Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18653 del 23/09/2016


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Cassazione civile sez. trib., 23/09/2016, (ud. 28/06/2016, dep. 23/09/2016), n.18653

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCODITTI Enrico – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 877/2010 proposto da:

P.I., elettivamente domiciliata in ROMA VIA PORTUENSE 104,

presso la Sig.ra ANTONIA DE ANGELIS, rappresentata e difesa

dall’avvocato MARCO BRUSCIOTTI giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 192/2008 della COMM. TRIB. REG. di ANCONA,

depositata il 19/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/06/2016 dal Consigliere Dott. RAFFAELE SABATO;

udito per il controricorrente l’Avvocato MELONCELLI che si riporta

agli atti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’agenzia delle Entrate ha notificato alla parte contribuente P.I. avviso di accertamento per maggior reddito ai fini I.r.pe.f. e I.lo.r. per l’anno (OMISSIS) in dipendenza della cessione di azienda in data (OMISSIS) dalla ditta individuale facente capo alla predetta e la società M. & P. e C. s.n.c.. In particolare, non è stato ritenuto congruo il valore di avviamento indicato in Lire 6.000.000, elevato a Lire 52.160.000 in via induttiva applicando il criterio di cui al D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4 e in particolare applicando la percentuale di redditività sul triplo della media dei ricavi dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli anni 1997-1999.

Contestando il criterio di calcolo ai fini delle imposte dirette, posto che la norma in questione riguarda altri tipi di imposte, tra cui quella di registro, fondate su presupposti diversi e con diverse finalità, e che il criterio era stato adottato in assenza di accertamento definitivo in ordine a esse, avverso l’atto ha proposto ricorso la contribuente innanzi alla commissione tributaria provinciale di Pesaro, che con sentenza ha rigettato il ricorso.

La sentenza, appellata dalla parte contribuente, è stata confermata dalla commissione tributaria regionale delle Marche in Ancona, che ha dichiarato la legittimità dell’accertamento e la correttezza della decisione della commissione di primo grado.

Avverso questa decisione la parte contribuente propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, rispetto al quale l’agenzia resiste con controricorso. La ricorrente deposita altresì memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo di ricorso la parte contribuente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (in relazione quindi, con ogni evidenza, all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), norme indicate nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 lett. d) e artt. 2697 e 2729 c.c.. Sostiene che il criterio seguito ai fini della rideterminazione ai fini delle, imposte dirette del valore dell’avviamento nell’ambito della cessione di azienda del 2000, applicando la percentuale di redditività sul triplo della media dei ricavi dichiarati ai fini delle imposte sui redditi negli anni tra il 1997 e il 1999, non sarebbe utilizzabile in quanto dettato dal D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, ai fini delle imposte sulle successioni e donazioni, di registro, – ipotecaria, catasta le e comunale sull’incremento di valore degli immobili. In particolare, se ai fini dell’imposta di registro rileva il valare di mercato oggetto della cessione, ai fini delle imposte dirette rileva l’incremento della posizione patrimoniale del soggetto all’esito della negoziazione quale differenza tra corrispettivo conseguito e costo non ammortizzato (cessione avvenuta nel caso di specie tra una ditta individuale e l’impresa familiare in forma di società di persone cui partecipa la stessa cedente), diversità di presupposti che, secondo la parte contribuente, avrebbe indotto la giurisprudenza a ritenere possibile la trasposizione solo ove sussista un accertamento definitivo ai fini dell’imposta di registro e sussistano ulteriori presunzioni gravi, precise e concordanti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e dell’art. 2729 c.c., che consentano di ritenere effettivamente introitato il maggior prezzo, con onere della prove a carico dell’amministrazione. Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: “accertare se sia affetta da violazione e falsa applicazione della normativa sopra richiamata la sentenza… che… ha ritenuto legittimo l’operato dell’amministrazione finanziaria che, nel rideterminare ai fini delle ii.dd. il valore di avviamento di un’azienda ceduta… si è avvalsa del criterio di calcolo stabilito in via residuale nel D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, in difetto di un prodromico accertamento definitivo dell’imposta di registro e in mancanza di ulteriori presunzioni semplici, gravi, precise e concordanti”. Con la memorie illustrativa, richiamando il D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 5, comma 3 (c.d. decreto “internazionalizzazione”), avente natura di norma interpretativa, la ricorrente deduce che – vietando la norma di presumere l’esistenza di un maggiore corrispettivo ai fini delle imposte sui redditi solo sulla base del valore ai fini dell’imposta di registro – a maggior ragione non poteva procedersi all’accertamento nel caso di specie ove difettava il previo definitivo accertamento dell’imposta di registro.

