Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18634 del 23/09/2016


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Cassazione civile sez. trib., 23/09/2016, (ud. 12/04/2016, dep. 23/09/2016), n.18634

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27322/2010 proposto da:

SESTO GRADO ESERCIZI ALBERGHIERI ED IMMOBILIARI SRL, in persona del

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA

VIA I. GOIRAN 23, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO CONTENTO,

rappresentato e difeso dall’avvocato MICHELE BIANCO giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 11/2010 della COMM. TRIB. REG. della VALLE

D’AOSTA, depositata il 07/07/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/04/2016 dal Consigliere Dott. PAOLA VELLA;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta al

controricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CUOMO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

A seguito di processo verbale di constatazione della Guardia di finanza del 21 luglio 2006, l’Agenzia delle entrate emetteva a carico della società “Sesto Grado Esercizi Alberghieri ed Immobiliari s.r.l.” un avviso di accertamento con cui contestava per l’anno 2004 un minor credito Iva di circa 2 milioni di Euro, applicando sanzioni per circa 3 milioni di Euro.

La vicenda traeva origine dalla fattura di Euro 10.300.000,00 emessa in data 31.12.2002 a titolo di acconto dall’arch. R.D. (legale rappresentante nonchè gestore di fatto della stessa società), che con scrittura privata non autenticata di pari data si era impegnato a procurare l’acquisto, in favore della società, di un complesso immobiliare da acquisire in area industriale dismessa della città di (OMISSIS) o della Regione Lombardia, entro il 31.12.2008, ad un prezzo non superiore ad Euro 20.600.000,00, prevedendo il pagamento dell’acconto di Euro 10.300.000,00 in unica soluzione ovvero in sei tranches.

L’Ufficio qualificava l’operazione come cessione differita, ex art. 1472 c.c., simulata ed oggettivamente inesistente, per una serie di anomalie, quali: la genericità ed inconsistenza del contenuto delle pattuizioni; il mancato rispetto delle forme previste dall’art. 1350 c.c.; la coincidenza del soggetto promittente venditore ed acquirente (il Riva essendo oltre che amministratore unico, anche detentore della maggioranza ed unico gestore della società, per il tramite della “BCSP soc. semplice” costituita con la moglie); il mancato versamento dell’Iva a debito da parte del R., che in data (OMISSIS) aveva però aderito al condono tombale per l’anno 2002, versando solo tremila Euro; l’assenza dei pagamenti alle scadenze stabilite; il tutto al contestato fine evasivo di procurare alla società la contabilizzazione, nella dichiarazione Iva 2004, di un inesistente ed ingente credito Iva.

Nell’impugnare l’avviso la contribuente valorizzava, tra l’altro, la clausola n. 7) della scrittura privata per cui, in caso di mancato procurato acquisto entro il 31.12.2008, il promittente si obbligava alla restituzione del prezzo percepito senza interessi e la promissaria si obbligava ad emettere nota di debito Iva, sottolineando che il credito in questione non era stato ancora nè utilizzato nè chiesto a rimborso.

La Commissione tributaria provinciale di Aosta accoglieva il ricorso proposto dalla società contribuente, ritenendo che le finalità perseguite dalle parti con la scrittura privata in questione fossero conformi all’ordinamento sia sotto il profilo civilistico che sotto il profilo fiscale.

La sentenza di primo grado veniva però impugnata dall’ufficio e riformata dalla Commissione tributaria regionale della Val d’Aosta, la quale in primo luogo respingeva la censura di inammissibilità dell’appello – osservando che la società non aveva fornito la prova certa della lamentata difformità tra l’originale dell’atto di appello depositato in cancelleria e quello notificato, asseritamene mancante dell’ultima pagina – e, nel merito, riteneva che la scrittura privata in questione: fosse priva dei requisiti richiesti dall’art. 1350 c.c., in quanto non autenticata, e quindi nulla ai sensi dell’art. 1418 c.c. e priva di efficacia nei confronti di terzi; fosse stata sostanzialmente sottoscritta da uno stesso soggetto in due diverse vesti; avesse un contenuto del tutto generico, non essendo possibile identificare i legittimi proprietari degli immobili nè individuare di quali immobili si trattasse; integrasse una operazione inesistente, tenuto conto che il R. non aveva provveduto al versamento dell’Iva a debito nè ad effettuare i pagamenti previsti; avrebbe consentito alla società una fraudolenta richiesta di rimborso, o comunque di fronteggiare il debito Iva derivante da altre operazioni. La C.T.R. aggiungeva che si trattava in ultima analisi di pratiche elusive vietate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis.

