Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18566 del 07/09/2020

Cassazione civile sez. I, 07/09/2020, (ud. 11/02/2020, dep. 07/09/2020), n.18566

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 26867/2015 proposto da:

Comune di Fossò, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, via del Viminale 43, presso lo studio

dell’avvocato Lorenzoni Fabio, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Barella Alberto, Perona Marina, con procura

speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.G., in quantà di erede di M.E.,

elettivamente domiciliato in Roma, via F. Confalonieri 5, presso lo

studio dell’avvocato Manzi Andrea, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Di Lorenzo Angelo, Rampazzo Raffaella, con

procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

S.S.; S.G.; S.M.;

– intimati –

nonchè

S.G., in qualità di erede di M.E.,

elettivamente domiciliato in Roma, via F. Confalonieri 5, presso lo

studio dell’avvocato Manzi Andrea, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Di Lorenzo Angelo, Rampazzo Raffaella, con

procura speciale in calce al controricorso;

– ricorrente incidentale –

contro

Comune di Fossò, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente

domiciliato in Roma, via Del Viminale 43, presso lo studio

dell’avvocato Lorenzoni Fabio, che lo rappresenta e difende

unitamente agli avvocati Borella Alberto, Perona Marina, con procura

speciale a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2277/2014 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 09/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

11/02/2020 dal Cons. Dott. CAIAZZO ROSARIO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

Con citazione notificata il 22.2.2006, M.E., L.P., L.A. e Lo.Am. citarono innanzi al Tribunale di Venezia il Comune di Fossò, deducendo che nel 1996 l’ente convenuto aveva occupato una porzione di un fondo di cui erano comproprietari nell’ambito di un procedimento espropriativo non regolarmente concluso con il decreto d’esproprio, chiedendo la restituzione del bene e il risarcimento del danno per il mancato godimento, ovvero in subordine il ristoro per la perdita del diritto di proprietà; resisteva il Comune. Con sentenza del 2011, il Tribunale condannò il Comune convenuto al ristoro dei danni per la perdita del diritto di proprietà.

M.E. propose appello che la Corte d’appello di Venezia ha accolto parzialmente, con sentenza del 9.10.14, condannando il Comune di Fossò al pagamento a favore dell’appellante della somma di Euro 27.900,00 a titolo di ristoro per il mancato godimento del bene occupato, oltre interessi di mora e rivalutazione dall’1.9.14 al saldo. In particolare, il giudice di secondo grado ha motivato che: a seguito della rinunzia alla domanda di restituzione dell’immobile occupato-oggetto dell’azione di rivendica – i consorti M. – L., originari attori, avevano coltivato la sola domanda di risarcimento dei danni; era dunque erroneo il riferimento dell’appellante all’art. 948 c.c., comma 1, essendo pacifico nella specie che il Comune convenuto fosse ancora nel godimento del bene; si era formato il giudicato sulla pronuncia riguardante i germani L., i quali non avevano impugnato la sentenza di primo grado; non era configurabile l’occupazione acquisitiva a favore dell’ente locale, sicchè era erronea la pronuncia del Tribunale sulla liquidazione dei danni per la perdita del diritto di proprietà che, invece, non si era mai verificata; pertanto, era liquidabile il solo ristoro per il mancato godimento dell’immobile dalla cessazione dell’occupazione legittima, nel febbraio 1999, che era da determinare con criteri equitativi, in mancanza di elementi di prova del pregiudizio in concreto sofferto dall’appellante.

Ricorre in cassazione il comune di Fossò con due motivi.

Resiste con controricorso S.G., erede di M.E. – deceduta nel corso del giudizio d’appello -, proponendo ricorso incidentale affidato a tre motivi.

Resiste al ricorso incidentale il Comune, con controricorso.

