Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18655 del 12/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 12/09/2011, (ud. 05/05/2011, dep. 12/09/2011), n.18655

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 20192-2009 proposto da:

M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RICASOLI

7, presso lo studio dell’avvocato MUGGIA ROBERTO, che lo rappresenta

e difende unitamente t all’avvocato BRAGGION MARIA, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

UNICREDIT CORPORATE BANKING S.P.A., già UNICREDIT BANCA D’IMPRESA

S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo

studio dell’avvocato PALLADINO LUCIANO, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FLORIO SALVATORE, giusta procura speciale

notarile in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 858/2008 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/09/2008 r.g.n. 666/08;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2011 dal Consigliere Dott. IRENE TRICOMI;

udito l’Avvocato MUGGIA ROBERTO; udito l’Avvocato FLORIO SALVATORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

CESQUI Elisabetta che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per

quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL FATTO

1. La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 858/08, depositata il 15 settembre 2008, rigettava l’impugnazione proposta da M.R., nei confronti di UniCredit Corporate Banking spa (già Unicredit Banca d’Impresa spa), avverso la sentenza del Tribunale di Torino n. 435/08.

2. Il Tribunale di Torino aveva respinto il ricorso proposto dal M., volto ad impugnare il licenziamento, per giusta causa, intimatogli con lettera del 22 dicembre 2006, la precedente sanzione disciplinare di quattro giorni di sospensione, e ad ottenere il risarcimento del danno conseguito a demansionamento.

3. Ricorre il M. per la cassazione della suddetta sentenza d’appello, prospettando cinque motivi di ricorso.

4. Resiste con controricorso UniCredit Corporate Banking spa (già Unicredit Banca d’Impresa spa).

5. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

6. All’udienza pubblica il M. ha depositato note in esito alle conclusioni rassegnate dal P.M..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazioni il ricorrente ha prospettato violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, art. 5, e dell’art. 2729 c.c., con riguardo alla prova dei fatti che avevano portato al licenziamento.

Ha Dedotto il M. che i fatti oggetto della contestazione disciplinare (aver stampato il documento contenete i giudizi denigratori, averlo lasciato nella stampante di gruppo del proprio ufficio con l’evidente deliberato proposito di portarlo a conoscenza degli altri componenti dell’ufficio stesso) avrebbero dovuto costituire oggetto di specifica e rigorosa prova da parte del datore di lavoro, in quanto esso ricorrente non contestava di essere l’autore del documento, che consisteva nell’allegato ad una missiva trasmessa giorni prima al proprio difensore.

La Corte d’Appello, invece, aveva ritenuto provate le suddette ulteriori circostanze, in base ad un uso distorto dell’istituto delle presunzioni di cui all’art. 2729 c.c., pur in assenza di allegazioni sul punto e ritenendo noti fatti non noti. Nè elementi in merito si potevano desumere dalle dichiarazioni di esso ricorrente.

In ordine al suddetto motivo è stato formulato il seguente quesito di diritto: se la sentenza della Corte d’Appello di Torino debba essere cassata in quanto non ha rispettato il principio secondo il quale la prova dei fatti sui quali è fondato il licenziamento deve esser rigorosa, ed inoltre in quanto, al fine di ritenere assolto l’onere di prova in questione, in violazione dell’art. 2729 c.c. ha ritenuto la sussistenza di fatti ignoti sulla base di premesse assolutamente incerte.

2. Con il secondo motivo di impugnazione è dedotta omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio.

Espone il ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe ritenuto provata la responsabilità di esso M. sulla base di una motivazione apodittica e non corrispondente all’effettività di quanto emerso dal processo.

Il Giudice di appello avrebbe argomentato che, poichè il documento era nel computer del M., quest’ultimo lo avrebbe necessariamente e volutamente stampato e lasciato nella stampante.

Afferma il ricorrente che la suddetta circostanza non prova l’identità del soggetto che diede l’ordine di stampa, e che il documento era già nella stampante quando esso medesimo aveva lasciato l’ufficio.

