Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18624 del 12/08/2010

Cassazione civile sez. II, 12/08/2010, (ud. 29/04/2010, dep. 12/08/2010), n.18624

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCIALLI Luigi – Presidente –

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 22208-2008 proposto da:

SA.GA. (OMISSIS), rappresentato e difeso da se

medesimo elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TUSCOLANA 809, presso

il suo studio;

– ricorrente –

e contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), con M.

W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

G.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato

in ROMA, VIA TUSCOLANA 809, presso lo studio dell’avvocato

SA.GA., che lo rappresenta e difende;

– contr. e ricorrente incidentale –

contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), M.

W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

L.C. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA TUSCOLANA 809, presso lo studio dell’avvocato SA.

G., che lo rappresenta e difende;

– contr. e ricorrente incidentale –

contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), M.

W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, C/O C.G. – PIAZZA A. MANCINI N. 4, presso lo

studio dell’avvocato PACCHIARCITI VITTORIO, che lo rappresenta e

difende;

– contr. e ricorrente incidentale –

contro

SA.GA. (OMISSIS), S.F., S.

S., S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS),

+ ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

P.L. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA TUSCOLANA 809, presso lo studio dell’avvocato SA.

G., che lo rappresenta e difende;

– cont. e ricorrente incidentale –

e contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), M.

W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

S.A., S.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA TUSCOLANA 741, presso lo studio dell’avvocato SA.

G., che li rappresenta e difende;

– contr. e ricorrenti incidentali –

e contro

CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), M.W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

M.W., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DONATELLO

75, presso lo studio dell’avvocato CAPPONI BRUNO, che lo rappresenta

e difende unitamente all’avvocato SA.GA.;

– contr. e ricorrente incidentale –

e contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), G.

L. (OMISSIS), + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

e da:

C.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA TUSCOLANA 809, presso lo studio dell’avvocato SA.

G., che lo rappresenta e difende;

– contr. e ricorrente incidentale –

e contro

S.A., CONSORZIO STRADALE (OMISSIS), M.

W., + ALTRI OMESSI

;

– intimati –

avverso la sentenza n. 403/2008 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/01/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

29/04/2010 dal Consigliere Dott. PASQUALE D’ASCOLA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CENICCOLA RAFFAELE, che ha concluso per il. rigetto di tutti i

ricorsi.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Nel novembre 2000 veniva notificato a C.F., odierno controricorrente, decreto ingiuntivo per il pagamento di circa L. 5 milioni in favore del Consorzio stradale di (OMISSIS), sito in Ariccia, per oneri consortili dell’anno 1998.

L’opposizione del C. veniva respinta il 9 agosto 2005 dal tribunale di Velletri, che liquidava le spese di lite in favore del Consorzio, nonchè di alcuni consorziati i quali avevano svolto intervento adesivo; tra essi il presidente del Consorzio, difeso da sè stesso e difensore o codifensore di sei degli altri.

Adita dal C. con impugnazione del 5 novembre 2005, la Corte d’appello di Roma, con sentenza del 31 gennaio 2008, rigettava il gravame in ordine all’ammissibilità degli interventi volontari dei consorziati.

Lo accoglieva parzialmente con riguardo alle spese di lite: riteneva di applicare l’art. 5 della tariffa allegata al D.M. n. 585 del 1994, applicando all’unico onorario dovuto all’avv. Sa. l’aumento del 20% per ciascuna parte; oltre la prima.

Riduceva pertanto la condanna da circa 37.000,00 Euro (secondo il controricorso) a Euro 14.551,01 e, per il grado di appello, compensava per un terzo le spese e condannava l’appellante al pagamento dei restanti due terzi in ragione della “sua maggiore soccombenza”.

L’interveniente avv. Sa. è insorto avverso tale riduzione con ricorso per cassazione, svolgendo tre motivi di ricorso.

C. resiste e propone ricorso incidentale con tre censure.

Si sono costituiti, ciascuno con separato controricorso e ricorso incidentale, i consorziati L.P., + ALTRI OMESSI con il patrocinio dell’avv. Sa.; M.W. anche con altro difensore.

I signori E. e Sp. sono rimasti intimati.

Il ricorso, previa relazione ex art. 380 bis c.p.c., è stato chiamato all’adunanza camerale del 17 aprile 2009, per integrare il contraddittorio con E.M..

Constatata la rinotifica, nelle more avvenuta, è stato rimesso a pubblica udienza.

