Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18615 del 11/08/2010

Cassazione civile sez. I, 11/08/2010, (ud. 18/05/2010, dep. 11/08/2010), n.18615

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente –

Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –

Dott. SALME’ Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 7385-2005 proposto da:

INTESA GESTIONE CREDITI S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), già Cassa di

Risparmio Salernitana S.p.a. e in nella qualità di procuratore di

Banca Intesa S.p.a. (già Banca Intesa Banca Commerciale Italiana

S.p.a., in persona del funzionario pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA PANAMA 52, presso lo STUDIO SANTILLI

ACERNESE MONTESI-LEXJUS, rappresentata e difesa dall’avvocato TUCCI

GIUSEPPE, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO SO.CA.D. S.R.L. (c.f. (OMISSIS)), in persona del

Curatore Prof. avv. F.S., elettivamente domiciliato in

ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 10, presso l’avvocato PATERNOSTRO GEMMA,

rappresentato e difeso dall’avvocato VALENTINI OLINTO RAFFAELE,

giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1256/2004 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 27/12/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

18/05/2010 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE SALME’;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato GIUSEPPE TUCCI che ha chiesto

l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

RUSSO Libertino Alberto che ha concluso per l’accoglimento del terzo

motivo del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 9 gennaio 2002 il tribunale di Trani ha revocato, ai sensi dell’art. 67, comma 2, l.f., i versamenti effettuati dalla SOCAD s.r.l. alla Cassa di risparmio di Puglia, incorporata nel corso del giudizio da Banca Intesa s.p.a., nell’anno antecedente alla sua dichiarazione di fallimento, condannando la banca alla restituzione di L. 198.117.241, pari ad Euro 102.319,02.

Con sentenza del 27 dicembre 2004 la corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado. In ordine alla scientia decotionis la corte territoriale ha osservato che, a parte l’utilizzabilità, sotto il profilo cronologico, dei dati forniti dalla Centrale rischi e dai bilanci della società degli anni 1988 e 1989, aveva carattere assorbente il rilievo che nel giugno del 1990 la banca aveva revocato gli affidamenti e aveva richiesto un decreto ingiuntivo per L. 645.363.282, con ciò dimostrando che, quanto meno dal mese di maggio precedente (nel corso del quale erano state effettuate le rimesse revocate), era ben consapevole dello stato di grave difficoltà economica, se non di decozione, della società.

Per quanto riguarda le rimesse, premesso che non era necessario accertare la sussistenza di un danno concreto ed effettivo, essendo sufficiente un pericolo di danno derivante dall’atto da revocare, la corte territoriale ha affermato che a un conto corrente salvo buon fine aperto presso la banca appellata non poteva riconoscersi natura di conto corrente di corrispondenza, anche perchè la banca stessa non aveva prodotto il contratto di apertura del conto stesso e, pertanto, alle operazioni di “giroconto” e a quelle, asseritamente “bilanciate”, che avevano interessato anche il conto corrente di corrispondenza intestato alla società presso la stessa filiale, non poteva essere negata la natura solutoria, sull’assunto che i versamenti sarebbero stati destinati ad eseguire contestuali pagamenti da effettuare su disposizione della società, in quanto la prova delle operazioni “bilanciate” esigeva il riscontro di specifici accordi presi in proposito, al fine di finalizzare i versamenti non a ripianare il conto ma a costituire una specifica provvista per dare esecuzione agli ordini ricevuti e accettati dalla banca, prova che non era stata fornita.

Infine, la corte d’appello ha affermato che la condanna alla restituzione di una somma di denaro (L. 198.117.241) superiore a quella richiesta con la domanda (L. 180.628.741), derivante dall’esito della c.t.u. in relazione alla quale la banca aveva avuto ampia facoltà di contraddire, non dava luogo a ultrapetizione, ma a semplice emendatio libelli che lasciava inalterati i termini della controversia.

Avverso la sentenza della corte d’appello di Bari Intesa Gestione Crediti s.p.a., nella qualità di procuratore di Banca Intesa Banca Commerciale Italiana s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi, illustrati con memoria, ai quali resiste il fallimento della SOCAD, con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 67, comma 2, l.f. e vizio di motivazione. La corte territoriale avrebbe errato, innanzi tutto, nel ritenere che la conoscenza dell’indebitamento della società fosse equivalente alla conoscenza dello stato d’insolvenza e che tale conoscenza si potesse correttamente desumere dalla richiesta di decreto ingiuntivo, che presupponeva esclusivamente l’allegazione del proprio credito.

Inoltre, la revoca degli affidamenti e la richiesta di decreto ingiuntivo erano successivi ai versamenti revocati. Dai bilanci del 1987 e del 1988 non emergevano elementi che potessero dimostrare lo stato di decozione, mentre il bilancio del 1989 era stato depositato nel maggio del 1990 e quindi non poteva dimostrare la conoscenza dell’insolvenza nello stesso mese di maggio. Quanto, infine alle informazioni della Centrale rischi, a parte che si tratta di informazioni parziali e che attengono alla valutazione del merito creditizio e non alla conoscenza dello stato d’insolvenza, le stesse vengono diffuse con ritardo rispetto ai periodi presi in considerazioni e pertanto quelle relative al mese di maggio 1990 sarebbero state conoscibili solo nel successivo mese di luglio o di settembre. Per altro verso la ricorrente censura la sentenza impugnata per non avere motivato la ritenuta esistenza di un pericolo di danno derivante dagli atti da revocare.

