Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18604 del 11/07/2019

Cassazione civile sez. trib., 11/07/2019, (ud. 30/04/2019, dep. 11/07/2019), n.18604

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23679-2012 proposto da:

FGA CAPITAL SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DI VILLA MASSIMO 57, presso

lo studio dell’avvocato SERENA FANTINELLI, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati BARBARA FAINI, GIANFRANCO DI GARBO,

FRANCESCO FLORENZANO giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 60/2011 della COMM. TRIB. REG. di TORINO,

depositata il 19/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/04/2019 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

TASSONE KATE che ha concluso per fondati il 1 e 2 motivo di ricorso,

assorbiti restanti;

udito per il ricorrente l’Avvocato FAINI che si riporta agli scritti;

udito per il controricorrente l’Avvocato PALATIELLO che ha chiesto il

rigetto previa eventuale rimessione alle Sezioni Unite.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Nell’aprile 2008 la società FCA Capital spa (già Fiat Group Automobiles Financial Services spa, e, in seguito, FCA Bank spa) formulava istanza di interpello per la disapplicazione della norma sul riporto delle perdite, a seguito di una complessa operazione di fusione per incorporazione nell’ambito di un programma di ristrutturazione aziendale del gruppo Fiat Auto spa, che l’ufficio qualificava come ordinario L. n. 212 del 2000, ex art. 11, e respingeva.

La società impugnava il provvedimento di rigetto, ma avanzava anche istanza di revisione del provvedimento di rigetto, che l’ufficio respingeva di nuovo.

La società impugnava, allora, oltre al provvedimento di rigetto dell’interpello (oggetto di separata causa), anche quest’ultimo provvedimento, cioè il rigetto dell’istanza di revisione del primo provvedimento di diniego.

La CTP e la CTR dichiaravano inammissibile il ricorso della società, perchè proposto contro atto non autonomamente impugnabile.

Per la cassazione della sentenza di secondo grado ricorre a questa Corte la società sulla base di due motivi.

La società e l’ufficio hanno presentato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo la società ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la sentenza dei primi Giudici che ha dichiarato l’inammissibilità dell’impugnazione proposta dalla Società avverso il diniego reso in relazione all’istanza di interpello presentata ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8. La sentenza è, in parte qua, nulla per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Con il secondo motivo deduce la illegittimità della sentenza impugnata nella parte in cui ha confermato la sentenza di prime cure che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso introduttivo, sul presupposto che il diniego di revisione della risposta negativa resa in relazione all’istanza di interpello presentata ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, non costituisce un atto vincolante per il contribuente. La sentenza è, in parte qua, viziata per violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 84, comma 3, art. 172, comma 7, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Nell’ambito di questo motivo, in subordine al rigetto dello stesso, deduce l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, per violazione degli artt. 3,24 e 113 Cost..

Sempre in subordine, con il terzo motivo deduce inesistenza/nullità del provvedimento dedotto in giudizio, per difetto di motivazione.

Con il quarto motivo deduce illegittimità/oggettiva infondatezza del provvedimento dedotto in giudizio, in quanto sussistevano i presupposti per la presentazione dell’istanza di interpello ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

I primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente attendendo alla impugnabilità del provvedimento oggetto di causa, sono infondati.

E’ bene ribadire che la presente controversia riguarda la impugnabilità del rigetto dell’istanza di revisione di un interpello, essendo il rigetto dell’interpello stato impugnato separatamente in altro giudizio.

In mancanza di una norma specifica che regoli – in un senso affermativo o negativo l’impugnabilità dell’atto in questione (rigetto di una richiesta di revisione di precedente rigetto di interpello), per valutare se esso sia impugnabile o meno, può essere utile applicare “a contrario” gli stessi principi che questa Corte ha affermato in una sentenza fondamentale in tema di impugnabilità degli atti, con particolare riferimento agli interpelli – naturalmente nel regime anteriore alla novella legislativa del 2015 – vale a dire sez. V, n. 17010 del 2012.

In tale sentenza, per affermare l’autonoma impugnabilità – seppure facoltativa – del diniego di interpello, la Corte ha valorizzato i seguenti aspetti:

– l’obbligatorietà dell’istanza

– il fatto che essa sia rivolta ad ottenere un atto dell’amministrazione

– la definitività della decisione.

Si tratta di vedere come questi principi possano essere utili per valutare l’ammissibilità dell’impugnazione di un atto diverso, quale quello del diniego di revisione del rigetto dell’interpello.

Se il secondo elemento non può non essere proprio anche di un’istanza di revisione di un precedente diniego, quelli che appaiono del tutto carenti in relazione al provvedimento in questione sono il primo ed il terzo requisito, atteso che la richiesta di revisione del primo provvedimento non è affatto obbligatoria, non essendo neppure specificamente prevista dalla legge.