Per la cassazione della sentenza d’appello n. 11/01/10 del 7.7.2010 la contribuente propone ricorso affidato ad undici motivi, corredato da memoria ex art. 378 c.p.c., cui l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Con il primo motivo, la società ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1 e art. 18, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, per avere la C.T.R. respinto l’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello dell’amministrazione finanziaria in quanto la società non aveva “fornito prove certe dell’incompletezza dell’atto notificato”, nè la prova che “la asserita mancata notifica dell’ultima pagina dello stesso atto di appello” fosse “attribuibile a responsabilità dell’Ufficio”, quando invece la prova “risiedeva nelle caratteristiche del retro della pagina 8 ben evidenti nell’originale esibito in sede di udienza”, con la conseguenza che l’appello doveva ritenersi “inammissibile non essendo sottoscritto a norma dell’art. 18, comma 3”.

1.1. Il motivo è inammissibile poichè prospetta una violazione di legge laddove la contestazione attiene, in realtà, alla valutazione delle prove da parte del giudice d’appello, che al più – e salvo lo sconfinamento nel merito – avrebbe potuto proporsi come censura motivazionale, corredata da specifiche deduzioni.

2. Analogamente, con il secondo mezzo, rubricato “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2 e art. 22, comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, la ricorrente contesta che “il Giudice d’appello, a fronte dell’allegazione della ricorrente circa la mancata sottoscrizione dell’originale dell’atto di appello notificato dall’Ufficio e circa la mancata conformità dell’originale alla copia notificata in segreteria” – la quale “conteneva la pagina 9 mancante sull’originale” – avrebbe “errato nel respingere la declaratoria di nullità e/o inammissibilità dell’appello per le stesse ragioni sopra riportate.

2.1. Anche tale motivo, dipendendo logicamente dall’accoglimento della censura di incompletezza e difetto di sottoscrizione dell’atto di appello portata dal primo motivo, resta assorbito e travolto dalla relativa declaratoria di inammissibilità, seguendone le sorti.

3. Con il terzo motivo, rubricato “violazione e falsa applicazione degli artt. 1350 e 1351 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, si contesta la necessità della autenticazione delle firme delle “scritture (OMISSIS)”, integranti pacificamente “la fattispecie ex art. 1472 c.c.” (da intendersi meglio come “preliminare di vendita di cosa futura”), la quale “configura un’ipotesi di vendita obbligatoria di per sè sufficiente a produrre l’effetto traslativo della proprietà al momento in cui la cosa verrà ad esistenza”.

3.1. Il motivo è infondato, in quanto il contratto di vendita di cosa futura che abbia ad oggetto beni immobili integra un contratto definitivo di vendita obbligatoria, di per sè idoneo e sufficiente a produrre l’effetto traslativo della proprietà al momento in cui la cosa verrà ad esistenza, a norma dell’art. 1472 c.c., e deve perciò rivestire ad substantiam la forma scritta (atto pubblico o scrittura privata autenticata) a norma dell’art. 1350 c.c. (Cass. n. 11840/91; conf. da ultimo, Cass. n. 9994/16); di conseguenza, anche il relativo contratto preliminare deve rivestire la stessa forma, ai sensi dell’art. 1351 c.c..

