Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18592 del 07/09/2020

Cassazione civile sez. un., 07/09/2020, (ud. 07/07/2020, dep. 07/09/2020), n.18592

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. DI IASI Camilla – Presidente di sez. –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di sez. –

Dott. TRIA Lucia – rel. Presidente di sez. –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco M. – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19144-2019 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in

persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– ricorrente –

contro

L.M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SAN

BERNARDO 101, presso lo studio dell’avvocato GENNARO TERRACCIANO,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO D’ATRI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1321/2019 del CONSIGLIO DI STATO, depositata

il 25/02/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/07/2020 dal Presidente Dott. LUCIA TRIA;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. CELENTANO CARMELO, che ha concluso per

l’inammissibilità del ricorso;

uditi gli avvocati Gennaro Terracciano, e Roberto D’Atri.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La professoressa L.M.C. – con qualifica, dal 1 novembre 2001, di professore associato di Diritto del lavoro (SSD IUS/07) presso l’Università degli Studi di Messina, Dipartimento di Giurisprudenza, confermata nel ruolo a decorrere dall’1 giugno 2005 – ha presentato domanda di ammissione alla procedura per conseguimento dell’abilitazione scientifica – nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima fascia, indetta dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (d’ora in poi: MIUR), per l’anno 2012, con Decreto Direttoriale 20 luglio 2012, n. 222;

La Commissione esaminatrice, pur con valutazioni di merito positive delle pubblicazioni della candidata (attestate tra il livello “buono” e il livello “accettabile”), esprimeva un complessivo giudizio negativo;

L’interessata impugnava gli atti e il TAR del Lazio, Roma, con la sentenza 13 novembre 2014, n. 11423, ne dichiarava l’annullamento ordinando il riesame della candidata da parte di una nuova Commissione sottolineando che, ancorchè i giudizi di merito avessero tenore positivo, l’abilitazione non era stata attribuita a causa della particolare metodologia di valutazione adottata dalla Commissione nominata per il settore di Diritto del Lavoro e, in particolare, a causa del travisamento del significato assegnato dal D.M. n. 76 del 2012 (Regolamento recante criteri e parametri per la valutazione dei candidati ai fini dell’attribuzione dell’abilitazione scientifica nazionale per l’accesso alla prima e alla seconda fascia dei professori universitari, nonchè le modalità di accertamento della qualificazione dei Commissari, ai sensi della L. 30 dicembre 2010, n. 240, art. 16, comma 3, lett. a, b e c, del D.P.R. 14 settembre 2011, n. 222, art. 4 e art. 6, commi 4 e 5) alla valutazione di “accettabile” attribuita ad alcune opere della ricorrente.

Anche la nuova Commissione esprimeva un giudizio negativo, avendo rilevato la mancata produzione della seconda monografia da parte della L.M., ma confermava la valutazione di merito assolutamente positiva già espressa dalla precedente Commissione.

Pure detta valutazione negativa veniva annullata dal TAR del Lazio che, con la sentenza 4 luglio 2017, n. 7695, accoglieva la censura dell’interessata riguardante l’asseritamente omessa produzione della seconda monografia (sulla quale si era basata la mancata attribuzione dell’ASN). rilevando principalmente che tale parametro di valutazione era stato illegittimamente introdotto ex post dalla Commissione come requisito preliminare di ammissibilità della valutazione delle pubblicazioni a pena di esclusione, senza alcun riscontro nel D.M. n. 76 del 2012, art. 3, comma 3.

Il TAR Lazio, dopo aver ribadito che il giudice amministrativo aveva già dichiarato la portata positiva dei giudizi resi dalla prima Commissione, disponeva l’annullamento del diniego di abilitazione senza rimettere la candidata al riesame di una ulteriore Commissione.

Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (d’ora in poi: MIUR) e la Commissione di rivalutazione nominata in data 3 febbraio 2017 non davano esecuzione alla suddetta sentenza n. 7695 del 2017, ormai passata in giudicato.

La professoressa adiva il Giudice dell’ottemperanza mediante la proposizione di apposito ricorso, ma nel frattempo, in data 31 gennaio 2018, veniva pubblicato il giudizio ancora una volta negativo della Commissione di rivalutazione.