Piuttosto, proprio la normativa specifica attribuisce alle risposte agli interpelli una caratteristica che porta a ritenere come la richiesta di revisione sia effettivamente un atto del tutto atipico e privo di copertura normativa: quella della definitività.

Il D.M. n. 259 del 1998, intitolato “Regolamento recante norme da osservare per la compilazione e l’inoltro al direttore regionale delle entrate, competente per territorio, delle istanze tese ad ottenere la disapplicazione delle disposizioni normative di natura antielusiva, da adottare ai sensi del D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7, comma 1” che regola le modalità operative per le richieste di interpello disapplicativo (come il ricorrente qualifica il proprio atto), afferma, infatti, all’art. 1, comma 6, che

Le determinazioni del direttore regionale delle entrate vanno comunicate al contribuente, non oltre novanta giorni dalla presentazione dell’istanza, con provvedimento che è da ritenersi definitivo.

La stessa sentenza n. 17010 del 2012 afferma che

la “definitività” prevista dal citato D.M. n. 259 del 1998, art. 1, comma 6, va intesa semplicemente come impossibilità di richiesta di riesame delle determinazioni del direttore regionale mediante ricorso gerarchico, e la definitività della risposta all’interpello è stata affermata anche da sez. V, n. 5574 del 2019.

E’ evidente che tale impossibilità non è limitata al ricorso gerarchico, ma a qualunque forma di revisione. Questo anche perchè, nel sistema che si è andato delineando dopo la suddetta sentenza del 2012 – sempre con riferimento al regime ante novella del 2015 -, l’istanza di revisione non è affatto l’unico rimedio contro il rigetto o la dichiarazione di inammissibilità dell’interpello; il rimedio, infatti, è stato aperto dalla giurisprudenza con l’impugnazione autonoma del rigetto di interpello, cosicchè l’istanza di revisione e l’impugnazione del relativo diniego appaiono davvero relegate alle ipotesi che, sebbene non impossibili in via di mero fatto, sono però prive di copertura normativa, esistendo altri modi per la tutela del contribuente.

E’ vero che, oggi, la L. n. 212 del 2000, art. 11, prevede la possibilità della rettifica da parte dell’Amministrazione della soluzione interpretativa proposta, ma – a parte il fatto che tale previsione è stata introdotta nel 2015 – la formulazione della norma, che si riferisce specificamente alla valutazione dei comportamenti del contribuente, appare regolare l’ipotesi del mutamento di orientamento dell’ufficio a seguito di nuovo interpello; in ogni caso, la norma non si occupa in alcun modo della impugnabilità del diniego di revisione, per cui non è rilevante ai fini della presente causa.

In sintesi, quindi, il diniego disapplicativo è un atto definitivo in sede amministrativa e recettizio con immediata rilevanza esterna. L’istanza di revisione è una sorta di richiesta di autotutela il cui potere, in linea generale, soggiace alla più ampia valutazione discrezionale e non si esercita in base ad un’istanza di parte, avente al più portata meramente sollecitatoria e inidonea, come tale, ad imporre alcun obbligo giuridico di provvedere (Cons. Stato, Sez. 3, n. 3507 del 2018; in senso conforme Cons. Stato, Sez. 5, n. 2380 del 2018 e Sez. U, n. 32358 del 2018, par. 3.7), essendone l’esercizio funzionale alla soddisfazione di esigenze di rilevante interesse generale (Sez. V, ord. n. 5332 del 2019). Sicchè, operando anche l’autotutela tributaria solo in relazione alle ridette ragioni di rilevante interesse generale (che uniche giustificano l’esercizio di tale potere), essa si fonda su valutazioni ampiamente discrezionali come ribadito anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 181 del 2017, e non costituisce uno strumento di tutela di meri diritti individuali del contribuente (in tal senso anche Sez. V, ord. n. 21146 del 2018).

La conclusione della CTR di inammissibilità dell’impugnazione perchè normativamente non prevista, o contro atto non previsto come impugnabile, appare, dunque, corretta.

E’ vero che il primo motivo è stato formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4), e, effettivamente, la motivazione della CTR compie riferimento al “diniego di interpello” (che invece è oggetto della causa connessa), ma va anche detto che, dalle premesse fattuali riassunte dalla CTR nella parte sullo svolgimento del processo, l’oggetto di questa causa appare chiaro, è il diniego di revisione, per cui tutto quanto la CTR afferma (anche se in maniera imprecisa perchè anche nella parte motiva menziona il “rigetto di interpello” e non il “rigetto di istanza di revisione di un interpello”) è riferibile all’atto specifico di questa controversia.