Le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RITENUTO

che:

Con il primo motivo del ricorso principale si denunzia violazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 42 bis, comma 3, per aver la Corte d’appello liquidato con criterio equitativo il danno da mancato godimento dell’immobile per l’occupazione temporanea, essendo invece da applicare il criterio del tasso d’interesse del 5% sul valore determinato ai sensi dello stesso comma 3.

Con il secondo motivo, subordinato al primo, si denunzia violazione degli artt. 115 e 116, c.p.c., in relazione agli artt. 2697 e 1226, c.c., per aver la Corte di merito proceduto alla liquidazione equitativa, non avendo l’attrice dimostrato l’utile ricavabile dall’affitto del fondo, e senza applicare il fatto notorio (riguardo ad esempio al mercato immobiliare e ai valori pubblicati dall’Agenzia del territorio).

Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce nullità della decisione impugnata ai sensi degli artt. 112,324 e 329 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., avendo la Corte d’appello omesso di pronunciarsi sulla domanda risarcitoria per la perdita della proprietà del bene occupato. Al riguardo, il ricorrente si duole che il giudice di secondo grado non abbia tenuto conto del giudicato formatosi proprio sulla perdita del diritto di proprietà in questione, come accertato dal Tribunale con sentenza che, sul punto, non è stata impugnata, avendo M.E. proposto appello in ordine al solo capo della sentenza di primo grado riguardante la data dell’illegittima ablazione, e dunque del trasferimento della proprietà del bene all’ente pubblico che, secondo l’impugnante, era avvenuta nel 2009, con la rinuncia dei proprietari alla domanda di restituzione, e non nel 1996, anno della realizzazione dell’opera pubblica, considerato che tale rinuncia non aveva efficacia traslativa.

Con il secondo motivo si deduce – in subordine – nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 101 e 112, c.p.c., art. 111 Cost. e art. 948 c.c., per non aver la Corte territoriale pronunciato sulla domanda di restituzione del bene, ovvero sulla domanda risarcitoria per la perdita della proprietà.

Con il terzo motivo si denunzia violazione degli artt. 948 e 1316, c.c., avendo la Corte d’appello erroneamente limitato il risarcimento dei danni alla sola quota di comproprietà dell’appellante M.E. in quanto l’azione di rivendica era stata convertita nella domanda risarcitoria, senza dunque variazione della natura reale dell’azione introduttiva del giudizio avente ad oggetto il risarcimento dell’intero valore del bene occupato.

Va dapprima esaminato, per ragioni di logica processuale, il primo motivo del ricorso incidentale, da ritenere fondato, avendo la Corte d’appello ritenuto erroneamente che la rinunzia al diritto di proprietà non avesse efficacia sostanziale abdicativa e che dunque tale diritto fosse rimasto in capo agli attori originari.

Risulta infatti applicabile l’orientamento formatosi dopo la sentenza impugnata, a tenore del quale, in materia di espropriazione per pubblica utilità, la necessità di interpretare il diritto interno in conformità con il principio enunciato dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo cui l’espropriazione deve sempre avvenire in “buona e debita forma”, comporta che l’illecito spossessamento del privato da parte della Pubblica Amministrazione e l’irreversibile trasformazione del suo terreno per la costruzione di un’opera pubblica non danno luogo, anche quando vi sia stata dichiarazione di pubblica utilità, all’acquisto dell’area da parte dell’Amministrazione, sicchè il privato ha diritto a chiederne la restituzione, salvo che non decida di abdicare al suo diritto e chiedere il risarcimento del danno per equivalente (Cass. SU, n. 735/15). Al riguardo, è stato altresì soggiunto che, in tema di espropriazione per pubblica utilità, la c.d. occupazione acquisitiva od accessione invertita, che si verifica quando alla dichiarazione di pubblica utilità non segue il decreto di esproprio, è illegittima al pari della cd. occupazione usurpativa, in cui invece manca del tutto detta dichiarazione, ravvisandosi in entrambi i casi un illecito a carattere permanente (inidoneo a comportare l’acquisizione autoritativa alla mano pubblica del bene occupato), che cessa tuttavia in caso di rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente; tale danno va quindi ristorato con riferimento al valore del bene al momento della domanda – che segna appunto la perdita della proprietà – e la somma risultante, trattandosi di debito di valore, sarà sottoposta a rivalutazione monetaria fino alla data della sentenza, con possibilità di riconoscere sulla medesima somma rivalutata, quale lucro cessante, gli interessi decorrenti dalla data del fatto illecito, non necessariamente commisurati al tasso legale, ma ispirati a criteri equitativi, e computati con riferimento ai singoli momenti riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, per effetto dei prescelti indici di valutazione, ovvero in base ad un indice medio (Cass., n. 12961/18; id., n. 22929/19).