Anche tale ultimo diniego veniva impugnato innanzi al TAR del Lazio, il quale, con la sentenza n. 4283 del 18 aprile 2018, respingeva il ricorso, escludendo l’illegittimità della valutazione di merito negativa questa volta espressa dalla Commissione di riesame, che ribaltava il giudizio positivo per due volte in precedenza formulato sui medesimi titoli dalle altre Commissioni. Il TAR in particolare sottolineava che la Commissione di riesame era tenuta, nell’esercizio della propria discrezionalità ed entro i limiti indicati dalla sentenza da eseguire, a valutare ex novo la candidata non essendo obbligata a fare propri i giudizi di merito espressi, in particolare, dalla prima Commissione, in quanto anche in sede di ottemperanza l’effetto conformativo del giudicato non può elidere la suddetta discrezionalità.

In particolare veniva precisato che la “nuova” Commissione doveva soltanto rispettare i limiti derivanti dai due giudicati intervenuti nella vicenda – limiti riguardanti, rispettivamente, l’accezione di un eventuale nuovo giudizio di “accettabile” in senso positivo nonchè la cristallizzazione dei criteri posti dalla “prima” Commissione oltre che l’illegittimità della interpolazione di un nuovo parametro di valutazione di tipo “quantitativo” costituito dalla seconda monografia – ma certamente, proprio perchè di rinnovata composizione, la Commissione non doveva attenersi ai giudizi di merito delle precedenti Commissioni.

2. In sede di appello avverso tale ultima sentenza del TAR Lazio, il Consiglio di Stato, Sezione Sesta, con la sentenza 25 febbraio 2019, n. 1321 – cui si riferisce il presente ricorso – ha annullato gli atti impugnati ed ha stabilito che il MIUR in attuazione del giudicato in contestazione fosse tenuto a rilasciare l’abilitazione di cui si tratta all’interessata.

3. In data 11 giugno 2019 il MIUR ha provveduto ad inserire la professoressa L.M. nell’elenco degli abilitati alle funzioni di professore universitario di prima fascia per il settore concorsuale di Diritto del lavoro, di cui alla tornata del 2012;

Il 14 giugno 2019 è stato notificato alla L.M. il presente ricorso proposto dal MIUR avverso la citata sentenza del Consiglio di Stato n. 1321 del 2019;

In data 17 giugno 2019 è stata notificata alla professoressa istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza n. 1321 del 2019 (ancorchè già eseguita), esaminata dal Consiglio di Stato nella camera di consiglio del 18 luglio 2019.

4. Il ricorso del MIUR, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domanda la cassazione di quest’ultima sentenza del Consiglio di Stato per un unico, articolato motivo deducendo eccesso di potere giurisdizionale per travalicamento da parte del Giudice amministrativo dei limiti esterni del proprio ambito di giurisdizione consistito nell’arbitraria invasione nella sfera riservata al potere della Pubblica Amministrazione, derivante dalla diretta attribuzione alla ricorrente del bene della vita desiderato.

5. La professoressa L.M.C. resiste con controricorso illustrato da memoria.

6. La causa, la cui trattazione è stata originariamente fissata per l’udienza del 10 marzo 2020 è stata rinviata a nuovo ruolo, per sopravvenuto impedimento del relatore e quindi rimessa in decisione all’odierna udienza pubblica.

7. In vista di tale ultima udienza la ricorrente ha depositato un’ulteriore memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (d’ora in poi: MIUR) propone ricorso per motivi di giurisdizione ex art. 111 Cost., comma 8, denunciando violazione e falsa applicazione della L. 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, art. 4 e successive modifiche e integrazioni “per eccesso di potere giurisdizionale sotto il profilo del c.d. sconfinamento o invasione dai limiti della giurisdizione laddove il Consiglio di Stato ha affermato la propria giurisdizione nella sfera riservata al potere dell’Amministrazione”.

