Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 1867 del 25/01/2018


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Cassazione civile, sez. II, 25/01/2018, (ud. 19/10/2017, dep.25/01/2018),  n. 1867

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Su conforme ricorso di New Gi and Max s.r.l., il Tribunale di Busto Arsizio ingiunse a H.R., titolare dell’omonima impresa individuale, il pagamento dell’importo di Euro 19.087,56 a saldo del corrispettivo per la fornitura di merce.

H.R. propose opposizione affermando di non aver mai richiesto nè ricevuto la merce in questione, tant’è che gli ordinativi – che produceva – risultavano trasmessi da tale società Hertz Moden GmbH; chiese quindi la revoca del decreto ingiuntivo.

La ricorrente, costituendosi, evidenziò che la società da cui provenivano gli ordini d’acquisto era comunque riconducibile a H.R., il quale aveva gestito i diversi rapporti di fornitura in modo confusionario, effettuando ordini cumulativi per entrambe le imprese ma caratterizzandosi, di fatto, per essere sempre il soggetto acquirente, ancorchè con l’utilizzo di distinti identificativi fiscali cui venivano conseguentemente intestate le fatture per il pagamento dei corrispettivi; rilevò che, in ogni caso, le forniture cui si riferiva il decreto ingiuntivo riguardavano ordinativi trasmessi da H.R. in qualità di titolare dell’omonima impresa individuale, evidenziando che le fatture recavano l’identificativo fiscale di quest’ultima, come specificamente richiesto dall’agenzia che aveva intermediato l’affare; chiese, pertanto, il rigetto dell’opposizione.

Il Tribunale, all’esito dell’istruttoria, respinse l’opposizione e confermò il decreto ingiuntivo.

2. La sentenza venne appellata da H.R..

In sede di gravame l’appellante produsse alcuni documenti relativi alle forniture, dai quali – a suo dire, e per quanto qui ancora di interesse – doveva evincersi che al contratto era applicabile il codice commerciale tedesco; rilevò, infatti, che la società Hertz Moden GmbH era stata costituita in (OMISSIS) e che tanto rendeva applicabile, in base alla L. n. 218 del 1995, art. 25 la legge nazionale del luogo ove la società era stata costituita; invocò in via alternativa la lex contractus, assumendo che per espressa volontà delle parti si trattava della legge nazionale tedesca poichè gli ordinativi della merce recavano scritta la locuzione “Es gilt das Recht der BRD”; insistette, infine, in tutte le difese già svolte nel giudizio di primo grado.

New Gi and Max s.r.l. si costituì chiedendo il rigetto del gravame e la conferma della sentenza.

4. La Corte d’Appello di Milano respinse l’impugnazione.

A sostegno della decisione, i giudici d’appello rilevarono innanzitutto l’inammissibilità delle nuove produzioni effettuate dall’ H., non ravvisando la sussistenza di un ritardo incolpevole o della relativa indispensabilità – secondo il dettame dell’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo vigente all’epoca – trattandosi di documenti attinenti a questioni la cui rilevanza si era già manifestata sin dal sorgere della lite.

In relazione, poi, ai motivi di appello attinenti alla legge applicabile, ne rilevarono la genericità, poichè l’Hertz non aveva indicato nè la specifica disposizione applicabile, nè, soprattutto, in quali termini questa avrebbe potuto condurre all’accoglimento dell’opposizione.

Infine, e quanto alla sussistenza di un rapporto contrattuale fra le parti, i giudici d’appello richiamarono gli esiti dell’istruttoria espletata in primo grado, dalla quale era emersa la pertinenza del credito all’impresa individuale, ed attribuirono rilievo al fatto che l’Hertz non aveva ottemperato all’ordine di produzione delle proprie scritture contabili rivoltogli dal tribunale ex art. 210 c.p.c., onde verificare se vi fossero state registrate le fatture emesse dalla venditrice, nè era comparso all’interrogatorio formale deferitogli.

5. Avverso detta sentenza ricorre per cassazione H.R. sulla base di otto motivi; l’intimata resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione dell’art. 345 c.p.c., dolendosi della ritenuta inammissibilità dei documenti nonostante la loro indispensabilità ai fini della decisione della causa.

1.1. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Al riguardo, questa Corte a Sezioni Unite ha affermato che “nel giudizio di appello costituisce prova nuova indispensabile di cui all’art. 345 c.p.c., comma 3, nel testo previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, conv. dalla L. n. 134 del 2012, quella di per sè idonea a eliminare ogni possibile incertezza circa la ricostruzione fattuale accolta dalla pronuncia gravata, smentendola o confermandola senza lasciare margini di dubbio oppure provando quel che era rimasto indimostrato o non sufficientemente provato, a prescindere dal rilievo che la parte interessata sia incorsa, per propria negligenza o per altra causa, nelle preclusioni istruttorie del primo grado” (v. Cass., S.U. 4.5.2017, n. 10790).