2. – Con un ulteriore motivo di ricorso, corredato da quesito di diritto, la parte contribuente denuncia, da un lato, violazione e falsa applicazione di norma di diritto indicata sempre nel D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, dall’altro, difetto di motivazione su un punto decisivo della controversia. Trattasi quindi, in effetti, di due diverse censure, in relazione, con ogni evidenza, da un lato, all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e, dall’altro, all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. La ricorrente lamenta che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto legittima l’applicazione di un criterio di calcolo indicato in via residuale, sulla base dei pregressi ricavi, senza considerare che la stessa norma prevede in via principale l’applicazione degli studi di settore.

3. – I motivi di ricorso sono inammissibili.

4. – In ordine al primo motivo, l’inammissibilità discende dalla difformità del quesito di diritto dal modello legale di cui dall’art. 366-bis c.p.c., in base alla quale norma, secondo l’elaborazione della giurisprudenza di questa corte, i quesiti devono essere formulati in termini tali da costituire una sintesi logico-giuridica della questione, così da consentire al giudice di legittimità di enunciare una regula iuris suscettibile di ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a quello deciso dalla sentenza impugnata; in altri termini, devono compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito; b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. In tale prospettiva, i quesiti non devono risolversi in un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente; non devono risolversi in un’enunciazione tautologica, priva di qualunque indicazione sulla questione di diritto oggetto della controversia; devono al contempo comprendere l’indicazione sia della regula iuris adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo, tanto che la mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile; non si può, d’altronde, desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo (v. ad es. sez. un., n. 6420 e n. 11210 del 2008).

5. – In particolare, il quesito di cui al primo motivo, mentre contiene l’indicazione della regula iuris pplicata dal giudice del merito, costituita dal D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, n contiene l’indicazione della disciplina che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie. Anche qualora si volesse intendere quale regula iuris uspicata quella risultante dalla “normativa sopra richiamata”, il pur inammissibile richiamo (in quanto, si ripete, il motivo non può integrare il quesito) sarebbe operato a un coacervo di norme, come indicate nel motivo, che comprende il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 86, D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, D.P.R. n. 131 del 1986, art. 51, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e artt. 2697 e 2729 c.c. e che quindi spazia da norme in tema di plusvalenze relativamente alle imposte sui redditi, di imposta di registro, di accertamento e di onere – della prova, oltre alla stessa regula iuris del D.P.R. n. 460 del 1996 contestata. La considerazione di tale elencazione – senza che, si ribadisce ancora, il quesito possa essere integrato con il motivo – fa emergere in tutta la sua latitudine la ben più ampia formulazione che la parte ricorrente avrebbe dovuto offrire del quesito, onde porre in evidenza i necessari nessi ipotizzati tra le cennate norme. Manca, altresì, la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito, la quale soltanto avrebbe potuto contestualizzare il quesito.

6. – Stante l’inammissibilità del motivo, solo per completezza si può notare che le deduzioni della ricorrente – nel lamentare da più punti di vista presunte violazioni in ordine al rapporto tra accertamento ai fini dell’imposta di registro e accertamento ai fini delle imposte sui redditi – sembrano scontare la non considerazione della circostanza che, secondo la giurisprudenza di questa corte, in presenza dei relativi presupposti, l’accertamento ai fini dell’imposta di registro vincola l’amministrazione, ma non viceversa (v. ad es. sez. 5, n. 19622 del 2015, n. 27989 del 2011 e n. 4117 del 2002, secondo cui in tema di accertamento, ai fini IRPEF, delle plusvalenze patrimoniali realizzate a seguito di cessione di azienda, il valore dell’avviamento, determinato in via definitiva ai fini dell’imposta di registro, assume carattere vincolante per l’amministrazione finanziaria; ne consegue che può legittimamente presumersi la corrispondenza di tale valore con il prezzo reale, spettando, invece, al contribuente la prova del diverso valore in applicazione di un minor coefficiente legale di calcolo, sempre che si tratti di dati rigorosamente dimostrativi e fondati su riscontri obiettivi). Nella medesima prospettiva di inesatta ricostruzione dei rapporti tra le discipline pare porsi anche il richiamo, che la parte contribuente opera nella memoria del 22 giugno 2016, all’art. 5, comma 3 del c.d. decreto “internazionalizzazione” (D.Lgs. n. 147 del 2015). Tale norma, in effetti, dispone che: ” Gli artt. 58, 68, 85 e 86 del R.U. imposte sui redditi,…, e del D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, artt. 5, 5-bis, 6 e 7, si interpretano nel senso chè per le cessioni di immobili e di aziende nonchè per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro… ovvero delle imposte ipotecaria e catastale…”. Nell’indicare, dunque, interpretativamente, l’esigenza di elementi probatori, ulteriori rispetto alla quantificazione del valore ai fini dell’imposta di registro, per l’accertamento del corrispettivo ai fini delle imposte sui redditi, la norma non disciplina in alcun modo i casi in cui ai fini dell’accertamento del corrispettivo in vista delle imposte sui redditi non sia in alcun modo considerato il valore ai fini dell’imposta di registro, come nel caso di spepie.