Si sostiene che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all’Amministrazione di attribuire alla candidata l’abilitazione scientifica nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l’interessata al riesame di una nuova Commissione, eventualmente indicando i parametri di valutazione da applicare – avrebbe privato l’Amministrazione della propria discrezionalità tecnico-valutativa costantemente riconosciutale dalla giurisprudenza amministrativa in tema di concorsi ed esami pubblici e si sarebbe di fatto sostituito all’Amministrazione stessa nel conferire alla candidata il bene della vita cui aspirava.

Il ricorrente ricorda che, per costante indirizzo della giurisprudenza amministrativa (che trova riscontro anche nella giurisprudenza di queste Sezioni Unite; si cita Cass. SU 20 gennaio 2014, n. 1103, recte: n. 1013), nelle procedure del tipo di quella che viene in considerazione si riconosce un elevato margine di discrezionalità all’Amministrazione chiamata ad esprimersi per mezzo di organi altamente tecnici e si afferma che in sede di legittimità il giudice amministrativo può sindacare le valutazione espresse dalle Commissioni giudicatrici solo se le stesse risultino ictu oculi affette da eccesso di potere per illogicità o irrazionalità ovvero per travisamento dei fatti o anche per macroscopiche carenze nella motivazione oppure nei criteri prestabiliti per la valutazione. Si ritiene, infatti, che il giudice amministrativo possa sindacare tali valutazioni soltanto sotto il profilo della logicità/ragionevolezza ma senza sostituire una propria valutazione a quella della commissione.

Nella sentenza impugnata tali principi non sarebbero stati rispettati oltretutto sulla base di “passaggi logici evidentemente contraddittori” in quanto sarebbe stata esclusa la violazione dei precedenti giudicati per le medesime ragioni per le quali è stato poi disposto l’annullamento del giudizio negativo espresso dall’ultima Commissione, dopo essersi ricordato che l’art. 31, comma 3 cod. proc. amm. stabilisce che soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto.

2. Il ricorso è da respingere per le ragioni di seguito esposte.

3. Per risalente e constante indirizzo di questa Corte l’eccesso di potere giurisdizionale – qui denunciato – che costituisce un aspetto dei motivi inerenti alla giurisdizione per i quali le sentenze dei Giudici speciali possono essere impugnate dinanzi a queste Sezioni Unite, in base all’art. 111 Cost., comma 8, deve essere inteso come esplicazione di una potestà riservata dalla legge ad un diverso organo, sia esso legislativo o amministrativo, e cioè come una usurpazione o indebita assunzione di potestà giurisdizionale. Esso presuppone il superamento dei limiti esterni delle attribuzioni giurisdizionali del giudice speciale e l’esistenza di quei soli vizi attinenti all’essenza della funzione giurisdizionale, con esclusione di ogni sindacato sui modi di esercizio della funzione medesima (fra le tante: Cass. SU 11 novembre 1983, n. 6690; Id. 19 aprile 1984, n. 2566; Id. 9 novembre 1994, n. 9290 e, in continuità: Cass. SU 5 dicembre 2016, n. 24740; Id. 5 giugno 2018, 14438; Id. 6 marzo 2020, n. 6462).

Pertanto, il suddetto vizio non è configurabile con riferimento all’attività di interpretazione delle norme effettuata dal Giudice speciale perchè tale attività – anche quando la “voluntas legis” sia stata individuata, non in base al tenore letterale delle singole disposizioni, ma alla “ratio” che esprime il loro coordinamento sistematico rappresenta il “proprium” della funzione giurisdizionale e non può dunque integrare, di per sè sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale ma, eventualmente, dare luogo ad un “error in judicando”, estraneo al sindacato di queste Sezioni Unite (indirizzo consolidato, di recente ribadito da Cass. SU 28 febbraio 2020, n. 5589).

4. Per quel che riguarda il Consiglio di Stato è stato precisato, in linea generale, che il controllo di legittimità del giudice amministrativo importa un sindacato pieno non solo sul fatto, ma pure sulle valutazioni, pure di ordine tecnico, operate dall’Amministrazione (Cass. SU 9 marzo 2020, n. 6691).