Nè argomenti a favore della tesi dell’impugnabilità del diniego di revisione possono trarsi dalla ordinanza sez. VI n. 16962 del 2017, citata dal contribuente in memoria, atteso che quest’ultima conferma l’impugnabilità del diniego di interpello disapplicativo, e non si occupa dell’impugnazione del diniego di revisione. Laddove conferma, poi, la non retroattività della disciplina del 2015 (che limita la impugnabilità anche del diniego di interpello disapplicativo perchè, pur prevedendola, la lega però all’impugnazione dell’atto impositivo e non la prevede come autonoma), non fornisce in ogni caso spunti utili per l’impugnabilità del diniego di revisione, perchè la non retroattività della novella non significa che nel regime anteriore tutti gli atti relativi ad interpelli (e quindi anche il diniego di revisione) fossero autonomamente impugnabili.

Il rigetto del primo e secondo motivo determina, allora, la necessità di affrontare le questioni subordinate, a partire dalla questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19; il fatto, cioè, che il diniego di revisione dell’interpello non sia impugnabile contrasterebbe con gli artt. 3,24 e 113 Cost..

La questione, tuttavia, appare infondata in base alle considerazioni sopra esposte, perchè il fatto che non sia impugnabile un atto neppure previsto da una specifica norma, del tutto facoltativo per il contribuente, non appare ledere in alcun modo nè il diritto di difesa, nè quello di uguaglianza e ragionevolezza.

Nel terzo motivo la società lamenta che La CTR non ha sufficientemente rilevato il vizio di motivazione del provvedimento di diniego di revisione, affermando di avere dedotto tale vizio fin dal primo grado. La sentenza è del luglio 2011 e quindi la questione deve essere analizzata alla luce della formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ante riforma del 2012.

Il motivo è infondato.

Nella specie appare, infatti, ravvisabile una motivazione implicita da parte della CTR; cioè la CTR non si è soffermata specificamente sul difetto di motivazione dell’atto perchè aveva già ritenuto che l’atto non fosse impugnabile, e questo ha logicamente assorbito i dedotti vizi di motivazione dell’atto stesso.

Il quarto motivo tende a fare valere il fatto che, anche ritenendo non impugnabile l’atto in questione, tuttavia la CTR poteva esaminare nel merito l’istanza oggetto dell’interpello (cioè per la società di disapplicazione delle norme sul riporto delle perdite in caso di fusione).

Il motivo è infondato.

E’ vero, come principio generale, che in giurisprudenza si è sostenuto che l’affermata obbligatorietà dell’interpello di cui all’art. 37-bis, comma 8, non si traduce nella impossibilità di fare valere in sede giudiziale gli stessi argomenti che ne sono alla base, anche qualora lo stesso non sia stato proposto. Si veda, al riguardo, Sez VI n. 16183 del 2014 in tema di iva, secondo cui: “invero la giurisprudenza di questa Corte appare attestata sul principio secondo cui la procedura di interpello con cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 8, costituisce per il contribuente una facoltà che consente di conseguire (in caso di risposta positiva dell’Ufficio) una certezza nei rapporti con la Amministrazione. Ma l’utilizzo di tale strumento non costituisce una via obbligata per il superamento della presunzione posta a carico del contribuente stesso dalle disposizioni anti-elusivo. Quindi al contribuente è sempre consentito fornire in giudizio la prova delle condizioni che consentono di superare la presunzione posta dalla legge a suo danno”; in senso analogo anche sez. V, n. 10453 del 2018.

Tuttavia il principio che emerge dalle sentenze sopra citate è quello per cui, se anche il contribuente non ha formulato previamente l’interpello, può fare valere in giudizio la prova delle condizioni che, a suo giudizio, giustificavano la richiesta di disapplicazione. Nel caso di specie, però, ci si trova in una situazione differente.

Il contribuente ha presentato istanza di interpello, ha impugnato il diniego (e questa impugnazione è oggetto di separato giudizio), ha proposto istanza di revisione del medesimo diniego, che è stata dichiarata inammissibile, ed in questa sede impugna la pronuncia di inammissibilità del diniego di revisione.

La situazione processuale attuale, quindi, si distingue dalle situazioni relative alle decisioni in cui è stato espresso il principio sopra citato, secondo cui anche in mancanza di previo interpello è sempre possibile fare valere il merito in giudizio. Nel caso di specie l’interpello si è verificato, l’impugnazione del diniego (e dell’eventuale merito) è oggetto di discussione in altra sede, mentre il presente giudizio riguarda la impugnabilità di un ulteriore atto, conseguente ad una iniziativa del contribuente non specificamente regolata e, per così dire, atipica.

Applicare, allora, il suddetto principio in questa sede vorrebbe dire, sostanzialmente, moltiplicare, in teoria senza limiti, le sedi in cui il merito può essere discusso, in contrasto, a questo punto, con un altro principio fondamentale del sistema, quello della certezza dei rapporti giuridici, sui quali non verrebbe mai scritta una parola finale.

In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente e, considerato il valore della causa, si liquidano in Euro 30.000.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 30.000, oltre alle spese prenotare a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2019

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