Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18570 del 10/07/2019

Cassazione civile sez. VI, 10/07/2019, (ud. 14/02/2019, dep. 10/07/2019), n.18570

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21398-2017 proposto da:

V.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BUCCARI 3,

presso lo studio dell’avvocato MARIA TERESA ACONE, rappresentata e

difeso dagli avvocati MODESTINO ACONE, PASQUALE ACONE;

– ricorrente –

contro

T.A., in proprio ed in qualità di erede di

D.S., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la

CANCELLERI della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato VINCENZO POLLO;

– controricorrente –

e contro

COMUNE di AVELLINO, in persona del sindaco elettivamente domiciliato

in ROMA, V. MONTELLO 32, presso lo studio dell’avvocato GERMANO

GIANNELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato ALFREDO GIANNELLA;

– resistente –

contro

D.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1502/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 31/03/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 14/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott. ROSSETTI

MARCO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2007 V.C. convenne dinanzi al Tribunale di Avellino D.S., T.A. e il Comune di Avellino, esponendo che:

-) il 9.5.2006, alle 7:00 del mattino, uscendo dalla propria abitazione, scivolò su dei “quadroni” di vetrocemento posti in corrispondenza del portone d’ingresso della sua abitazione, la cui superficie era sdrucciolevole; cadde in terra e patì lesioni personali;

-) del danno patito dovevano rispondere sia coloro che avevano realizzato il suddetto manufatto in vetrocemento sulla pubblica via, sia il Comune di Avellino, che aveva consentito tale realizzazione, la quale costituiva un’insidia non prevedibile, nè evitabile.

2. D.S. ed T.A. si costituirono, eccependo che la realizzazione del manufatto sul quale cadde l’attrice (risalente al 1986) era stata debitamente autorizzata dall’amministrazione comunale; che quel manufatto non costituiva una insidia; e che comunque la caduta era ascrivibile a colpa della stessa parte danneggiata.

3. Il Comune di Avellino si costituì, allegando di non avere mai autorizzato la realizzazione del manufatto sopra descritto; che pertanto la responsabilità dell’accaduto andava ascritta agli altri due convenuti; che in ogni caso la condotta della vittima fu imprudente, per non avere prestato attenzione nel percorrere un luogo ad essa ben noto, in quanto posto all’ingresso della sua abitazione.

4. Con sentenza 22.3.2011 n. 453 il Tribunale di Avellino rigettò la domanda, ritenendo:

-) non esservi prova d’un valido nesso causale tra la caduta e il manufatto in vetrocemento;

-) che comunque non era stato provato chi fosse il proprietario dei lastroni in vetrocemento;

-) che i lastroni non erano nè danneggiati, nè sconnessi, nè la loro posa in opera avvenne senza autorizzazione.

La sentenza venne appellata in via principale da V.C., la quale si dolse del rigetto della propria domanda; ed in via incidentale da D.S. ed T.A., i quali si dolsero della compensazione delle spese di lite disposta dal Tribunale.

5. Con sentenza 31.3.2017 n. 1502 la Corte d’appello di Napoli rigettò ambo gli appelli, e compensò le spese del grado di appello tra tutte le parti.

La Corte d’appello ritenne che il danno patito da V.C. andasse causalmente ricondotto alla condotta della stessa vittima, per non avere prestato la dovuta attenzione nell’incedere.

Reputò “assolutamente rilevante ed assorbente” la circostanza che la vittima conoscesse i luoghi; che i lastroni di vetrocemento erano “con formi alla normativa amministrativa, integri e non danneggiati, e posti davanti al portone della vittima da dieci anni”; che le cautele normalmente esigibili dal proprietario e dal custode erano state osservate.

Ne trasse la conclusione che il pericolo che alle 7.00 del mattino quei lastroni potessero essere scivolosi a causa dell’umidità era prevedibile, ed era onere della vittima adottare le opportune cautele per prevenirlo.

6. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione da V.C., con ricorso fondato su due motivi ed illustrato da memoria.

Hanno depositato controricorso sia il Comune di Avellino, sia T.A., che ha dichiarato di resistere anche quale erede di D.S..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso.

1.1. Col primo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1227,2051,2056,2697,2727 c.c.; nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Sostiene che la Corte d’appello, nel ritenere che il sinistro fosse dovuto a colpa esclusiva della vittima, e che tale colpa esclusiva integrasse gli estremi del caso fortuito ed escludesse perciò la responsabilità del custode, avrebbe adottato una motivazione “assiomatica”.