E, con specifico riferimento alle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici dei pubblici concorsi – ipotesi che ricorre nella presente fattispecie – è stato affermato che tali valutazioni sono assoggettabili al sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo, che può rilevarne l’irragionevolezza, l’arbitrio o la violazione del principio della “par condicio” tra i concorrenti, senza che ciò comporti un’invasione della sfera del merito amministrativo, denunciabile con il ricorso per cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione (Cass. SU 19 dicembre 2011, n. 27283; Id. 28 maggio 2012, n. 8412; Id. 13 febbraio 2020, n. 3562).

5. Con la presente sentenza il Consiglio di Stato – muovendo dal rispetto del consolidato (espresso a partire dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 2 del 15 gennaio 2013) secondo cui è ammissibile la proposizione di un solo ricorso avverso tutti i provvedimenti emanati dall’Amministrazione successivamente al giudicato di annullamento di un precedente provvedimento – ha cercato di trovare un punto più avanzato di equilibrio rispetto a quello affermato nella suddetta Adunanza Plenaria, che – chiamata a giudicare proprio sulla rinnovazione di un concorso universitario in cui la medesima Commissione aveva reiterato con motivazioni diverse il suo giudizio negativo già oggetto di annullamento giurisdizionale – non aveva accolto le “istanze evolutive desumibili dall’impianto del codice del processo amministrativo”, in quanto le aveva ritenute contrastanti con la salvezza della sfera di autonomia e di responsabilità dell’Amministrazione.

Tale scelta è stata operata nell’idea che non sia accettabile nè conforme al codice del processo amministrativo – espressamente finalizzato a garantire una tutela piena ed effettiva “secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo” (art. 1) – che la crisi di cooperazione tra P.A. e cittadino possa risolversi in una defatigante alternanza tra procedimento e processo senza che sia possibile addivenire ad una soluzione positiva, oltretutto con grave dispendio di risorse pubbliche e private. Situazione – ad avviso del Consiglio di Stato – frequente proprio in materia di concorsi del tipo di quello sub judice.

6. In questa ottica in primo luogo è stato escluso l’accoglimento della censura di violazione del giudicato, in base alla duplice considerazione delle particolari caratteristiche del giudicato amministrativo – che non può che formarsi con esclusivo riferimento ai vizi dell’atto ritenuti sussistenti, alla stregua dei motivi dedotti nel ricorso – nonchè del contenuto “alquanto ristretto” dell’accertamento delle due decisioni passate in giudicato, perchè tali decisioni si erano limitate a vincolare l’attività dell’Amministrazione al seguente duplice divieto: di non incorrere nel vizio motivazionale in cui era incorsa la “prima” Commissione (limite qualitativo); di non ricollegare effetti preclusivi alla mera omessa “allegazione” della seconda monografia, ove comunque esistente (limite quantitativo).

Ma in esse non era contenuta alcuna statuizione sulla fondatezza della pretesa.

7. Il Consiglio di Stato ha, invece, accolto l’appello in relazione alle sollevate censure di legittimità, muovendo dalla premessa secondo cui il giudizio espresso dall’ultima Commissione fosse da considerare viziato da eccesso di potere per plurimi deficit motivazionali, a partire dalla marcata ed immotivata divaricazione tra la valutazione espressa (oggetto del giudizio del Consiglio di Stato) e quelle rese dalle due precedenti Commissioni.

Pertanto, la suddetta statuizione è stata adottata in conformità con l’orientamento della giurisprudenza amministrativa – richiamato dal ricorrente – secondo cui il Giudice amministrativo esercita il proprio controllo di legittimità sull’operato delle commissioni esaminatrici dei pubblici concorsi se lo ritiene caratterizzato da macroscopici profili del vizio di eccesso di potere per irragionevolezza, irrazionalità o arbitrarietà, o errore di fatto e così via (tra le tante, di recente: Cons. Stato, Sezione terza, sentenza 29 marzo 2019, n. 2091).

Ciò rende altresì evidente che, diversamente da quel che sostiene il MIUR, le ragioni poste alla base del rigetto della censura di violazione del giudicato non coincidono con quelle su cui poggia la decisione di annullamento.

