoriale risultava viziata nel procedimento di determinazione del convincimento, giuridicamente scorretta nella valutazione degli elementi di fatto e di diritto sottesi alla vicenda in esame, oltre che priva di coerenza logica, ingiusta ed irragionevole nelle deduzioni conclusive.

Infine, nell’illustrare i! terzo motivo, il ricorrente ha sostenuto che a seguito della complessiva analisi delle risultanze istruttorie, emerge l’assoluta fondatezza e non pretestuosità della domanda di cui al ricorso introduttivo, sicchè ancor più iniqua e stranamente punitiva, oltre che Illegittima, appariva la condanna del reclamante alle spese, tanto più che il giudice investito dell’opposizione le aveva compensate, proprio in ragione della novità della sua decisione e della opinabilità della questione fondata sulle medesime risultanze istruttorie in base alle quali il primo giudicante (della fase sommaria) aveva accolto la domanda di esso ricorrente.

Tanto premesso, relativamente al terzo motivo in effetti vi risulta una commistione di doglianze varie poco, se non per nulla, attinenti con la previsione normativa di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (violazione o falce applicazione di norme di diritto e dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro), cui indubbiamente appare ispirato, almeno nella sua formale intestazione il suddetto terzo mezzo d’impugnazione, che va ad ogni modo disatteso alla luce delle seguenti considerazioni.

Nella prima parte della censura, invero, il ricorrente si duole della sentenza de qua per aver deciso in base a fatti non previamente contestati in sede disciplinare da parte datoriale, di modo che non viene in rilevo un error in iudicando, quanto piuttosto un error in procedendo, rilevante unicamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (nullità della sentenza o del procedimento), non trattandosi di recesso intimato sulla scorta di circostanze non preventivamente contestate ai sensi del citato art. 7, ma di decisione giudiziale pronunciata, almeno alla stregua di quanto dedotto dal ricorrente, ultra penta, ossia In base ad elementi di cognizione non allegati in occasione del licenziamento, successivamente impugnato giudizialmente dal lavoratore, elementi che sarebbero stati poi soltanto irritualmente introdotti nel processo mediante note illustrative. Le inderogabili garanzie contemplate dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 infatti, operano all’interno del procedimento disciplinare instaurato dal datore di lavoro e vengono in rilievo, all’esterno, qualora violate, nel caso in cui la conseguente sanzione sia impugnata davanti al giudice, il quale a sua volta può incorrere nella violazione dei principi fissati dall’art. 112 c.p.c. (in tema di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato), tutelabile in sede di legittimità ai sensi del citato alt. 360 n. 4, non soltanto quando il giudicante oltrepassi I limiti della domanda, ma anche laddove pronunci d’ufficio su eccezioni proponibili soltanto dalle parti, e così anche nel caso qui in esame, allorchè fondi la sua decisione in materia di licenziamento su fatti che non avevano formato oggetto di regolare contestazione ex cit. art. 7. In altri termini, per quanto dedotto dal ricorrente nella specie, i precetti di cui all’art. 7 non sono stati violati dalla società AXA, ma dal giudice, che avrebbe deciso in base a fatti non contestati e comunque non ritualmente acquisiti in giudizio, sicchè in effetti il giudice di merito avrebbe in primo luogo direttamente violato il divieto di ultrapetizione di cui al cit. art. 112, ciò poi tanto più nel caso qui in esame, laddove si lamenta contestualmente anche la violazione dell’art. 24 Cost. (che infatti si riferisce al soli procedimenti giudiziari, come appare palese dalla sua formulazione, sicchè, per altro verso, è inammissibile l’estensione dei principi ivi fissati anche ai procedimenti disciplinari o amministrativi in genere. Cfr. tra l’altro Cass. lav. n. 7153 del 17/03/2008, secondo cui nei sistema delineato dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 deve escludersi la facoltà per il lavoratore incolpato di farsi assistere da un legale, non essendovi nella legge alcun riferimento all’assistenza cosiddetta tecnica, che è normalmente prevista nel nostro ordinamento solo in giudizio ex art. 24 Cost., e che può essere riconosciuta o meno al di fuori di tale ipotesi in base a valutazione discrezionale del legislatore. Ne consegue che l’ontologica diversità che sussiste tra l’anzìdetto procedimento disciplinare e quello giurisdizionale rende palesemente priva di fondamento anche la prospettazione, sotto il profilo innanzi specificato della mancata previsione dell’assistenza tecnica del lavoratore, di un contrasto tra la norma del citato art. 7 ed il principio, costituzionalmente garantito dall’art. 111 Cost., del “giusto processo”. In senso analogo, anche Cass. lav. n. 5057 del 15/03/2016, secondo cui nel sistema delineato dall’art. 7 St. lav. il diritto del lavoratore di farsi assistere da un rappresentante sindacale esaurisce la tutela del diritto di difesa, non essendo prevista l’assistenza cosiddetta tecnica, che è costituzionalmente assicurata nel nostro ordinamento solo in giudizio e che può essere riconosciuta o meno al di fuori di tale ipotesi in base a una valutazione discrezionale del legislatore, sicchè non assume rilievo che il lavoratore, per gli stessi fatti oggetto di rilievo disciplinare, sia chiamato a rispondere in sede penale, considerata la diversità di struttura del procedimento disciplinare, iscritto nell’ambito del rapporti privatistici).