Mancherebbero, quindi, anche in questo caso, i requisiti per potere assumere la sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti.

2.1. A corollario del suddetto motivo di impugnazione il ricorrente ha dedotto, altresì, che comunque, il lasciare un documento nella stampante non significava renderlo pubblico.

Il documento in questione era una missiva privata trasmessa da esso ricorrente al proprio legale, illegittimamente utilizzata dal datore di lavoro, che ne era entrato in possesso in modo ignoto.

Quindi non solo non era provata la condotta del ricorrente in merito alla stampa e alla diffusione del documento, ma, circa tale ultimo profilo, sarebbe risultato provato il contrario, e cioè che furono i colleghi, che l’avevano rinvenuto, a diffonderlo.

La sentenza della Corte d’Appello ometterebbe di motivare sulle ragioni per la quali parte convenuta avrebbe legittimamente utilizzato il contenuto della corrispondenza del ricorrente che, per definizione, doveva rimanere segreto.

Dunque l’omessa motivazione investirebbe il perchè un documento riservato veniva considerato pubblico, mentre la contraddittorietà della motivazione andrebbe rinvenuta nel fatto che la pubblicità di quanto contenuto nel promemoria in questione era stata determinata proprio dagli altri, che, invece di mettere i fogli sulla scrivania del ricorrente, li fotocopiavano e li diffondevano presso il datore di lavoro.

2.2. I primi due motivi di impugnazione, in ragione della loro connessione, devono essere trattati congiuntamente. Gli stessi non sono fondati.

Occorre premettere in fatto che al M., con lettera del 6 dicembre 2006, veniva contestato di aver stampato e lasciato nella stampante di gruppo del suo ufficio con l’evidente e deliberato proposito di portarlo a conoscenza degli altri componenti dell’ufficio” un documento contenente giudizi denigratori nei confronti in particolare della signora responsabile dell’ufficio, indicata in atti, che veniva additata come “acidula” “mantiene il marito che non la tromba” “dal culo enorme e forse lesbica”, e di altri componenti dell’ufficio.

Tanto premesso, va rilevato che l’art. 2729 c.c. prevede che “le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”.

La giurisprudenza della Corte ritiene che, in materia di presunzioni, è riservata al giudice di merito la valutazione discrezionale sia in punto di opportunità di fondare la decisione su tale mezzo di prova, che di sussistenza dei presupposti che ad esso consentono il ricorso, fissando i requisiti di precisione, gravita e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare gli elementi di fatto come fonti di presunzione, ovvero come circostanze idonee a consentire illazioni che ne discendano secondo l’id quod plerumque accidit.

Il ricorso alle presunzioni è rimesso, dunque, alla discrezionalità del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivato (giurisprudenza costante, v.

Cass., sentenze n. 24660 del 2008, n. 1715 del 2007, n. 9225 del 2005).

La Corte d’Appello ha fatto corretta applicazione del suddetto principio, che si intende riaffermare, con una motivazione che in ragione del chiaro logico e congruente percorso argomentativo, risulta esente dai vizi prospettati dal ricorrente.

Il Giudice di appello, condividendo la valutazione operata dal Tribunale, ha ritenuto che elementi presuntivi, gravi e concordanti, idonei a far dedurre la prova della volontarietà dell’operato del M., dovevano ravvisarsi da quanto provato in fatto e cioè:

che il documento era stato trovato sulla stampante dell’ufficio, cui sono collegati il computer del M. e di altri, verso le 17,15 del (OMISSIS) da un’impiegata, quando già il M. era uscito dall’ufficio verso le 16,30;

che il documento era stato elaborato dal M. sul computer dell’ufficio e trasmesso, giorni prima, al suo avvocato difensore, come allegato ad una lettera;

che il computer era in uso esclusivo del M. e munito di password personale e che esso, se lasciato acceso, si bloccava dopo qualche minuto di non uso con necessità di ridigitare la password;

che il M., pur ammettendo di aver redatto il documento, aveva fornito incerte spiegazioni circa il ritrovamento del documento sulla stampante, ipotizzando in un primo momento che poteva essere stato trafugato dal suo cassetto e poi, in sede di libero interrogatorio, sosteneva di non ricordare se aveva preso il documento o l’aveva messo nel cassetto (così ammettendo di averlo stampato); infine nell’appello ipotizzava un ipotetico ordine di stampa casualmente partito.