8. Disposto l’annullamento anche del “terzo” diniego di abilitazione il Consiglio di Stato – anche ricordando la conclusione del giudizio di cui all’Adunanza Plenaria n. 2 del 2013 cit. – ha rilevato che il contenuto ordinatorio della sentenza di accoglimento (e quindi di annullamento dell’atto impugnato) non sempre consente una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all’esigenza di una tutela piena ed effettiva “secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo”, che il codice del processo amministrativo pone in primo piano (art. 1).

E il Giudice amministrativo ha specificato che ciò accade proprio nelle ipotesi – come quella in discussione – di esercizio della “discrezionalità tecnica” da parte dell’Amministrazione, in cui il fatto presupposto del potere di abilitazione (segnatamente: il livello di maturazione scientifica dei candidati) viene preso in considerazione dalla norma attributiva del potere, non nella dimensione oggettiva di “fatto storico” (accertabile in via diretta dal Giudice), bensì di fatto “mediato” e “valutato” dalla Pubblica Amministrazione. In questi casi, il giudice non è chiamato, sempre e comunque, a sostituire la sua decisione a quella dell’Amministrazione, dovendo verificare se l’opzione prescelta da quest’ultima rientri o meno nella ristretta gamma di risposte plausibili che possono essere date a quel problema alla luce delle scienze rilevanti e di tutti gli elementi di fatto.

Poichè di frequente questa “possibilità attuativa” si trova a dovere necessariamente scontare l’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatta, il sistema della giustizia amministrativa deve dimostrarsi in grado di approntare un rimedio adeguato al bisogno di tutela, rendendo concretamente tangibile l’evoluzione della giustizia amministrativa da strumento di garanzia della legalità della azione amministrativa a giurisdizione preordinata alla tutela di pretese sostanziali, come delineata dal suddetto nuovo codice del processo amministrativo.

Il Consiglio di Stato considera a tal fine non utilmente invocabile il “principio del dedotto e del deducibile”, quale espediente per ampliare i confini di estensione dell’area coperta dalla forza del giudicato amministrativo, principalmente in quanto l’anzidetto principio giurisprudenziale – il quale, come avverte la dottrina, non influisce in modo alcuno nel senso di restringere o ampliare i limiti oggettivi del giudicato – comporta esclusivamente che il giudice di un futuro processo non può disconoscere o diminuire il bene riconosciuto nel precedente giudizio. Ma, nella ipotesi in esame, tale bene è rappresentato dalla sola possibilità di vedere realizzato il “risultato sperato”.

Per gli stessi motivi il Giudice amministrativo considera del pari infruttuoso richiamare gli esiti del dibattito civilistico sull’oggetto del processo e del giudicato nelle impugnative c.d. negoziali, in quanto trattasi di profili che evidentemente per nulla sono in grado di proiettare verso la “spettanza” la tipologia di contenzioso in esame, precisazione quest’ultima che conferma come anche per il giudice amministrativo i richiamati principi civilistici abbiamo carattere fondamentale (arg. ex Cass. SU 28 dicembre 2007, n. 27169, n. 27170, n. 27171; Id. 22 aprile 2008, n. 11656; Id. 12 dicembre 2014, n. 26242), tanto che si considerano non utilizzabili al suddetto scopo solo in considerazione del tipo di bene che si intende tutelare.

9. Il Consiglio di Stato osserva poi che sulla base del menzionato codice – cui si è pervenuti all’esito di una complessa evoluzione giurisprudenziale e normativa – il sistema delle tutele è stato segnato da una serie di sviluppi, che si pongono tutti in direzione di una maggiore “effettività” del sindacato del giudice amministrativo, sia nei casi in cui il provvedimento viene confermato, sia nei casi in cui l’interesse legittimo viene ritenuto leso.

In particolare, la giurisdizione è stata configurata come “piena”, nel senso dell’attribuzione al giudice amministrativo del potere di riformare in qualsiasi punto, in fatto come in diritto, la decisione impugnata resa dall’autorità amministrativa.

Si sottolinea che un importante strumento di attuazione di tale disegno è rappresentato dall’attribuzione al giudice della cognizione del potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza, di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta (art. 34, comma 1, lett. e), consentendo di esplicitare a priori, ovvero nel dispositivo della sentenza, gli effetti conformativi e ripristinatori da cui discende la regola del rapporto, e non più a posteriori, in sede di scrutinio della condotta tenuta dall’amministrazione dopo la sentenza di annullamento.