Ora, nel caso concreto, gli attori rinunciarono alla domanda di restituzione del bene all’udienza di precisazione delle conclusioni in primo grado, in data 9 dicembre 2009, sicchè competeva loro il diritto al risarcimento dei danni con riferimento al valore dell’immobile, in applicazione dell’ormai consolidata giurisprudenza.

Ne consegue che la Corte d’appello ha in effetti omesso di pronunciarsi sul capo d’impugnazione concernente il risarcimento relativo al valore dell’immobile occupato dal Comune, sull’erroneo presupposto di diritto che la proprietà del bene fosse rimasta in capo agli attori originari.

Pertanto, la questione del giudicato interno formatosi circa l’accertamento della perdita del diritto di proprietà, riguardo agli altri comproprietari che non avevano proposto appello, è da ritenere assorbita.

Anche il secondo motivo del ricorso incidentale è assorbito dall’accoglimento del primo.

Il primo motivo del ricorso principale, quanto meno sotto il profilo della durata del periodo di occupazione illegittima, con indubbi riflessi sull’entità del pregiudizio subito, in conseguenza della stessa, dalla M., è caudatario dei rilievi sopra svolti in merito alla natura abdicativa della domanda risarcitoria, che nella specie coincide, come già evidenziato, con la rinuncia alla domanda di restituzione del bene e all’esclusiva efficacia, a far tempo dal 9 dicembre 2009, della pretesa di natura aquiliana.

Entro tali limiti temporali va ricondotto, in parziale accoglimento del motivo in esame, il ristoro del pregiudizio correlato all’occupazione illegittima del bene.

Quanto alle censure inerenti ai criteri per la determinazione del danno, giova osservare che il Comune si duole della liquidazione effettuata dalla Corte territoriale perchè non sarebbe conforme ai criteri dettati del T.U. n. 327 del 2001, art. 42 bis, comma 3, norma che però non è applicabile nella fattispecie.

Invero, il predetto comma 3 non può essere correttamente invocato, in quanto esso regola la liquidazione equitativa del danno derivante dall’occupazione senza titolo nell’ipotesi, diversa da quella oggetto di causa, dell’avvenuta ablazione del bene occupato. Invero, il predetto comma 3 dispone che “Salvi i casi in cui la legge disponga altrimenti, l’indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica utilità e, se l’occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell’art. 37, commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l’interesse del cinque per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma”.

Ora, la norma in esame regola la diversa fattispecie del risarcimento del danno derivante da occupazione senza titolo che si correla al procedimento di ablazione dell’immobile, in conformità dei criteri di cui dell’art. 42 bis, comma 1, come si desume chiaramente dal richiamo al valore dell’immobile determinato secondo i criteri prescritti dallo stesso comma 3.

Ne consegue l’inapplicabilità del parametro contemplato dall’art. 42 bis, comma 3, al caso concreto nel quale, come detto, a seguito della rinuncia all’azione di rivendica nel corso del giudizio di primo grado, la proprietà del bene occupato è stata trasmessa al Comune di Fossò, residuando in capo a M.E. (nella cui posizione processuale è succeduta l’erede, controricorrente e ricorrente incidentale) il diritto al risarcimento del danno, anche relativamente all’occupazione illegittima, secondo i principi generali.