Il motivo è inammissibile.

Quanto alla prova della scientia decoctionis, infatti, il relativo apprezzamento è riservato al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivato.

A tal fine deve osservarsi, come è stato già affermato (Cass. n. 2557/2008), che il giudice del merito correttamente può formarsi il convincimento anche attraverso il ricorso alla presunzione, alla luce del parametro della comune prudenza ed avvedutezza e della normale ed ordinaria diligenza che deve tenere conto della condizione professionale dell’accipiens. In particolare, con riferimento alle banche, si è ritenuto che è corretta la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza della società fallita desunta dalla revoca dell’affidamento, seguita da iniziativa monitoria promossa dalla banca e da emissione di altro decreto ingiuntivo con iscrizione ipotecaria, a favore di diverso creditore. Inoltre, con specifico riferimento alle presunzioni desumibili dalle informazioni della Centrale rischi, si è affermato (Cass. n. 19894/2005) che il sistema informativo della Centrale dei rischi, regolato da norme di legge e da disposizioni emanate dal Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio e dalla Banca d’Italia consente agli istituti di credito di conoscere elementi indicativi della situazione di insolvenza dei soggetti finanziati, quali la revoca degli affidamenti e l’emissione di decreti ingiuntivi. Da tale disciplina può dedursi che la segnalazione dei crediti appostati a sofferenza è usualmente praticata da tutti gli intermediari creditizi e che un banchiere, anche solo minimamente avveduto, sia solito compulsare tale fonte di informazione.

In ordine al pericolo di danno, la corte territoriale, pur non avendo espressamente fornito motivazione sul punto, si è implicitamente conformata all’orientamento costante (da ultimo v. Cass. n. 5505/2010) secondo cui la revoca dell’atto oneroso compiuto nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento non è subordinata alla ricorrenza di un danno concreto per la massa, poichè il danno è “in re ipsa” e presunto in via assoluta, consistendo nella pura e semplice lesione della “par condicio creditorum”, ricollegabile all’uscita in sè del bene dalla massa, conseguente all’atto di disposizione.

2. Con il secondo motivo deducendo la violazione e falsa applicazione della disciplina fallimentare in materia di revocabilità delle rimesse bancarie e difetto di motivazione, la ricorrente censura l’affermazione della corte territoriale secondo la quale il conto corrente salvo buon fine non avrebbe avuto natura di conto corrente di corrispondenza perchè era caratterizzato dalla messa a disposizione di somme di denaro per la durata del rapporto, come emergeva dagli estratti conto depositati in giudizio e non contestati. Dopo aver ribadito che i versamenti revocati avevano in realtà dato luogo a operazioni bilanciate, delle quali era esclusa la natura solutoria, la ricorrente contesta che tale natura avessero le singole operazioni analiticamente esaminate.

Anche tale motivo non è ammissibile, in quanto diretto a censurare il giudizio di fatto compiuto dalla corte territoriale, circa la natura solutoria delle rimesse revocate. Giudizio che appare sufficientemente e logicamente motivato. Infatti, la corte ha escluso che nella specie ricorre l’ipotesi di operazioni bilanciate, nelle quali viene meno la funzione solutoria, non essendovi prova di accordi intercorsi tra il solvens e l’accipiens, che le abbiano destinate a costituire la provvista di coeve o prossime operazioni di prelievo o di pagamenti mirati in favore di terzi, in modo tale da potersi escludere che la banca abbia beneficiato dell’operazione sia prima, all’atto della rimessa, sia dopo, all’atto del suo impiego.

3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e difetto di motivazione per avere pronunciato la condanna alla restituzione per una somma maggiore di quella richiesta.

Il motivo è fondato.

La pretesa restitutoria avanzata dal fallimento è identificata, nei suoi limiti oggettivi, dalla somma richiesta con la domanda introduttiva. La richiesta di un quantum maggiore costituisce un indebito mutamento della domanda originaria, non consentito nè, implicitamente attraverso l’accettazione del contraddittorio sulle conclusioni del c.t.u., nè espressamente con la formulazioni di conclusioni diverse da quelle inizialmente rassegnate.

4. In conclusione, dichiarati inammissibili il primo e il secondo motivo, deve essere accolto il terzo.

Non esistendo ulteriori accertamenti da compiere può essere accolta la domanda originariamente proposta e, pertanto, la banca deve essere condannata alla restituzione della somma di Euro 93.286,96, oltre agli interessi al tasso legale dalla domanda.

Quanto alle spese possono essere compensate fino alla metà, attesa la reciproca soccombenza, per l’intero giudizio.

P.Q.M.

La corte dichiara inammissibili il primo e il secondo motivo, accoglie il terzo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito, ex art. 384 c.p.c., condanna l’Intesa gestione crediti a restituire al Fallimento la somma di Euro 93.286,96 oltre agli interessi dalla domanda al soddisfo. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese che, previa compensazione sino alla metà, si liquidano in Euro 3.286,35 quanto al giudizio di primo grado, in Euro 6.553, 54 (Euro 1.405,50 per esborsi ed Euro 2.048,30 per diritti) per il secondo grado e in Euro 850,00 (di cui 100,00 per esborsi) quanto al giudizio di cassazione, comunque, oltre alle spese generali e agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 18 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 agosto 2010

 

 

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