Con l’introduzione della suddetta inedita modalità di “cognizione ad esecuzione integrata” l’art. 34 cod. proc. amm. sembra postulare che non sia riservata alla funzione esecutiva la traduzione in concreto dei precetti, mentre l’ampia formulazione dell’art. 114 cod. proc. amm. (per il giudizio di ottemperanza) riflette la tradizionale tesi della riedizione della funzione amministrativa dopo la sentenza di annullamento del giudice amministrativo, sindacabile in una fase processuale di “esecuzione a cognizione integrata.

Del resto, anche l’art. 31, comma 3, art. 34, comma 5, e 40 cod. proc. amm., riferendosi rispettivamente alla pretesa e all’oggetto della domanda, richiamano l’aspettativa di conseguire il bene della vita, a differenza dell’art. 7, commi 1 e 4 e artt. 30 e 108 cod. proc. amm. che chiamano in causa l’interesse legittimo.

10. All’art. 31, comma 3 e all’art. 34, comma 2 il codice del processo amministrativo affida il compito di esplicitare (per la prima volta) il punto di contemperamento tra il principio di giustiziabilità delle pretese e di effettività della tutela (artt. 24,103 e 113 Cost., artt. 6 e 13 della CEDU) ed il principio di separazione dei poteri (artt. 1 e 97 Cost., con il quale tradizionalmente viene giustificata la riserva di valutazione in capo alla Pubblica Amministrazione).

Per effetto dell’art. 31, comma 3 cod. proc. amm. – avente applicazione generale, sia che l’Amministrazione rimanga inerte sia che emani un provvedimento espresso di diniego – per la definizione dell’intero rapporto sostanziale, vengono dettati i seguenti limiti:

soltanto quando si tratti di attività vincolata o quando risulti che non residuano ulteriori margini di discrezionalità, il giudice potrà spingersi sino alla verifica dell’esistenza in concreto dei presupposti e requisiti in presenza dei quali il ricorrente può ottenere il provvedimento richiesto.

Dall’art. 34, comma 2 cod. proc. amm. – alla cui stregua il giudice non può pronunciarsi “con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati” (art. 34, comma 2) – si desume invece che non sono consentite domande di tutela preventiva dell’interesse legittimo, dirette cioè ad orientare l’azione futura dell’Amministrazione, prima che questa abbia ancora provveduto.

Di qui la conclusione che lo stesso codice del processo amministrativo, pur non tratteggiando un modello compiuto, consente di delineare in via interpretativa un dispositivo di chiusura del sistema, volto a scongiurare l’indefinita parcellizzazione giudiziaria di una vicenda sostanzialmente unitaria.

11. Tale rimedio viene indentificato dal Consiglio di Stato, su ampie basi argomentative, nella “riduzione progressiva della discrezionalità amministrativa” (anche tecnica), in via sostanziale o processuale, che può derivare da molteplici cause.

In particolare, la riduzione o “consumazione della discrezionalità può essere anche il frutto della insanabile frattura del rapporto di fiducia tra Amministrazione e cittadino, derivante da un agire reiteratamente capzioso, equivoco, contraddittorio, lesivo quindi del canone di buona amministrazione e dell’affidamento riposto dai privati sulla correttezza dei pubblici poteri”, in quanto in presenza di una evenienza siffatta, resta precluso all’Amministrazione di potere tornare a decidere sfavorevolmente nei confronti dell’amministrato anche in relazione ai profili non ancora esaminati.

12. Nella vicenda in esame il susseguirsi di una pluralità di giudicati amministrativi di annullamento di procedure di abilitazione scientifica nazionale e la nomina di altrettante Commissioni di valutazione non determina, di per sè, l’insorgere di un vizio di violazione del giudicato nel provvedimento che ulteriormente nega l’abilitazione nazionale, per quel che si è detto.

Ma il susseguirsi di tre giudicati di annullamento ha comunque l’effetto di “svuotare” l’Amministrazione del proprio potere discrezionale, con la precisazione che il giudicato costituisce, in tale ipotesi, un vincolo alla discrezionalità amministrativa che opera come “fatto” e non come “atto”.