4. Il quarto mezzo veicola la censura di “omessa pronuncia; art. 360, comma 1, n. 4, in relazione all’art. 112 c.p.c.”, per non essersi la C.T.R. pronunciata sulla violazione del divieto di ius novorum sancito dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in quanto, mentre nell’avviso di accertamento erano state contestate operazioni oggettivamente inesistenti, nell’atto di appello l’Ufficio aveva affermato la sussistenza di un’ipotesi elusiva D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37 bis.

4.1. Il motivo è inammissibile, poichè, per consolidato orientamento di questa Corte, “il mancato esame da parte del giudice di una questione puramente processuale non è suscettibile di dar luogo al vizio di omissione di pronuncia, il quale si configura esclusivamente nel caso di mancato esame di domande od eccezioni di merito, ma può configurare un vizio della decisione per violazione di norme diverse dall’art. 112 c.p.c., se, ed in quanto, si riveli erronea e censurabile, oltre che utilmente censurata, la soluzione implicitamente data dal giudice alla problematica prospettata dalla parte” (Cass. n. 321/16; conf. Cass. n. 22860/04).

5. Con il quinto motivo si deduce più correttamente la “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3”, per avere la C.T.R. rilevato l’intento elusivo dell’operazione, richiamando espressamente l’art. 37-bis cit., quando nessuna delle ipotesi da esso tassativamente contemplate si era verificata.

5.1. La censura è inammissibile, in quanto colpisce solo una ratio decidendi aggiuntiva della decisione, formulata dal giudice d’appello al termine di una più articolata motivazione incentrata sui rilievi di “nullità” della scrittura privata, “simulazione del negozio giuridico” ad essa sotteso ed “inesistenza delle operazioni giuridico-negoziali” implicate.

6. Con il sesto motivo ci si duole della “contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, per avere la C.T.R. ritenuto sussistente sia la simulazione, che comporta l’inesistenza oggettiva del negozio, sia l’elusione, che ne presuppone invece l’esistenza.

6.1. La censura va disattesa in quanto non si registra una contraddittorietà intrinseca della motivazione, bensì la compresenza di due diverse ed autonome rationes decidendi, la prima delle quali già di per sè sufficiente a sostenere la decisione adottata.

7. Con il settimo mezzo, sotto la rubrica “violazione e falsa applicazione degli artt. 167, 416 e 88 c.p.c. – art. 111 Cost., Rep. – D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1”, la ricorrente lamenta che due delle circostanze rilevanti ai fini della ritenuta inesistenza delle operazioni – segnatamente: a) “il fatto che non risultano effettuate transazioni finanziarie tra le parti”; b) la circostanza che il credito Iva “avrebbe potuto consentire alla Società Sesto Grado una fraudolenta richiesta di rimborso” – non tenevano conto della mancata contestazione dell’Ufficio circa l’avvenuto pagamento di parte del prezzo (nella specie solo la prima delle sei rate previste) ed il mancato utilizzo del credito Iva.

7.1. La censura è inammissibile perchè, sotto l’apparente contestazione di violazioni di legge, comporta una incursione nel merito della valutazione del materiale probatorio, riservato al giudice a quo, peraltro prospettando aspetti del tutto marginali ed inidonei ad inficiare la portata dei più ampi rilievi svolti nella sentenza impugnata.

7.2. Al riguardo sembra quasi superfluo ricordare che il ricorso per cassazione è un rimedio impugnatorio a critica vincolata e a cognizione determinata dall’ambito dei vizi dedotti, per cui è inammissibile un ricorso che tenda a sollecitare una nuova valutazione delle risultanze di fatto, trasformando surrettiziamente il giudizio di legittimità in un nuovo grado di merito, ove ridiscutere analiticamente il contenuto e la maggiore o minore attendibilità di fatti storici e vicende processuali, nonchè le opzioni valutative espresse dal giudice d’appello (Cass. s.u. n. 7931/13; conf. Cass. nn. 12264/14, 959/15, 3396/15, 14233/15), spettando in via esclusiva al giudice di merito la selezione degli elementi del suo convincimento (Cass. nn. 26860/14 e 962/15).