Privo di pregio è altresì il profilo della censura relativo al carattere privato del documento.

Anche su tale punto, la motivazione della Corte d’Appello, in ragione della chiarezza e congruenza logico-giuridica, è esente da vizi in quanto, ritenuto provato, per le ragioni sopra esposte, che il M. aveva lasciato nella stampante il documento volontariamente, così rendendolo pubblico, il Giudice di appello affermava che lo stesso aveva perso il carattere privato.

3. Con il terzo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 nel valutare la gravita dell’episodio alla luce della residualità del licenziamento per giusta causa.

In ordine al suddetto motivo è articolato il seguente quesito di diritto:

se siano stati violati l’art. 2119 c.c. e l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, oltre alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 nel momento in cui non si sia tenuto conto del fatto nella sua complessità – e tenuto conto dell’elemento soggettivo – nel senso che in relazione alla gravita dei fatti accertati sarebbe stata sufficiente un sanzione conservativa ovvero un altro provvedimento aziendale, finalizzato ad evitare una situazione conflittuale nel reparto, tenuto conto, altresì, del fatto che le frasi la cui ingiuriosità è stata contestata non erano riferite al datore di lavoro ed hanno avuto una diffusione limitata.

4. Con il quarto motivo di impugnazione è dedotta vizio di motivazione con riguardo ad un punto decisivo della controversia relativo alla residualità della sanzione del licenziamento.

Ad avviso del ricorrente, nulla ammettendosi in ordine ai motivi del licenziamento, la fattispecie, anche alla luce delle risultanze probatorie, non integrava gli estremi della giusta causa e la motivazione della sentenza sul punto era insufficiente.

4.1. Anche il terzo ed il quarto motivo devono essere trattai congiuntamente, in ragione della loro connessione.

Gli stessi non sono fondati.

Invero, la valutazione sulla gravita della condotta non può che essere di competenza del giudice del merito il quale nella fattispecie l’ha correttamente eseguita attraverso una motivazione assolutamente congrua, come tale sottratta a censure di legittimità nel presente giudizio.

Va, infatti, ricordato che, in tema di verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, il giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato si sostanzia nella valutazione della gravita dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che ove risolte dal giudice di appello con apprezzamento in fatto adeguatamente giustificato con motivazione esauriente e completa, come nel caso in esame, si sottraggono al riesame in sede di legittimità, (v. Cass., sentenza n, 7948 del 2011, n. 24349 del 2006).

Nella fattispecie in esame la Corte d’Appello ha correttamente applicato il suddetto principio e ha motivato in modo adeguato la propria decisione, tenendo conto anche della destinazione del documento, come dedotta dal M..

Ha ritenuto, infatti, la Corte d’Appello che sulla gravita del fatto non potessero sussistere dubbi. Se è vero che con esso il M. riassumeva ad uso del proprio avvocato la sua storia lavorativa, con l’occasione esprimeva pesanti e insultanti giudizi personali nei confronti della responsabile dell’ufficio, di cui in atti, accusava la stessa di “trascorrere centinaia di minuti” con altro dipendente “a parlare di casi ipotetici e forse anche di fatti privati”, la definiva come “persona vergognosamente prevenuta e con scarse capacità organizzative … che utilizza la posizione dominante per offendere e vessare la sua persona”; a ciò si aggiungeva, prosegue il giudice di appello, che il M. indicava “cadaverino” altro funzionario.