Dalla corretta applicazione di tale principio discende la necessità che la parte metta la Corte nelle condizioni di poter valutare il carattere indispensabile della prova nuova.

L’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia dedotto un error in procedendo, presuppone infatti che la parte, nel rispetto del principio di autosufficienza, riporti nel ricorso tutti gli elementi ed i riferimenti atti ad individuare il vizio processuale nei suoi termini esatti e non in modo generico, sì da consentire alla Corte di effettuare, senza compiere generali verifiche sugli atti, il controllo del corretto svolgersi dell’iter processuale (in tal senso v. Cass. 13.7.2017, n. 17299; Cass. 30.9.2015, n. 19410).

Nel caso di specie il ricorrente si limita ad una generica indicazione dei documenti prodotti in appello, dei quali poi descrive solo sommariamente la natura e sintetizza il contenuto, così da precludere a questa Corte una compiuta valutazione della loro idoneità a sovvertire la ricostruzione fattuale di cui alla sentenza impugnata.

2. Il secondo, sesto e settimo motivo possono essere esaminati congiuntamente, concernendo tutti la questione della legge applicabile, che il ricorrente individua – per la prima volta in questa sede di legittimità – nel codice commerciale tedesco.

Con il secondo motivo, in particolare, è denunziata violazione della L. n. 218 del 1995, art. 14.

Sostiene il ricorrente che la corte d’appello aveva il dovere di accertare d’ufficio la legge applicabile al rapporto dedotto in giudizio, dovere che nel caso di specie si traduceva nell’obbligatoria applicazione delle norme di conflitto e perciò della legge nazionale tedesca, se del caso previa acquisizione degli idonei strumenti interpretativi e richiesta di collaborazione alle parti.

Con il sesto ed il settimo motivo sono poi dedotte violazione degli artt. 24 e 111 Cost. e nullità della sentenza, nonchè violazione “delle regole legali di ermeneutica previste dal codice commerciale tedesco”.

Al riguardo, il ricorrente assume anzitutto che la corte d’appello avrebbe interpretato il contratto senza specificare i criteri adottati in conformità alle previsioni del codice civile italiano, così da ritenere “tacitamente applicabile” la legge tedesca, senza tuttavia procedere alla necessaria instaurazione del contraddittorio sul punto.

Aggiunge poi che, in ogni caso, una corretta applicazione della legge tedesca avrebbe dovuto condurre ad una diversa considerazione dei singoli ordini d’acquisto, da interpretare autonomamente in base alle regole ermeneutiche proprie, così da ritenere che il contratto si fosse in realtà perfezionato con la società e non con l’impresa individuale.

Le censure, peraltro articolate in termini non privi di una certa contraddittorietà (laddove in particolare il ricorrente si duole della mancata applicazione della legge nazionale tedesca ed al contempo assume che la corte d’appello la avrebbe tacitamente applicata), sono complessivamente infondate; esse rendono tuttavia necessaria una correzione della motivazione della sentenza impugnata.

2.1. Quest’ultima non può infatti essere condivisa nella parte in cui ha ritenuto inammissibile la doglianza relativa alla legge regolatrice del rapporto in mancanza della specifica indicazione delle disposizioni straniere applicabili.

Come questa Corte ha più volte affermato (si vedano ad es. Cass. 29.12.2016, n. 27365; Cass. 24.6.2009, n. 14777), l’obbligo del giudice di ricercare, d’ufficio, le fonti del diritto va riferito anche alle norme giuridiche degli ordinamenti stranieri, se del caso individuate con gli strumenti di cui alla L. n. 218 del 1995, art. 14 e per la cui acquisizione è possibile ricorrere a qualsiasi mezzo, senza che sussista, in capo alla parte che la invochi, alcun onere di indicazione nè di allegazione documentale.

Del resto, specifica ancora la prima delle pronunzie poc’anzi citate, la puntuale individuazione della legge applicabile sfugge a qualsiasi preclusione, trattandosi di un dovere officioso del giudice; pertanto, la deduzione della parte che ne lamenti l’erronea individuazione non costituisce un’eccezione, bensì una sollecitazione al giudice ad avvalersi del dovere di fare applicazione della norma effettivamente destinata a regolare il caso di specie, in attuazione del principio iura novit curia, dovere la cui violazione costituisce ragione di ricorso per violazione di legge (in tal senso si veda anche Cass. 26.10.2015, n. 21712).