Alla luce delle suddette considerazioni, il Consiglio di Stato perviene alla conclusione che, nella vicenda in esame, l’ambito di discrezionalità tecnica rimessa all’Amministrazione si sia progressivamente ridotto sino a “svuotarsi” del tutto.

Per tali ragioni l’appello viene accolto stabilendosi che, nel dare esecuzione alla sentenza, il MIUR dovesse rilasciare l’abilitazione per cui è causa in favore della professoressa L.M..

13. Il Giudice amministrativo aggiunge che il rimedio tratteggiato – i cui contorni e i cui limiti saranno precisati dalla casistica giurisprudenziale – consente un contemperamento tra la regola per cui il processo amministrativo non può attribuire un bene della vita prima di una determinazione della Pubblica Amministrazione e l’esigenza di fare sì che la giustizia amministrativa svolga il proprio compito precipuo di approntare i mezzi che consentono di ridurre la distanza che spesso si annida tra l’efficacia delle regole e l’effettività delle tutele.

Del resto, la “tutela piena” (indicata dal codice e qui perseguita) risponde anche ad un obiettivo di efficienza complessiva del sistema, dal momento che lo sviluppo economico e sociale del Paese passa anche attraverso una risposta rapida e “conclusiva” delle ragioni di contrasto tra le Amministrazioni ed i cittadini.

14. Dalla riportata sintesi della sentenza in oggetto risulta evidente che è da escludere che il Consiglio di Stato – avendo ordinato all’Amministrazione di attribuire alla L.M. l’abilitazione scientifica nazionale (di seguito: “ASN”) alle funzioni di professore universitario di prima fascia senza sottoporre l’interessata al riesame di una nuova Commissione e quindi avendo disposto l’attribuzione diretta alla ricorrente del bene della vita cui ella aspirava – abbia arbitrariamente invaso il campo dell’attività riservata alla Pubblica Amministrazione.

Infatti, la suddetta conclusione è il frutto di una interpretazione articolata ed “evolutiva” delle norme del codice del processo amministrativo, a partire dall’art. 34, comma 1, lett. e) che consente al giudice della cognizione di disporre le misure idonee ad assicurare l’attuazione del giudicato e delle pronunce non sospese, ivi compresa la nomina di un commissario ad acta esercitando così un potere, una volta spendibile solo nella successiva sede dell’ottemperanza.

E va aggiunto che essa rappresenta una prima applicazione di un rimedio che il Consiglio di Stato ha inteso apprestare per fare sì che le proprie decisioni di annullamento anche – e forse specialmente in caso di provvedimenti delle Commissioni esaminatrici di concorsi pubblici dotate di discrezionalità tecnica, come si afferma nella sentenza – possano trovare una definizione della fattispecie sostanziale, conforme all’esigenza di una tutela piena ed effettiva dell’interessato “secondo i principi della Costituzione e del diritto Europeo”, cui il codice del processo amministrativo attribuisce primario rilievo (art. 1), senza costringere il privato all’introduzione di un indefinito numero di giudizi di cognizione prima di poter essere completamente soddisfatto.

15. In sintesi, il prospettato eccesso di potere giurisdizionale non è certamente configurabile in quanto la contestata decisione rappresenta l’esito dell’attività di interpretazione delle richiamate norme del codice del processo amministrativo effettuata dal Consiglio di Stato e tale attività rappresenta il “proprium” della funzione giurisdizionale e non può dunque integrare, di per sè sola, la violazione dei limiti esterni della giurisdizione speciale e quindi dare luogo al vizio denunciato (Cass. SU 27 dicembre 2020, n. 34470, in aggiunta ai precedenti indicati sopra al punto 3).

16. La novità della questione trattata giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio.

17. Nulla va disposto con riguardo al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, non potendo tale normativa trovare applicazione nei confronti dello Stato e delle Amministrazioni ad esso parificate, le quali, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo, come accade per l’Amministrazione ricorrente (vedi, per tutte, in tal senso: Cass. SU 8 maggio 2014, n. 9938; Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778).

P.Q.M.

La Corte a Sezioni Unite rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2020

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