Il 4 novembre 2009 è stato rilevato un vizio nella notifica al difensore del Consorzio ed è stato disposto il rinnovo, eseguito il 13 novembre successivo.

Depositate memorie, la causa è stata trattenuta per la decisione il 29 aprile 2010.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminare è l’esame del primo motivo del ricorso incidentale proposto da S.A. e S.S., eredi di S.F., interventore adesivo in primo grado.

I ricorrenti incidentali deducono che: questi aveva rilasciato all’avv. Sa. mandato limitato al primo grado di giudizio;

che era deceduto nelle more di quel grado; che l’appello del C. era stato notificato al de cuius presso il suo difensore e non agli eredi; che il difensore ne aveva dichiarato il decesso nel corso del giudizio di appello, allegando il certificato di morte.

Denunciano violazione dell’art. 331 c.p.c. e chiedono declaratoria di nullità della sentenza, ponendo alla Corte il seguente quesito ex art. 366 bis c.p.c.: “Se in caso di decesso del mandante, avvenuto in primo grado, in mancanza di procura legittimante l’appello da parte del difensore, si ha inesistenza della notifica qualora l’atto di appello sia stato notificato al detto difensore del primo grado che ha reso formalmente edotto la Corte di appello dell’avvenuto decesso depositando all’uopo certificato di morte”.

La censura è inammissibile. Essa muove dall’errato presupposto (pag.

7 controricorso S.) che il mandato rilasciato all’avv. Sa. fosse limitato al primo grado di giudizio.

L’esame degli atti, consentito dalla natura del vizio, permette di accertare che la “procura” rilasciata in calce all’atto di intervento di S.F. delegava l’avvocato a rappresentarlo e difenderlo “nel presente giudizio”, con le più ampie facoltà di legge e con l’attribuzione del potere di chiamare in causa terzi, proporre domande riconvenzionali, riassumere, proporre e patrocinare il giudizio davanti ad altri giudici, promuovere procedure esecutive, etc..

Orbene, in proposito la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 2432/99) insegna che “La procura speciale al difensore rilasciata in primo grado “per il presente giudizio” (o processo, causa, lite etc.), senza alcuna indicazione delimitativa, esprime la volontà della parte di estendere il mandato all’appello, quale ulteriore grado in cui si articola il giudizio stesso, e, quindi, implica il superamento della presunzione di conferimento solo per detto primo grado, di cui all’art. 83 c.p.c., u.c..

Tale norma, infatti, deve considerarsi operante solo quando vengano utilizzati termini assolutamente generici o quando la procura si limiti a conferire la rappresentanza processuale senza alcuna altra indicazione (v. anche Cass. 12170/05; 24092/09).

Nella specie consta che lo S. decedette il 9 novembre 2003, come attestato dalla dichiarazione scritta depositata in sede di appello, in udienza, in data 30 gennaio 2007 (e non 2005, come riportato in controricorso), dall’avv. Sa., il quale in quella sede non era costituito per parte S..

Pertanto incolpevolmente l’appellante aveva notificato il ricorso al difensore in primo grado del soggetto deceduto (Cass. 10965/94;

7301/06).

Orbene, a fronte di tale situazione, la Corte d’appello non adottò alcun provvedimento per la rinnovazione della notifica agli eredi S., ma ebbe a considerare rituale la notifica alla parte del giudizio costituitasi in primo grado e considerata contumace in appello.

Il primo profilo di inammissibilità della censura è relativo alla formulazione del quesito di diritto ex art. 366 bis, che non assolve alla propria funzione e non è coerente con lo svolgimento del motivo.

Quest’ultimo, dopo la premessa sul mandato, si diffondeva sulla necessaria applicazione dell’art. 331 c.p.c., sulla natura inscindibile della causa de qua, sull’esistenza di un’ipotesi di litisconsorzio; nessuna di queste tre tematiche è però accennata nel quesito, mirato, come si è visto, sulla mancanza di procura in capo all’avvocato di S.F. e sulla inesistenza della notifica, per avere egli comunicato il decesso alla Corte d’appello.

E’ stata tradita quindi la funzione propria del quesito di diritto, che è di far comprendere alla Corte di legittimità, dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito e quale sia, secondo la prospettazione del ricorrente, la regola da applicare.(Cass. 8463-09; 7197-09).

Oltre a ciò, le Sezioni Unite hanno stabilito, in tali casi, che non è ammissibile un motivo di ricorso che si concluda con un quesito non corrispondente al contenuto del motivo stesso (SU 6530/08; Cass. 28280/08).