2.2. Ciò posto, e quanto all’individuazione della legge applicabile, va osservato che la controversia ha ad oggetto una fornitura di beni eseguita da un soggetto con sede d’affari in Italia ad uno con sede d’affari in Germania.

Consegue il rilievo secondo cui il rapporto ha carattere internazionale; è da tale rilievo, infatti, che deriva la necessità di previa individuazione del diritto sostanziale applicabile.

Erra tuttavia il ricorrente nell’affermare che a tale individuazione si debba procedere con ricorso alle norme di diritto internazionale privato; a tale approccio, infatti, dev’esserne preferito uno diverso, che favorisca ove possibile l’applicazione di norme di diritto sostanziale.

Al rapporto in questione è infatti prima facie applicabile una convenzione internazionale di diritto materiale uniforme, e segnatamente la Convenzione delle Nazioni Unite sui contratti di vendita internazionale di beni mobili del 1980, ratificata con L. 11 dicembre 1985, n. 765, ed entrata in vigore il 1 gennaio 1988.

La preferenza per la Convenzione delle Nazioni Unite rispetto alle norme di diritto internazionale privato si fonda essenzialmente su un giudizio di prevalenza del diritto materiale uniforme rispetto a tali ultime norme (e ciò indipendentemente dalla loro fonte, cioè anche per il caso che esse stesse abbiano origine da una convenzione internazionale).

Il diritto materiale uniforme, infatti, presenta per definizione carattere di specialità, poichè risolve direttamente il problema della disciplina della fattispecie, ovvero evitando il doppio passaggio consistente dapprima nell’individuazione del diritto applicabile prima e, quindi, nell’applicazione dello stesso, come deve necessariamente accadere quando si fa ricorso alle regole del diritto internazionale privato.

2.3. Tanto premesso, sussistono nel caso di specie tutti gli elementi che conducono all’applicazione della Convenzione.

Dal punto di vista materiale, anzitutto, il rapporto dedotto in giudizio costituisce un contratto di compravendita.

In tal senso, pur in mancanza di un’espressa definizione del corrispondente tipo contrattuale all’interno della Convenzione, la relativa qualificazione può evincersi dal combinato disposto degli artt. 30 e 53.

In base a tali regole, e da un punto di vista oggettivo, è contratto di compravendita quello in virtù del quale il venditore è obbligato a consegnare i beni, trasferirne la proprietà ed eventualmente rilasciare tutti i documenti relativi, mentre il compratore è obbligato a pagare il prezzo ed a prendere in consegna i beni; elementi, tutti questi, che pacificamente ricorrono nel caso di specie.

Inoltre, e sempre sotto il profilo oggettivo, sussiste il requisito (pacifico) della natura mobile e tangibile dei beni al momento della consegna.

Sotto il profilo soggettivo, poi, al rilievo del carattere di internazionalità del contratto deve aggiungersi quello, necessario, del fatto che le parti contraenti abbiano al momento della conclusione la loro sede d’affari in Stati diversi (circostanza incontestata e dalle stesse parti ben conosciuta) e che tali ultimi siano Stati contraenti della Convenzione al momento della conclusione del contratto (art. 1, comma 1, lett. a), elemento qui pacifico poichè la Convenzione è entrata in vigore sia in Germania che in Italia il 1 gennaio 1988, ben prima della conclusione del contratto.

2.4. Dev’essere peraltro osservato che l’art. 6 della Convenzione consente alle parti di escluderne l’applicazione e che la giurisprudenza, italiana e straniera, ammette da tempo la possibilità di procedere a tale esclusione anche in modo tacito, ovvero mediante l’indicazione nel contratto di elementi significativi della volontà di assoggettarlo ad una diversa disciplina legale.

A tanto possono riferirsi gli argomenti del ricorrente relativi al fatto che le parti avrebbero optato per l’applicazione della legge domestica tedesca mediante l’apposizione sugli ordini d’acquisto della locuzione “Es gilt das Recht der BRD” (letteralmente: la legge applicabile è quella della Repubblica Federale di Germania).

Ma anche a voler attribuire a tale espressione il valore di opzione sulla legge applicabile, va osservato che la stessa – nel suo semplice riferimento alla legge “della Repubblica Federale di Germania” – non è idonea ad escludere l’applicazione della Convenzione, che costituisce comunque parte integrante dell’ordinamento indicato, ancorchè normativa di fonte sovranazionale e destinata a disciplinare rapporti internazionali e non domestici.

In altre parole, e come ritenuto dalla giurisprudenza italiana e straniera, al fine di escludere l’applicazione della Convenzione le parti devono dimostrare un chiaro e consapevole intento, essendo insufficiente al riguardo la mera designazione di una legge nazionale, in mancanza di elementi ulteriori dai quali sia possibile stabilire che esse hanno inteso riferirsi al solo diritto domestico.