Con riferimento alle censure relative alla determinazione equitativa di tale danno, vale bene richiamare il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, in caso di occupazione illegittima di un immobile, è ravvisabile, secondo una presunzione iuris tantum, l’esistenza di un danno connesso alla perdita della disponibilità del bene ed all’impossibilità di conseguirne la relativa utilità, in relazione alla natura normalmente fruttifera dal bene medesimo (Cass., 31 luglio 2019, n. 20708; Cass., 21 ottobre 2018, n. 29990; Cass., 28 agosto 2018, n. 20545; Cass. 9 agosto 2016 n. 16670; 15/10/2015 n. 20823; Cass., 28 maggio 2014 n. 11992; Cass., 16 aprile 2013, n. 9137; Cass., 7 agosto 2012 n. 14222; Cass., 10 febbraio 2011 n. 3223; 11/02/2008 n. 3251; Cass., 8 maggio 2006 n. 10498).

Al medesimo orientamento si ispira la giurisprudenza amministrativa (Cons. St., 27 maggio 2019, n. 3428; id., 27 febbraio 2017, n. 897). Mette conto, a questo punto, di confrontarsi con l’indirizzo, espresso da alcune pronunce di questa Corte, secondo cui, dovendosi ricondurre l’ipotesi in esame nella categoria del danno-conseguenza, il pregiudizio subito dal proprietario non può ritenersi sussistente “in re ipsa”, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno con l’evento dannoso ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, ponendosi così in contrasto sia con l’insegnamento delle Sezioni Unite della S.C. (sent. n. 26972 del 2008) secondo il quale quel che rileva ai fini risarcitori è il danno-conseguenza, che deve essere allegato e provato, sia con l’ulteriore e più recente intervento nomofilattico (sent. n. 16601 del 2017) che ha riconosciuto la compatibilità del danno punitivo con l’ordinamento solo nel caso di espressa sua previsione normativa, in applicazione dell’art. 23 Cost.. Ne consegue che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (Cass., 24 aprile 2019, n. 11203; Cass., 25 maggio 2018, n. 13071; Cass., 17 giugno 2013, n. 15111, nonchè Cass., 11 gennaio 2005, n. 378).

In relazione a tali contrastanti indirizzi, appare opportuno premettere come sia assolutamente condivisibile il principio secondo cui per la verifica della responsabilità aquiliana in relazione a una condotta contra ius l’indagine non possa focalizzarsi sull’evento, essendo necessario che sia individuato un danno che si presenti come conseguenza, sotto il profilo della causalità giuridica, dell’illecito comportamento di un determinato soggetto (per tutte, cfr. Cass., 19 febbraio 2013, n. 4043).

Sotto tale profilo deve assolutamente dissentirsi dal richiamo, in relazione all’ipotesi di occupazione illegittima, alla categoria del danno in re ipsa, non potendosi tuttavia omettere di rilevare, come già perspicuamente evidenziato in recenti pronunce di questa Corte, che tali riferimenti sono in genere privi di un contenuto sostanziale, realizzando al contrario, sul piano lessicale, un improprio richiamo della figura (Cass., 9 dicembre 2019, n. 32108).

Appare opportuno aggiungere che, volendo anche prescindere dal carattere della presunzione (nella giurisprudenza prevalente sopra richiamata di certo non assoluta come quella correlata alla figura del danno in re ipsa), la responsabilità aquiliana inerente alla lesione del diritto di proprietà, di altri diritti di natura reale o del possesso non riguarda la lesione del bene in sè considerato, ma il riflesso di tale lesione sulla sfera giuridica del soggetto cui si attribuisce un interesse giuridicamente apprezzabile rispetto al bene offeso.