Inoltre – e si manifesta così il secondo profilo di inammissibilità – la specifica censura rivolta dagli odierni ricorrenti rispetto a tale decisione non è conferente con la ratio della decisione impugnata.

I ricorrenti incidentali S. avrebbero dovuto censurare la mancata applicazione degli artt. 163 e 164 c.p.c. in relazione alla nullità derivante dall’errata individuazione della parte appellata e al procedimento di sanatoria previsto dalle modifiche di cui alla novella codicistica del 1990.

Giova qui riproporre un passo di SU 15783/2005, che ha esaminato funditus il tema.

“La Corte Costituzionale con l’ordinanza n. 27 del 2000, nel dichiarare manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 163 c.p.c., comma 3, n. 2, art. 164 c.p.c., comma 2 (nel testo anteriore alla riforma del 1990) e art. 359 c.p.c., sollevata con riferimento all’art. 24 Cost.

– laddove le disposizioni impugnate non consentirebbero rimedio all’errore incolpevole dell’appellante che abbia ritenuto ancora in vita l’appellato al momento della notifica dell’impugnazione e non prevedono che la costituzione in giudizio degli eredi determini lei sanatoria ex tunc della nullità della citazione in appello notificata alla parte deceduta dopo la chiusura della discussione nel giudizio di primo grado rilevato che non era possibile operare la reductio ad legitimitatem delle norme impugnate in termini univoci e costituzionalmente obbligati, essendo astrattamente configurabili più itinera, tutti egualmente idonei a porre rimedio alla dedotta incostituzionalità, ha indicato come diritto vivente l’orientamento che ritiene valida l’impugnazione proposta nei confronti della parte non più esistente, allorchè la controparte abbia senza colpa ignorato l’evento.

E, poichè, come ha ricordato la Corte Costituzionale nella stessa pronuncia, è compito dell’interprete attribuire alla norma un significato che sia conforme alla Costituzione e che in ragione di tale conformità impedisca il verificarsi dell’effetto lesivo dei diritti della parte incorsa in errore incolpevole, ed assumere il precetto costituzionale, prima ancora che come parametro di legittimità delle fonti ordinarie, come fonte diretta di regolamentazione dei rapporti giuridici, deve ritenersi che limitatamente ai processi pendenti alla data del 30 aprile 1995, ormai in via di esaurimento, si imponga, quale unica interpretazione compatibile con l’art. 24 Cost., quella che valorizza la non conoscibilità dell’evento, secondo criteri di normale diligenza, da parte del soggetto che ha proposto l’impugnazione.

Tale lettura è resa necessaria dal rilievo che in relazione a detti processi, in presenza di un vizio che non attiene alla notificazione, ma alla individuazione della parte nei cui confronti il potere impugnatorio deve essere esercitato, il sistema non prevede una possibilità di rinnovazione dell’atto e sottopone la parte alle preclusioni derivanti dall’aver indirizzato in modo errate l’atto di impugnazione, a differenza di quelli disciplinati dalla novella del 1990, in ordine ai quali l’art. 164 c.p.c. predispone uno strumento per sanare, con efficacia ex tunc il vizio della citazione (e dell’impugnazione), se è omesso o risulta assolutamente incerto alcuno dei requisiti stabiliti nell’art. 163 c.p.c., nn. 1 e 2 così da offrire un congruo margine di tutela al soggetto incolpevole”.

Si desume da questi passaggi che non sussiste nel nostro caso un problema di integrazione del contraddittorio per omessa impugnazione nei confronti di taluna delle parti, posto che nei confronti di parte S. la notifica dell’impugnazione era stata effettuata e ritenuta valida.

In relazione a questo aspetto della decisione era da denunciare il vizio di nullità della sentenza in relazione all’art. 163 c.p.c., n. 2 e art. 164 c.p.c. per errata individuazione della parte appellata, e con esso la mancata adozione del provvedimento sanante di cui all’art. 164 c.p.c..

Il motivo e il quesito di diritto vertono invece sulle problematiche di cui all’art. 331 c.p.c. e sul vizio di notifica, che, per quanto detto in ordine al portato della decisione impugnata, non sono oggetto di esame officioso.

2) Il primo motivo del ricorso principale denuncia violazione dell’art. 1292 c.c..

Espone che gli intervenuti, in parte, erano difesi anche da altri difensori e che il giudice d’appello avrebbe creato una sorta di solidarietà attiva tra i soggetti vittoriosi e avrebbe applicato l’art. 97 c.p.c..