2.5. Da tutto quanto esposto deriva il rigetto dei motivi, in quanto sinergicamente volti alla regolamentazione della fattispecie in base al codice commerciale tedesco, sia pur per ragioni diverse da quella indicate dalla corte d’appello, e cioè per il fatto che il rapporto è invece disciplinato dalla Convenzione di Vienna.

3. Alla luce delle considerazioni che precedono vanno poi scrutinati il terzo, il quarto ed il quinto motivo, con i quali il ricorrente lamenta – sotto diversi profili – violazione dell’art. 1362 c.c., nullità della sentenza ed omesso esame di fatti decisivi, in relazione alla ritenuta imputabilità dei contratti alla propria impresa individuale e non alla diversa società Hertz Moden GmbH.

Assume in particolare il ricorrente che la corte d’appello avrebbe dato preminenza alle regole di interpretazione oggettiva del contratto, anzichè alla ricerca della comune intenzione delle parti; che, inoltre, avrebbe omesso di indicare i canoni ermeneutici in base ai quali il contratto era stato interpretato, con conseguente difetto di motivazione; che, infine, avrebbe omesso di considerare il fatto che gli ordini d’acquisto erano stati redatti su carta intestata alla società ed i corrispettivi pagati con denaro proveniente dal conto corrente della stessa.

3.1. I motivi, nei termini formulati, sono inammissibili.

Giova premettere come paia innanzitutto errata la prospettazione del ricorrente, il quale colloca la tesi della propria estraneità al rapporto negoziale sul piano dell’interpretazione del contratto, attenendo invece detto profilo al diverso tema della prova del titolo su cui si fonda la pretesa creditoria.

In altri termini, il ricorrente assume che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto sussistente un contratto che invece non lo era, ed in questa sede ribadisce che l’accordo (con la successiva effettuazione della consegna) era intervenuto fra la venditrice ed un diverso soggetto di diritto.

3.2. Ciò posto, va osservato che il tema dell’onere della prova, quantunque non oggetto di espressa disciplina da parte della Convenzione delle Nazioni Unite, non ne rappresenta una lacuna, dovendosi in proposito avere riguardo a quanto disposto dall’art. 7, comma 2, a mente del quale le questioni riguardanti le materie dalla stessa disciplinate ma non espressamente risolte vanno regolate secondo i principi generali a cui la Convenzione si ispira.

Viene in rilievo, a tale specifico scopo, quanto previsto dall’art. 79, comma 1, della Convenzione, in base al quale “una parte non è responsabile per inadempimento di una sua obbligazione se prova che l’inadempimento era dovuto ad un impedimento derivante da circostanze estranee alla sua sfera di controllo, e che non era ragionevolmente tenuto a prevedere al momento della conclusione del contratto o ad evitare o a superarne le conseguenze”.

Tale norma enuncia infatti un principio generale in materia di ripartizione dell’onere della prova, conforme alla regola secondo cui onus probandi incumbit ei qui dicit; spetta dunque alla parte che intende fare valere un diritto la dimostrazione dei fatti che ne costituiscono il fondamento.

In tal senso, le prove offerte dalla parte venditrice a sostegno dei suoi assunti in punto all’esistenza ed al contenuto del contratto risultano compiutamente apprezzate dalla corte di merito; ed i motivi si risolvono in una contestazione di tale apprezzamento, rispetto al quale il ricorrente oppone una propria diversa valutazione, in termini tuttavia non consentiti nel giudizio di legittimità (in tal senso, fra le numerose altre, Cass. 7.4.2017, n. 9097; Cass. 26.1.2015, n. 1414).

4. Con l’ottavo motivo, infine, il ricorrente denunzia contraddittoria motivazione in ordine all’individuazione del soggetto tenuto al pagamento, dolendosi del fatto che la corte d’appello lo avrebbe accertato in base al “codice comunitario di identificazione fiscale” anzichè alla sua denominazione.

Il motivo è inammissibile per come formulato, atteso che il ricorrente, pur sollevando un’apparente questione di diritto, si duole del difetto di motivazione in relazione ad una questione che non attiene alla ricostruzione del fatto e della volontà dei contraenti, così come era invece necessario nell’ottica della deduzione di un vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5).

5. In definitiva, il ricorso è meritevole di rigetto; le spese vanno conseguentemente poste a carico del ricorrente nella misura liquidata in dispositivo; sussistono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e pone a carico del ricorrente le spese, che liquida in Euro 2.700,00 di cui Euro 2.500,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% sui compensi ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 19 ottobre 2017.

Depositato in Cancelleria il 25 gennaio 2018

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