Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18658 del 12/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/09/2011, (ud. 19/05/2011, dep. 12/09/2011), n.18658

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 17167-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato VELLA GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO

50, presso lo studio dell’avvocato COSSU BRUNO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato DONEGA’ FRANCO, giusta delega in

atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 437/2006 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 14/06/2 006 R.G.N. 1026/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/05/2011 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito l’Avvocato BUTTAFOCO ANNA per delega VELLA GIUSEPPE;

udito l’Avvocato BOMBOI SAVINA per delega COSSU BRUNO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 15/9/04 il giudice del lavoro del Tribunale di Genova, decidendo su ricorso proposto F.A. nei confronti della società Poste Italiane s.p.a., dichiarò la nullità del termine apposto al contratto concluso con quest’ultimo per il periodo 1/6 – 30/9/98 sulla base della causale costituita dalla necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie, dopo aver ritenuto che il rapporto era da considerare vigente in quanto era mancata l’indicazione della persona in ferie da sostituire e condannò la società convenuta a corrispondere al lavoratore la normale retribuzione, mentre compensò le spese di lite.

A seguito di appello proposto dalla società postale, che sosteneva l’irrilevanza dell’indicazione del nominativo del lavoratore sostituito oltre che l’intervenuta risoluzione per mutuo consenso del rapporto, e di appello incidentale del lavoratore in ordine alla sola statuizione sulle spese, con sentenza del 19/4 -16/6/06 la Corte d’Appello di Genova – sezione lavoro rigettò l’appello principale e riformò parzialmente la sentenza condannando le Poste al pagamento per l’intero delle spese del doppio grado di giudizio.

La Corte territoriale giudicò, in sostanza, che l’interpretazione della clausola contrattuale fornita dalle Poste, cioè quella per la quale il ricorso alla tipologia del contratto a termine sarebbe stato giustificato dal semplice fatto che il numero delle giornate di ferie fruite dal personale sostituito fosse stato in concreto superiore a numero delle giornate lavorative dei dipendenti assunti a termine, non poteva ritenersi condivisibile, non potendosi prescindere dalla necessità della verifica della sussistenza di un nesso di causalità tra le assenze motivate a titolo di ferie nell’ufficio di destinazione dell’appellato e la sua stessa assunzione a termine. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la società Poste Italiane s.p.a. che affida l’impugnazione a due motivi di censura.

Resiste con controricorso il F..

Entrambe le parti depositano memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo la società ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962, art. 3, e della L. n. 56 del 1987, art. 23 nonchè dell’art. 1362 c.c. e ss. in relazione all’art. 8 CCNL 1994, oltre che l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

In particolare, si sostiene che non risulta necessaria nel caso in esame, ai fini della legittimità dell’apposizione del termine, la verifica del nesso eziologico tra l’assunzione del lavoratore a termine e le esigenze di espletamento del servizio concretamente ricollegabili alle assenze per ferie del personale di ruolo in mancanza di una fattispecie di creazione contrattuale che espressamente la preveda.

Da parte sua, con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., il lavoratore eccepisce preliminarmente l’improcedibilità di tale motivo, incentrato sulla interpretazione dell’art. 8, comma 2, del CCNL del 26/11/94, deducendo che la ricorrente ha omesso di produrre detto contratto in forma integrale alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, da ultimo avallato dalle sezioni unite.

Osserva la Corte che quest’ultima eccezione è fondata.

Non può, infatti, tralasciarsi di rilevare che, in spregio a quanto previsto dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, la ricorrente non si è premurata di depositare il testo integrale del contratto collettivo richiamato a sostegno del primo motivo di censura. Oltretutto, non può non rilevarsi che la produzione stessa del contratto collettivo non è nemmeno indicata tra gli atti annoverati in calce al presente ricorso, subito dopo le conclusioni.

Si concretizza, in tal modo, una evidente causa di improcedibilità, atteso che le questioni poste non possono prescindere dalla disamina della normativa collettiva di riferimento, espressamente richiamata a sostegno del motivo in questione. Si è, infatti, statuito (Cass. sez. lav. n. 15495 del 2/7/2009) che “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi su cui il ricorso si fonda – imposto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 nella nuova formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – non può dirsi soddisfatto con la trascrizione nel ricorso delle sole disposizioni della cui violazione il ricorrente si duole attraverso le censure alla sentenza impugnata, dovendosi ritenere che la produzione parziale di un documento sia non solamente incompatibile con i principi generali dell’ordinamento e con i criteri di fondo dell’intervento legislativo di cui al citato D.Lgs. n. 40 del 2006, intesi a potenziare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, ma contrasti con i canoni di ermeneutica contrattuale dettati dall’art. 1362 cod. civ. e seguenti e, in ispecie, con la regola prevista dall’art. 1363 cod. civ., atteso che la mancanza del testo integrale del contratto collettivo non consente di escludere che in altre parti dello stesso vi siano disposizioni indirettamente rilevanti per l’interpretazione esaustiva della questione che interessa”.