Ad ogni modo, il motivo risulta altresì insufficientemente formulato, poichè tutto il ricorso dell’Ing. M. non riporta mai integralmente il testo delle contestazioni disciplinari (ma soltanto alcuni brani, in buona parte per giunta omissati), In relazione alle quali si assume la violazione ovvero la falsa applicazione di quanto previsto dalla L. n. 300 del 1970, art. 7. Nè, d’altro canto, il ricorrente ha reso noti gli specifici e compiuti motivi posti a base del suo reclamo avverso la sentenza che, in accoglimento dell’opposizione proposta da parte datoriale, aveva finito per rigettare la domanda dell’attore.

Pertanto, risultando in tal modo violate le prescrizioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, (ivi previste a pena d’inammissibilità), non è possibile verificare in quali precisi termini e limiti siano stati Investiti i giudici del reclamo avverso l’impugnata sentenza di opposizione per stabilire la pertinenza, la ritualità e la fondatezza, o meno, di quanto poi denunciato circa gli asseriti vizi in sede di ricorso per cassazione, onde accertare, quindi, anche se effettivamente le valutazioni e le conseguenti statuizioni di merito siano state attinenti alle asserite nuove e o diverse circostanze rispetto, alla portata della duplice e separata contestazione disciplinare, in virtù della quale risulta poi intimato il recesso.

Quanto, poi, alle restanti doglianze formulate nel motivo, le stesse invero si risolvono in apprezzamenti e valutazioni di fatto, concernenti le diverse valutazioni motivatamente espresse nella sentenza impugnata dal competente giudice di merito, come tali incensurabili, dovendosi rinviare a quanto già argomentato sulla inammissibilità delle deduzioni in proposito svolte con i primi due motivi di ricorso. Va aggiunto, poi, che le anzidette critiche, contenute nella seconda parte del 3 motivo, siccome attinenti in effetti alle motivazioni della impugnata pronuncia, sono per un verso assolutamente inconferenti rispetto al vizio denunciatile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e per altro verso, siccome in astratto sussumibili soltanto nell’ambito di quanto previsto dallo stesso art. 360, n. 5 ad ogni modo non ammissibili per effetto della c.d. doppia conforme, sulla quale si rimanda a quanto diffusamente osservato sul punto con riferimento ai primi due motivi di ricorso.

Peraltro, quanto all’errore in cui sarebbero Incorsi i giudici di merito (segnatamente dei reclamo, poichè nulla è stato allegato in merito alla sentenza che nell’accogliere l’opposizione rigettava la domanda), circa la documentazione relativa alla turnazione di agosto 2013 – premesso ancora che il ricorso è carente nell’enunciazione di come, quando e dove tale documentazione sarebbe stata ritualmente allegata e prodotta nel corso del giudizio di merito (v. sul punto anche le eccezioni formulate a pag. 11 del controricorso, circa il certificato medico D.C. e le ferie di costui nonchè la data d’infortunio del medesimo, rifiutando il contraddittorio su questioni e allegazioni proposte per la prima volta In sede di legittimità) -comunque l’asserito errore potrebbe semmai risultare rilevante come errore revocatorio (ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 4), non già di certo integrando vizio denunciatile tra quelli ammessi dall’art. 360 codice di rito ai fini del ricorso per cassazione.

Quanto, poi, alla Ipotizzata sproporzione tra l’ascritta infrazione e la sanzione in concreto applicata, va richiamato il principio secondo cui li giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censuratile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (Casa. sez. lav. n. 8293 del 25/05/2012, conforme tra le altre Cass. n. 7948 del 2011), laddove nel caso qui in esame le argomentazioni della Corte distrettuale non soltanto appaiono corrette sotto ogni profilo, ma risultano altresì insindacabili per difetto di rituali ed ammissibili impugnazioni sul punto, alla stregua di quanto in precedenza rilevato.

Infine, parimenti inconferenti sono le ulteriori deduzioni di parte ricorrente con il 3 motivo, relativamente al regolamento delle spese, per cui la Corte di Appello, ma limitatamente al reclamo (cfr. il dispositivo della sentenza) condannava il M. al conseguente rimborso, così come ivi liquidato (peraltro senza provvedere L. 24 dicembre 2012, n. 228, ex art. 1, comma 17 che ha modificato il D.P.R. n. 115 del 2002, inserendo all’art. 13, dopo il comma 1-ter, Il comma 1-quater, in ordine al doppio del contributo unificato nel caso in cui l’impugnazione, anche Incidentale, sia respinta Integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, laddove poi il successivo comma 18 stabilisce che le disposizioni di cui al comma 17 si applicano ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della medesima L. n. 228 del 2012, avvenuta il primo gennaio 2013); il tutto, evidentemente, in base al principio della soccombenza, fissato dall’art. 91 c.p.c., cui è possibile derogare nel soli eccezionali e tassativi casi previsti dall’art. 92 c.p.c., però qui del tutto insussistenti, tenuto conto altresì conto che il ricorso introduttivo del giudizio risale al dicembre 2013, sicchè ratione temporis opera la modifica dell’art. 92, introdotta con la L. 18 giugno 2009, n. 69 con l’art. 45, comma 11 (Se vi è soccombenza reciproca, o concorrono altre gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti).

Pertanto, il ricorso va respinto con la condanna alle spese del ricorrente, rimasto soccombente, tenuto altresì al versamento dell’ulteriore contributo unificato come per legge.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna il ricorrente ai rimborso delle relative spese, che liquida a favore della società controricorrente in Euro 3000,00 (tremila/00) per compensi ed in Euro 100,00 (cento/00) per esborsi, oltre che alle spese generali in ragione del 15%, nonchè I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016

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