La Corte d’Appello, quindi, concludeva, congruamente, che si trattava all’evidenza di insulti gratuiti, rivolti a superiori e a colleghi, che – unitamente ai precedenti provvedimenti disciplinari contestati come recidiva che provavano come il M. fosse solito esprimere per iscritto apprezzamenti offensivi e beffardi – dimostrano il venir meno dell’elemento di fiducia che è richiesto in qualsiasi rapporto di lavoro subordinato e, a maggior ragione, nei confronti di un impiegato con qualifica di 1^ livello.

5. Con il quinto motivo d’impugnazione è dedotto vizio di motivazione circa un punto controverso della decisione relativo alla conferma della sanzione disciplinare di 4 giorni di sospensione.

Il ricorrente ha prospettato che dalle risultanze della prova testimoniale risultava che non era stato provato nulla di quanto contestato e nessun accertamento era stato svolto in ordine alle difese del dipendente, nè in giudizio era stato accertato alcunchè circa i documenti da lui negoziati.

La sentenza d’appello motivava con il richiamo alla testimonianza P. la quale si limitava ad illustrare le innovazioni da lei apportate in merito a determinate procedure, ma nulla provava circa i fatti specificamente contestati.

Ciò nonostante gli addebiti erano stati ritenuti provati.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Va premesso in fatto che la sanzione disciplinare di quattro giorni di sospensione veniva irrogata in ragione di contestazione relativa all’inosservanza dell’obbligo di sottoporre a preventiva visione della responsabile dell’ufficio la documentazione relativa ad aperture di credito richieste da nuovi clienti ovvero che si discostassero dalle operazioni abituali. Vi era altresì l’addebito di aver espresso valutazioni offensive parlando di “cupola” con riguardo ad un dipendente e delle difficoltà di collaborare con la responsabile dell’ufficio “per motivi professionali ed extraprofessionali”.

Tanto premesso, è bene ricordare che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia è necessario che il mancato esame di elementi probatori contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia sia tale da invalidare, con giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle risultanze sulle quali il convincimento del giudice è fondato, onde la ratio decidendi venga a trovarsi priva di base, ovvero che si tratti di un documento idoneo a fornire la prova di un fatto costitutivo, modificativo o estintivo del rapporto giuridico in contestazione, e perciò tale che, se tenuto presente dal giudice, avrebbe potuto determinare una decisione diversa da quella adottata (Cass., sentenze n. 12950 del2011,n. 14304 del 2005).

Per altro verso, il difetto di motivazione, nel senso di sua insufficienza, legittimante la prospettazione con il ricorso per cassazione del motivo previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5, è configurabile soltanto quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza stessa impugnata emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando è evincibile l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza medesima, del procedimento logico che ha indotto il predetto giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non già, invece, quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poichè, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito che tenderebbe all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, sicuramente estranea alla natura e alle finalità del giudizio di cassazione. In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi (come accaduto nella specie) le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., sentenza n. 2272 del 2007).

Nella fattispecie in esame, il ricorrente, ripercorrendo il contenuto della documentazione in atti (contestazione e relativa lettera di giustificazione), nonchè le dichiarazioni testimoniali, si limita ad offrire una lettura delle risultanze istruttorie diversa rispetto a quella alla quale è pervenuto il giudice di merito, chiedendo, in sostanza, una nuova pronuncia sul fatto, inammissibile in sede di legittimità.

La Corte d’Appello nel ritenere infondato il motivo d’impugnazione relativo al rigetto dell’impugnazione della sanzione disciplinare, con motivazione adeguata, dava rilievo alla testimonianza resa dalla responsabile dell’ufficio sul fatto che, quanto previsto, non era avvenuto in alcuni casi di operazioni inusuali chieste da vecchi clienti, nonchè anche ai fini della congruità della sanzione, ai precedenti analoghi.

6. Pertanto il ricorso deve essere rigettato.

7. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 88,00 per esborsi, Euro 4000 per onorario oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 5 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2011

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