Il quesito, formulato con due proposizioni, mira ad affermare che la solidarietà attiva non si presume e che “non può ipotizzarsi nel caso in cui esistano più parti, sia pure assistite dal medesimo professionista, ciascuna delle quali abbia presentato distinta comparsa e memorie anche se non differenziate l’una dalle altre”.

La censura è infondata e prospettata con aspetti contraddittori, che la rendono in parte inammissibile.

Partendo dal presupposto che le posizioni delle parti intervenienti erano uguali (lo riconosce il ricorso stesso nella sintesi a pag. 21 in fine), la Corte d’appello ha ineccepibilmente ritenuto che al caso in esame si applicava dell’art. 5 della tariffa allegata al D.M. n. 585 del 1994, il comma 4 (ribadita nel D.M. n. 127 del 2004), il quale così recita:

Qualora in una causa l’avvocato assista e difenda più persone aventi la stessa, posizione processuale l’onorario unico può essere aumentato per ogni parte del 20% fino ad un massimo di dieci e, ove le parti siano in numero superiore, del 5% per ciascuna parte oltre le prime dieci e fino ad un massimo di venti.

La stessa disposizione trova applicazione, ove più cause vengano riunite, dal momento dell’avvenuta riunione.

Ha quindi conseguentemente riliquidato le spese di lite.

Va aggiunto, a conferma della correttezza del procedimento seguito, che l’art. 7 della tariffa, relativo all’ipotesi di pluralità dei difensori, prevede che:

Nel caso che incaricati della difesa siano più avvocati, ciascuno di essi ha diritto nei confronti del cliente agli onorari per l’opera prestata, ma nella liquidazione a carico del soccombente sono computati gli onorari per un solo avvocato.

Ciò si osserva in relazione a una parte del quesito in cui si assume che vi siano state “autonome e differenziate difese”, circostanza che è contraddetta – o forse spiegata – dalla successiva proposizione di pag. 21, in cui si rappresenta che ciascuna delle parti aveva “presentato distinta comparsa e memorie” (ciò costituirebbe la differenza), “anche se non differenziate l’una dalle altre”.

Va dunque rigettata la censura finalizzata a ottenere “il pagamento delle spese per intero nei confronti di ciascun interveniente”, evidenziando che la censura non ha prospettato specificamente che l’operai defensionale, pur se formalmente unica, abbia comportato la trattazione di differenti questioni in relazione alla tutela di posizioni giuridiche non identiche, che è questione di merito non esaminabile ex officio dalla Suprema Corte (Cass. 17363/04);

3) Il secondo motivo del ricorso principale lamenta violazione dell’art. 91 c.p.c., del D.M. n. 127 del 2004, in relazione all’art. 5 della tariffa forense e all’art. 11 c.p.c..

Il quesito, che sintetizza la lunga esposizione del motivo, mira a far affermare che in caso di più parti assistite dal medesimo difensore non sono applicabili i commi 3 e segg. dell’art. 5 della tariffa (di cui si è discusso in relazione al motivo precedente e che prevede le limitazioni dei compensi dell’avvocato che assista e difenda più persone aventi la stessa, posizione processuale).

Per parte ricorrente i criteri da applicare nella quantificazione a carico del soccombente non prevedono riduzioni di sorta, anche nel caso di “sostanziale identità processuale delle parti” e di “identiche formulazioni difensive”, perchè i criteri utilizzati dalla Corte territoriale; sarebbero tratti da norme “previste esclusivamente; per la liquidazione delle spese da adottarsi a carico dei clienti” (pag. 25 ricorso).

Anche questa doglianza è priva di qualsiasi fondamento.

Pacifica giurisprudenza, ormai di rara applicazione per la assenza di contestazioni sul punto, ha insegnato che: “Il criterio della parcella unica a carico del cliente che, ai sensi dell’art. 5 della tariffa forense approvata con D.M. 22 giugno 1982, “nei casi di assistenza e difesa di più parti aventi la stessa posizione processuale … potrà1 essere aumentata, per ogni parte fino ad un massimo di sei, del 20%”, deve presiedere anche alla liquidazione, a carico del soccombente, del compenso spettante al difensore di più parti vittoriose con identica situazione processuale, in base al principio generale secondo cui il soccombente stesso non può essere tenuto a rimborsare alla parte vittoriosa più di quanto questa debba al difensore, in relazione all’attività concretamente svolta.”(Cass. 334/88; 6935/82).