7. – In tale direzione, e sempre per completezza, può rilevarsi che, attraverso il richiamo operato dalla sentenza della commissione regionale a quella della commissione provinciale, citata nel ricorso introduttivo, nell’asseverare la correttezza dell’uso del criterio del D.P.R. n. 460 del 1996, art. 2, comma 4, la commissione regionale sembra essersi attenuta agli approdi della giurisprudenza di questa corte che hanno chiarito che il criterio del triplo della media dei ricavi è un metodo di natura contabile per quantificare il corrispettivo ai fini del calcolo della plusvalenza, preesistente rispetto alla citata norma del D.P.R. del 1996 (Cass. n. 4981 del 2009) e che continua ad essere utilizzato anche dopo l’abrogazione del medesimo D.P.R. n. 460, art. 2, comma 4 (cfr. in generale sez. 5 n. 6399 del 2008 e 14336 del 2011). Del resto, come chiarito sempre da questa corte, la norma citata era stata dettata per disciplinare l’accertamento con adesione, fissando in tale logica standard minimi rivolti all’amministrazione e quindi utilizzabili in via generale (cfr. sez. 5 n. 3505 del 2006 e n. 16705 del 2007 secondo cui, se ai detti criteri un qualche rilievo indiziario può essere attribuito, esso è nel senso che il valore effettivo non è inferiore a quello cui si perviene mediante la loro applicazione, e non nel senso, opposto, che non possa essere superiore ad esso). Questa corte, in tale ottica, ha riconosciuto che il criterio in questione potesse essere utilizzato al di fuori della procedura di accertamento per adesione (cfr. sez. 5, n. 613 del 2006).

5. – In ordine al secondo motivo di ricorso, che come detto congloba in effetti due separate censure, l’una per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e l’altra per vizio di motivazione, anch’esso deve reputarsi inammissibile. Con riferimento a entrambe le censure, rileva la corte che la questione della mancata applicazione degli studi di settore – che dall’esame della sentenza impugnata non risulta precedentemente posta – è sollevata, come osserva anche l’agenzia nel controricorso, senza specificare, nel rispetto del principio di autosufficienza, dove, quando ed in che termini l’eccezione sia stata dedotta nei precedenti gradi di giudizio, sì da imporre alla commissione tributaria regionale di fare applicazione dell’invocata disciplina di legge e ciò nel rispetto dell’obbligo di motivazione. Tenuto conto poi che, come accennato, sono state congiuntamente proposte doglianze ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), accompagnate da un unico quesito di diritto, sussiste ulteriore ragione di inammissibilità, essendo detta congiunta proposizione possibile solo ove sia accompagnata dalla formulazione, per il primo vizio, del quesito di diritto, nonchè, per il secondo, dal momento di sintesi o riepilogo, in forza della duplice previsione di cui all’art. 366-bis c.p.c. (applicabile “ratione temporis” alla fattispecie, sebbene abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47; sul punto v. ad es. sez. 3, n. 12248 del 2013).

6. – Il ricorso va dunque nel sub complesso disatteso per inammissibilità dei motivi.

7. – Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La corte rigetta il ricorso per inammissibilità dei motivi; condanna la parte ricorrente alla rifusione a favore, dell’agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro tremilacinquecentosettantacinque per compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 28 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016

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