Si è, altresì, precisato (Cass. sez. lav. Ordinanza n. 11614 del 13/5/2010) che “l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi – imposto, a pena di improcedibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella formulazione di cui al D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40 – è soddisfatto solo con il deposito da parte del ricorrente dei contratti o accordi collettivi sui quali il ricorso si fonda, senza che possa essere considerata sufficiente la mera allegazione dell’intero fascicolo di parte del giudizio di merito in cui sia stato effettuato il deposito di detti atti o siano state allegate per estratto le norme dei contratti collettivi. In tal caso, ove pure la S.C. rilevasse la presenza dei contratti e accordi collettivi nei fascicoli del giudizio di merito, in ogni caso non potrebbe procedere al loro esame, non essendo stati ritualmente depositati secondo la norma richiamata”, (conforme anche a Cass. sez. lav. n. 4373 del 23/2/2010).

Da ultimo le sezioni unite di questa Corte, con sentenza n. 20075 del 23/9/2010, hanno statuito espressamente che “l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., comma 2, la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale. Ove, poi, la Corte ritenga di porre a fondamento della sua decisione una disposizione dell’accordo o contratto collettivo nazionale depositato dal ricorrente diversa da quelle indicate dalla parte, procedendo d’ufficio ad una interpretazione complessiva ex art. 1363 cod. civ. non riconducibile a quanto già dibattuto, trova applicazione, a garanzia dell’effettività del contraddittorio, l’art. 384 c.p.c., comma 3 (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 12), per cui la Corte riserva la decisione, assegnando con ordinanza al P.M. e alle parti un termine non inferiore a venti giorni e non superiore a sessanta dalla comunicazione per il deposito in cancelleria di osservazioni sulla questione”. Il primo motivo è, quindi, improcedibile.

2. Col secondo motivo la ricorrente denunzia, in via subordinata, il vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 1372 c.c., comma 1, art. 1362 c.c., comma 2, art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c.), nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), dolendosi dell’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel respingere l’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per effetto del mutuo consenso tacito, laddove la prolungata inerzia dell’intimato, unitamente alle altre circostanze dedotte nelle memorie dei precedenti gradi, rimaste incontestate, ed a quelle emerse nel corso del libero interrogatorio avrebbero dovuto indurre la stessa Corte ad accoglierla.

Al riguardo la ricorrente pone il seguente quesito di diritto: ” Dica l’Ecc.ma Corte di Cassazione se costituisca violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1″ art. 1362 c.c., comma 2″, art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. ovvero omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia subordinare la configurabilità della risoluzione per mutuo consenso tacito del rapporto di lavoro alla espressa rinuncia del lavoratore alla riattivazione del rapporto, anche a fronte di comportamenti delle parti incompatibili con la volontà di mantenere in vita il vincolo contrattuale ed in particolare la prolungata inerzia del lavoratore per un apprezzabile lasso di tempo dopo la scadenza del contratto, la percezione del TFR senza alcuna riserva, il reperimento di una nuova stabile occupazione da valutarsi sia singolarmente sia congiuntamente.” Il motivo è infondato.

Invero, la Corte d’appello si è espressamente pronunziata in merito all’eccezione di cui trattasi in termini logico-giuridici tali da fugare ogni sorta di dubbio sulla loro immunità dai rilievi mossi, osservando che alla luce delle allegazioni e delle prove offerte non erano rilevabili circostanze atte a manifestare un completo disinteresse delle parti alla attuazione del rapporto in guisa tale da poterlo considerare risolto. Il giudice d’appello ha, infatti, evidenziato che l’inerzia si era protratta per un periodo di tempo tale da non escludere affatto che presumibilmente essa fosse dipesa dalla necessità per il dipendente di avvedersi dei vizi che inficiavano il rapporto di lavoro, così come non era da sottovalutare il rischio, dal medesimo prefigurato, di mettere a repentaglio una possibile nuova assunzione in caso di impugnativa, atteso che era stata emessa in data 14/2/2000 una specifica circolare della società che non consentiva la stipula di contratti a tempo indeterminato coi soggetti che avevano in atto un contenzioso giudiziale nei confronti dell’ente postale.

E’, infatti, il caso di ricordare che l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’11/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’11/12/02) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà della parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).

E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007).

Ne consegue che in relazione al secondo motivo il ricorso va rigettato.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno attribuite al difensore antistatario avv. Bruno Cossu nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso improcedibile in relazione al primo motivo e rigetta per il resto. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 2500,00 per onorario, Euro 25,00 per esborsi, nonchè IVA, CPA e spese generali ai sensi di legge con distrazione per l’avv. Bruno Cossu per dichiarata anticipazione.

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2011

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