Appare quindi evidente che, se il “pregiudizio dell’interesse”, come sostenuto anche da autorevole dottrina, va tenuto distinto dal “pregiudizio del bene”, nell’ipotesi considerata il danno si presenta – sotto il profilo soggettivo – sempre come conseguenza dell’illecita occupazione, e non può come pure si è sostenuto, identificarsi con l’evento, dovendosi prendere in considerazione unicamente la lesione dell’interesse all’utilizzazione del bene e non il nocumento arrecato al bene in sè considerato.

Premesso che non può sussistere responsabilità civile senza un danno risarcibile, proprio l’applicazione del principio secondo cui il pregiudizio subito dal titolare del diritto offeso va ricondotto nella categoria del danno-conseguenza comporta, da un lato, l’abbandono della c.d. concezione materiale, incentrata sulla lesione del bene in sè considerato, dall’altro, anche in relazione all’evoluzione dei rapporti sociali ed economici con particolare riferimento all’ampliamento, anche sotto il profilo soggettivo, degli interessi meritevoli di tutela, il superamento del criterio meramente fondato sulla diminuzione del patrimonio, vale a dire sulla differenza del valore dello stesso sulla base del raffronto fra la situazione preesistente all’evento lesivo e quella successiva.

Si pone, infatti, l’esigenza di valutare complessivamente, anche con riferimento al danno patrimoniale, tutti gli aspetti inerenti alla perdita o alla mancata acquisizione di quelle utilità e di quei valori, suscettibili di essere stimati, sotto il profilo dell’equivalenza, in termini monetari, e tali da giustificare, nell’ambito del paradigma aquiliano, il trasferimento di ricchezza da parte del responsabile del danno ingiusto a favore del titolare del bene offeso, con finalità eminentemente compensative. Rilevato, per inciso, che non sembra del tutto condivisibile l’affermazione secondo cui una valutazione eventualmente ed inconsapevolmente erronea per eccesso del quantum risarcibile sia riconducibile, in virtù di una suggestiva generalizzazione, nella categoria del danno punitivo, vale bene puntualizzare che esula dal thema decidendum ogni questione inerente al danno non patrimoniale derivante dalla lesione della proprietà o di altri diritti reali, inteso come “lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica” (Cass., 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828). Non può omettersi di ricordare, a tale proposito, che in relazione al pregiudizio non patrimoniale la dottrina ha recentemente posto in evidenza l’esigenza di rimeditare la questione della sua risarcibilità in caso di lesione di diritti reali, in considerazione dell’affermazione di una sua ammissibilità da parte della Corte Europea dei diritti dell’uomo, della formulazione dell’art. 42-bis del TU espropriazioni, dell’art. 6 TUE e dell’art. 1, prot. 1, CEDU.

Tornando alla disamina dei due orientamenti sopra indicati, va osservato che, alla luce delle precisazioni sopra svolte, le loro differenze si assottigliano, posto che, al di là delle evidenziate improprietà lessicali, non può dubitarsi che il danno patrimoniale derivante dell’illecita occupazione di un bene immobile non può confondersi con l’evento, costituendo di esso una conseguenza, e che entrambi gli indirizzi, per quanto maggiormente rileva in questa sede, ammettono il ricorso a criteri presuntivi, nonchè alla liquidazione equitativa, una volta acquisita la certezza dell’esistenza del pregiudizio.

Il terreno sul quale occorre misurarsi riguarda essenzialmente gli aspetti di natura probatoria, e, in particolare, la necessità o meno che il titolare del bene offeso, pur potendosi avvalere di presunzioni, ottemperi quanto meno all’onere di allegare “i fatti in cui consisterebbe il danno”, sia al fine di rispettare la prescrizione normativa in tema di onere della prova, che non può essere rimessa a una valutazione del giudice, sia per consentire alla controparte l’esercizio del diritto di difesa, ostacolato da una prospettazione del tutto generica.

