Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18618 del 22/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 22/09/2016, (ud. 08/06/2016, dep. 22/09/2016), n.18618

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25584-2015 proposto da:

AZIENDA VIVAISTICA C. SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del

liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

REGINA MARGHERITA 217 SC. D, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO

FALIVENE, che la rappresenta e difende giusta procura speciale in

calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO DI C.G.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3819/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA dei

24/09/2014, depositata il 19/06/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/06/2016 dal Consigliere Relatore Dott. LINA RUBINO.

Fatto

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“l’azione revocatoria proposta dalla Curatela del Fallimento di C.G. nei confronti dell’atto traslativo della proprietà con il quale il C. aveva alienato un terreno di sua proprietà all’Azienda Vivaistica C. s.r.l. veniva accolta in primo grado dal Tribunale di Roma, con decisione confermata in appello dalla Corte d’Appello di Roma con la sentenza n. 3819 del 19.6.2015, qui impugnata.

L’Azienda Vivaistica C. s.r.l. in liquidazione propone ricorso per cassazione articolato in due motivi, deducendo con entrambi la nullità della sentenza per violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c. nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 2901, 2729 e 2697 c.c. in relazione ai due diversi presupposti di accoglimento dell’azione revocatoria.

Il Fallimento, intimato, non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso può essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 c.p.c., in quanto appare manifestamente infondato.

Per quanto concerne il primo motivo, la ricorrente sostiene che la corte d’appello avesse erroneamente ritenuto provato il requisito dell’eventus damni, sull’erroneo presupposto in fatto che il bene uscito dal patrimonio del C., ipotecato, fosse di elevato valore, superiore addirittura al credito garantito, laddove il valore del bene era irrisorio e la vendita non aveva apportato alcun detrimento al ceto creditorio.

Il motivo è infondato. La corte d’appello, a proposito del requisito dell’eventus damni, si è attenuta al principio di diritto più volte affermato da questa corte, secondo il quale affinchè sussista l’eventus damni a fondamento dell’azione revocatoria ordinaria non è richiesta la totale compromissione della consistenza patrimoniale del debitore, ma soltanto il compimento di un atto che renda più incerto o difficile il soddisfacimento del credito, che può consistere non solo in una variazione quantitativa del patrimonio del debitore, ma anche in una modificazione qualitativa di esso (Cass. n. 1896 del 2012).

Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale la ricorrente denuncia le medesime violazioni di legge in ordine al requisito della scientia damni in capo al terzo acquirente.

Tuttavia la corte d’appello ha deciso la suddetta questione di diritto, all’interno del provvedimento impugnato, in modo conforme alla giurisprudenza della Corte: la prova della “participatio fraudis” del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente (Cass. n. 5359 del 2009; v. anche Cass. n. 17327 del 2011 e Cass. n. 27546 del 2014). Si tratta comunque di accertamento in fatto la corte d’appello, in particolare, ha accertato che il C. vendette il bene ad una società di famiglia amministrata dalla sorella e della quale era socia anche la madre, desumendone una sia pur generica ma inevitabile consapevolezza, in capo all’amministratrice della società acquirente, del pregiudizio che l’atto di disposizione potesse arrecare ai creditori del congiunto) non censurabile in cassazione se non nei limiti dell’attuale rilevanza del vizio di motivazione.

Si propone pertanto che il ricorso sia dichiarato manifestamente infondato”.

La ricorrente ha depositato memoria difensiva, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella Camera di consiglio, il Collegio, esaminata la memoria prodotta dalla ricorrente, ha condiviso i motivi in fatto ed in diritto esposti nella relazione stessa.

Il ricorso proposto va pertanto rigettato.

Nulla sulle spese, in difetto di costituzione dell’intimato.

Infine, il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 18, pertanto deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 22 settembre 2016

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