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente si duole della “omessa, insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, con riferimento alle ulteriori “quattro circostanze ritenute sussistenti e atte a integrare presunzioni qualificate”, poste dal giudice d’appello “a fondamento probatorio della pretesa inesistenza della operazione de qua”, osservando che sulla pretesa genericità della scrittura originaria la contribuente aveva dedotto l’esistenza di una seconda scrittura privata in pari data, costituente integrazione e completamento della prima.

8.1. Anche questa censura risente degli stessi profili di inammissibilità rilevati per il motivo precedente, rispetto ai quali si aggiunge che il controllo di adeguatezza e logicità del giudizio di fatto, consentito dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella versione allora vigente ratione temporis, non può debordare nella revisione del ragionamento decisorio, altrimenti risolvendosi in una vera e propria riformulazione del giudizio di fatto, incompatibile con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudizio di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 959, 961 e 14233 del 2015).

8.2. In ogni caso, l’ipotesi della omessa motivazione va radicalmente esclusa, mentre quella di insufficienza fa leva su una scrittura aggiuntiva i cui contenuti – per come trascritti nelle premesse del ricorso – non sembrerebbero inficiare il rilievo dei giudici regionali per cui la genericità della scrittura “non consente di identificare i legittimi proprietari degli immobili appartenenti alla predetta area industriale dimessa, nè di individuare gli stessi beni immobili che dovrebbero aver costituito oggetto del futuro acquisto da parte della Società appellata”.

9. Con il nono mezzo, rubricato “omessa, insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, la ricorrente deduce che la C.T.R. avrebbe “travisato la circostanza del mancato versamento dell’IVA a debito da parte dell’altro contraente, non avendo considerato che l’obbligo di versamento dell’IVA fu sanato e sostituito dall’adesione al condono tombale L. n. 289 del 2002, ex art. 9”, che avrebbe “reso del tutto marginale e irrilevante il presunto (e insussistente) mancato versamento dell’IVA a debito”.

9.1. La censura è infondata, poichè la C.T.R. ha valorizzato, nella sua piena discrezionalità valutativa, la circostanza oggettiva e pacifica del mancato versamento dell’Iva a debito – ammontante alla considerevole somma di Euro 2.027.559,33 – rispetto alla quale resta marginale, se non ininfluente, la successiva definizione condonistica, con il versamento della (ben inferiore) somma di Euro 3.000,00, come si dà atto nello stesso avviso di accertamento trascritto a pag. 5 del ricorso.

10. Il decimo motivo, rubricato “omessa insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo – art. 360 c.p.c., n. 5”, ripropone il rilievo dell’omessa considerazione, da parte della C.T.R., che uno dei versamenti previsti (il primo) era stato effettuato.

10.1. La censura, che ripropone quanto già contestato con il settimo motivo, risente dei profili di inammissibilità ivi già evidenziati, mancando in ogni caso di decisività nel contesto motivazionale della sentenza gravata.

11. Con l’undicesimo ed ultimo motivo la ricorrente lamenta infine la “omessa insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo – art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, per non avere la C.T.R. tenuto conto della deduzione della contribuente per cui “il credito di Euro 2.060.000,00 portato in detrazione non ancora stato nè utilizzato nè oggetto di richiesta di rimborso”.

11.1. Anche per quest’ultima censura vanno richiamati i rilievi di inammissibilità svolti nel settimo motivo, ove la stessa circostanza è stata parimenti dedotta, ferma restandone l’assoluta irrilevanza, avendo espressamente il giudice d’appello fatto leva sulla (mera) potenzialità del danno che sarebbe potuto derivare all’Erario a seguito di una “fraudolenta richiesta di rimborso” del consistente credito Iva in questione, che “comunque avrebbe permesso di fronteggiare il debito IVA, derivante dalle successive cessioni a terzi di proprietà immobiliari”.

12. In conclusione, il ricorso va rigettato, con condanna di parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 20.000,00 oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 12 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2016

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