Deduce che dalla conoscenza dello stato dei luoghi non può ricavarsi per presunzione semplice l’imprudenza della vittima; che in ogni caso il pericolo non poteva in alcun modo essere evitato dalla vittima, la quale per uscire dalla propria abitazione non poteva che passare di li; che in presenza di danni causati da una cosa in custodia la condotta colposa della vittima può integrare gli estremi del caso fortuito solo quando quest’ultima possa agevolmente scansare il pericolo per l’esistenza di percorsi alternativi, che nel caso di specie non esistevano; che la condotta colposa della vittima esige l’accertamento di un comportamento abnorme od irrazionale, ovvero di un uso improprio della cosa, e nessuna di queste circostanze ricorreva nel caso di specie.

1.2. Il motivo è inammissibile.

Stabilire se una persona sia inciampata e caduta per propria distrazione o meno è un accertamento di fatto, non una valutazione in diritto. Questa Corte, infatti, ha già ripetutamente affermato che solo l’errore compiuto dal giudice di merito nell’individuare la regola giuridica in base alla quale accertare la sussistenza del nesso causale tra fatto illecito ed evento è censurabile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: e tale errore si verifica quando il giudice dichiari di volere accertare la sussistenza del nesso in base ad un criterio non consentito dalla legge: ad esempio, in base al criterio della certezza, invece che in base al criterio della probabilità.

Per contro, l’eventuale errore nell’individuazione della causa del danno e delle sue conseguenze costituisce una valutazione di fatto, come tale sottratta al sindacato di legittimità (così Sez. 3, Sentenza n. 4439 del 25/02/2014, Rv. 630127 – 01; nello stesso senso, ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 13096 del 24/05/2017, Rv. 644388 – 01).

1.3. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha ritenuto in punto di fatto che il pericolo era ben noto alla vittima; che era agevolmente evitabile;

che la vittima cadde per non avere prestato la dovuta attenzione; e che prestare attenzione in quel contesto fosse una condotta esigibile.

Tutte e quattro queste valutazioni costituiscono accertamenti di altrettanti fatti, e come tali non sono sindacabili in questa sede.

1.4. Alla luce di quanto precede, è agevole concludere che:

-) violazione dell’art. 1227 c.c. non vi fu, perchè la Corte d’appello ha accertato in fatto che vi fu colpa esclusiva della vittima, ed escluso in diritto la responsabilità del custode, la quale è statuizione conforme a precetto dettato dalla norma appena indicata;

-) violazione dell’art. 2051 c.c. non vi fu, perchè correttamente la Corte d’appello ha ritenuto che il “caso fortuito”, il quale esclude la responsabilità del custode, può essere rappresentato anche da una condotta colposa del danneggiato (ex multis, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 27724 del 30/10/2018, Rv. 651374 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 30775 del 22/12/2017, Rv. 647197 – 01; Sez. 3 -, Ordinanza n. 2481 del 01/02/2018, Rv. 647935 – 01);

-) violazione dell’art. 2056 c.c. non vi fu, poichè di tale norma la Corte d’appello non doveva fare applicazione, non essendo pervenuta alla liquidazione del danno;

-) violazione dell’art. 2697 c.c. non vi fu, perchè la Corte d’appello non ha rigettato la domanda per mancato assolvimento dell’onere della prova, ma ha ritenuto concretamente provata, da parte dei convenuti, la colpa esclusiva della vittima;

-) violazione dell’art. 2727 c.c. non vi fu, poichè costituisce la più logica delle deduzioni risalire dal fatto noto che una persona ben conosca un certo luogo, e nondimeno vi sia inciampata, al fatto ignorato che quella persona sia stata distratta. Non vi è stato, dunque, alcun errore, da parte del giudice di merito, nella sussunzione dei fatti materiali sotto i tre caratteri richiesti dalla legge per l’ammissibilità della prova presuntiva (gravità, precisione e concordanza). E quando non ricorra tale vizio di sussunzione, il ragionamento induttivo compiuto dal giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità, come ripetutamente affermato da questa Corte (Sez. 3, Sentenza n. 17535 del 26/06/2008, Rv. 603893 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6220 del 23/03/2005, Rv. 582081 – 01).

1.5. Per quanto attiene, infine, alla lamentata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., le relative censure sono ambedue inammissibili.

Quanto alla prima, la censura è inammissibile in quanto la violazione di tale norma può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre. (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, Rv. 640829 – 01).