4) Il terzo motivo lamenta violazione delle medesime norme indicate nell’epigrafe del secondo. Dopo brevissima argomentazione, parte ricorrente chiede “se sia consentito nella liquidazione delle spese processuali di soccombenza adottare per le competenze (e spese) criteri diversi da quelli previsti dal D.M. n. 127 del 2004.

Ciò al dichiarato fine di negare che detti criteri consentano “riduzioni di sorta come quella operata dalla impugnata sentenza nel dispositivo peraltro in contrasto con quanto deciso nella parte motiva”.

Il quesito, quand’anche lo si ritenga formulato unificando le due proposizioni chiamate “quesito” e “motivo”, appare inammissibile.

Esso infatti non evidenzia quale sia il reale oggetto della censura, comprensibile solo con un’indagine e una ricerca del giudice di legittimità nel corpo del motivo, attività che gli è preclusa, dovendo il quesito di diritto essere; formulato, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., in termini tali da costituire una sintesi logico- giuridica della questione, così da chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie (SU 26020/08).

Inoltre le “riduzioni” cui allude il “quesito” formulato avrebbero dovuto comunque essere specificamente evidenziate, riproducendo la liquidazione precedente e dettagliatamente indicando le voci oggetto di contestazione.

Nè può essere presa in considerazione la “plateale contraddittorietà” cui allude il ricorso, in mancanza di espressa denuncia di un vizio di motivazione e di puntuale specificazione del fatto controverso ex art. 366 bis c.p.c..

5) I ricorsi incidentali degli intervenienti, sostanzialmente identici. a quello principale meritano, per le medesime ragioni, il rigetto.

6) Non meritevole di accoglimento è anche il ricorso incidentale C..

Il primo motivo, che denuncia violazione di norme, rimaste imprecisate in rubrica (artt. 36 e 75 c.p.c.), circa l’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum dei consorziati, si chiede se in caso positivo fosse legittima la condanna del soccombente alla rifusione delle spese in loro favore pur in assenza di attività sostanziale di essi.

Esso è inammissibilmente formulato.

Non individua infatti, e non censura adeguatamente, le rationes decidendi in forza delle quali la Corte aveva confermato la esperibilità degli interventi.

La Corte aveva predicato sia la sussistenza in via generale dell’interesse di un consorziato a intervenire in giudizio in aiuto di un consorzio di cui si è parte, sia la sussistenza di un interesse a contrastare la pretesa, pure avanzata in via incidentale dal C., relativa all’inesistenza e irregolarità del consorzio stesso.

Il secondo motivo, che lamenta violazione dei criteri previsti dai decreti ministeriali, deduce l’eccessività della liquidazione e la predisposizione di un “fac-simile di parcella” che avrebbe dovuto dimostrare la spettanza al difensore del ricorrente di somme inferiori.

Nel quesito si chiede genericamente, senza motivare l’alternativa, se fosse legittima la liquidazione unitaria ex art. 5 della tariffa.

E’ agevole comprendere come il motivo sia stato redatto difettando la specificità e l’autosufficienza necessarie a far emergere, senza consultare altre risultanze, gli errori lamentati e le loro ricadute.

L’applicazione dell’art. 5, per quanto già detto nell’esame del ricorso principale, era inoltre appropriata, salve ulteriori puntuali critiche, che dal generico quesito non emergono.

7) L’ultimo motivo, relativo alla parziale condanna alle spese subita nel giudizio di appello, in luogo di esporre un vizio di motivazione in ordine alla individuazione della soccombenza in quel giudizio, denuncia una violazione di legge che consisterebbe nella condanna “dell’appellante, comunque vittorioso”.

E’ anche qui agevole osservare che il quesito e il motivo stravolgono la realtà accertata dalla Corte, ipotizzando un presupposto (la condizione di parte totalmente vittoriosa) che dovrebbe sostanziare la violazione dell’art. 91 c.p.c..

La lettura della sentenza – e il resoconto che se ne è fatto trattando gli altri motivi dei ricorsi – evidenziano invece che vi fu solo parziale accoglimento dell’appello del C. e che la Corte ebbe a considerare “la sua maggiore soccombenza”.

Avverso tale valutazione doveva essere eventualmente portata la critica, che è del tutto mancata.

Segue da quanto esposto che i ricorsi, riuniti ex art. 335 c.p.c., devono essere respinti. In ragione della reciproca soccombenza, si impone la compensazione delle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li rigetta. Spese compensate.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 29 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2010

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