Per quanto attiene la pretesa violazione dell’art. 116 c.p.c., poi, la violazione di tale norma può dirsi sussistente, e costituire valido motivo di ricorso per cassazione, solo in un caso: quando il giudice di merito attribuisca pubblica fede ad una prova che ne sia priva oppure, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova a valutazione vincolata, come l’atto pubblico (Sez. 3, Sentenza n. 11892 del 10/06/2016; il principio è stato altresì ribadito dalle Sezioni Unite di questa Corte, nella decisione pronunciata da Sez. U, Sentenza n. 16598 del 05/08/2016, al p. 14 dei “Motivi della ecisione”). Per contro, la valutazione delle prove in un senso piuttosto che in un altro, ovvero l’omessa valutazione di alcune fonti di prova, non costituisce di per sè violazione dell’art. 116 c.p.c., e quindi un error in procedendo, ma soltanto – a tutto concedere – un error in indicando, censurabile in questa sede – nel concorso delle altre condizioni stabilite dalle Sezioni Unite di questa Corte – quale omesso esame d’un fatto decisivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quando le prove non esaminate dimostravano quel fatto, conseguentemente trascurato (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).

1.6. I rilievi che precedono non sono scalfiti dalle argomentate deduzioni svolte dalla ricorrente nella memoria depositata ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..

Ivi la ricorrente invoca i precedenti di questa Corte secondo cui, in tema di danno da cose in custodia, una corresponsabilità della vittima potrebbe ravvisarsi solo quando questa abbia tenuto una condotta anomala od imprevedibile da parte del custode.

E tuttavia anche lo stabilire se una determinata condotta della vittima sia stata “anomala” costituisce pur sempre valutazione di fatto riservata al giudice di merito, e nel caso di specie quest’ultimo ha compiuto la sua valutazione reputando evidentemente “condotta anomala” quella d’una persona la quale, pur dimorando da dieci anni in una certa abitazione, non sappia prefigurarsi il rischio rappresentato da un’area insidiosa posta dinanzi la soglia di essa.

Questa valutazione, quale che ne sia la condivisibilità teorica, costituisce un apprezzamento di fatto, chiuso al sindacato di legittimità.

2. Il secondo motivo di ricorso.

2.1. Col secondo motivo la ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, il vizio di omesso esame del fatto decisivo.

Sostiene che la Corte d’appello ha trascurato di prendere in esame il “fatto decisivo” rappresentato dalla particolare conformazione pericolosa dei lastroni di vetro sui quali scivolò la vittima, che avevano una superficie scivolosa ed inclinata.

2.2. Anche a prescindere da qualsiasi valutazione circa l’ammissibilità del motivo, ai sensi dell’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., esso è comunque infondato nel merito.

La sentenza impugnata, mostra di avere tenuto presente il fatto materiale che la ricorrente assume non essere stato considerato (la pericolosità dei luoghi).

Da un lato, infatti, la Corte d’appello ha accertato in fatto che i lastroni di vetrocemento sui quali la vittima scivolò e cadde erano “conformi alla normativa amministrativa, integri e non danneggiati o sconnessi”: con ciò dimostrando di avere soppesato la conformazione dei luoghi, e di averne esclusa la pericolosità.

Dall’altro lato, inoltre, la Corte d’appello ha anche aggiunto che una condotta più attenta della vittima “le avrebbe consentito di evitare il pericolo”: così dimostrando, sia pure in forma sintatticamente assai concisa, di avere ritenuto che, quand’anche la cosa fosse stata oggettivamente pericolosa, la distrazione della vittima avrebbe avuto carattere eziologicamente assorbente nella causazione dell’evento.

Lo stabilire, poi, se tale valutazione sia stata corretta o scorretta, è valutazione non consentita in questa sede.

3. Le spese.

3.1. Le spese del presente giudizio di legittimità vanno a poste a carico della ricorrente, ai sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c., e sono liquidate nel dispositivo.

3.2. Il rigetto del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) rigetta il ricorso;

(-) condanna V.C. alla rifusione in favore di Comune di Avellino delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) condanna V.C. alla rifusione in favore di T.A. delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 2.100, di cui 200 per spese vive, oltre cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2, importi tutti che si distraggono in favore dell’avv. F.V., il quale ha dichiarato ex art. 93 c.p.c., comma 1, di aver anticipato le spese e di non aver riscosso gli onorari;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di V.C. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 14 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2019

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