L’esigenza di allegare e provare “l’intenzione concreta di mettere l’immobile a frutto” (così la citata Cass. n. 13071 del 2018) confligge, a ben vedere, con l’affermazione della possibilità del ricorso a presunzioni: trattandosi di praesumptio hominis, essa non attiene alle deduzioni delle parti, ma all’operato del giudice, il quale se ne avvale per risalire dagli elementi di fatto acquisiti ai fatti costitutivi della fattispecie sottoposta al proprio esame. Con riferimento all’ipotesi in esame, la deduzione e la prova della occupazione sine titulo del bene, che generalmente implica l’impossibilità di goderne e di disporne liberamente, consente il ricorso, da parte del giudicante, all’applicazione del principio, generalmente riconosciuto, della normale natura fruttifera del bene. Mette conto di ricordare che, in tema di praesumptio hominis, ove l’inferenza del fatto ignoto da un fatto noto avvenga sulla base di correlazioni statisticamente ricorrenti, secondo l’id quod plerumque accidit – il giudice civile può accertare queste ultime d’ufficio, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2, nella misura in cui rientrino nella sfera del notorio (Cass., Sez U, 22 dicembre 2015, n. 25767, in motivazione), ovvero avvalersi allo stesso modo delle cc.dd. massime d’esperienza, precipuamente intese a governare il ragionamento di tipo presuntivo.

Neppure può ritenersi che procedendo in tal modo si leda il diritto di difesa del danneggiante: è stato da tempo posto in evidenza che nella misura in cui le presunzioni attengono all’operato del giudice, il contraddittorio riguarda non tanto l’apprezzamento dallo stesso compiuto, quanto le fonti della presunzione stessa.

Ove non si ritenga necessario uno sterile omaggio all’onere dell’allegazione in materia aquiliana, va quindi osservato che, quanto meno nella materia lato sensu inerente alle espropriazioni per pubblica utilità, la durata pluriennale delle occupazioni rende ardua anche la mera indicazione, che non sia meramente assertiva, delle destinazioni che il danneggiato avrebbe inteso dare al bene occupato da altri soggetti.

Per altro, a favore dell’orientamento prevalente sopra richiamato, che il Collegio condivide ed al quale, anzi, intende dare continuità, militano anche ragioni di ordine sistematico.

L’esperienza giudiziaria insegna che non di rado, come del resto, verificatosi nel caso in esame, un’occupazione inizialmente legittima di un terreno si converte in illegittima col decorso dei termini senza che sia intervenuto il provvedimento ablativo: alla pretesa indennitaria del proprietario subentra quella risarcitoria.

Deve in primo luogo richiamarsi il principio, costantemente affermato da questa Corte, secondo cui il provvedimento di occupazione temporanea, preordinata all’espropriazione di un immobile privato, attribuisce immediatamente alla P.A. il diritto di disporne allo scopo di eseguire l’opera pubblica per la quale è stato emanato ed incide in misura corrispondente sui poteri dominicali del titolare del bene, privandolo (temporaneamente) in tutto o in parte delle facoltà di godimento; e producendo ex art. 42 Cost., un’obbligazione indennitaria volta a compensare, per tutta la durata dell’indisponibilità del bene, fino all’esproprio, il detrimento dato dal suo mancato godimento, ossia una perdita reddituale che, essendo diversa da quella patrimoniale della perdita della proprietà del bene, postula un ristoro separato ed aggiuntivo, non assorbibile nell’indennità di espropriazione (Cass., Sez. un., n. 7324 del 1996; Cass. n. 5804 del 1995,Cass., n. 6083 del 1994).

E’ stato tuttavia precisato (cfr. amplius, Cass., 19 novembre 2010, n. 23505) che l’attuazione di tali principi postula, all’evidenza, che il proprietario abbia effettivamente perduto la disponibilità del bene, così subendo il pregiudizio derivante dalla mancata utilizzazione di esso. Questa Corte ha attribuito al verbale d’immissione in possesso dell’immobile per il quale è stato emesso il decreto di occupazione la natura di atto pubblico sia per il suo contenuto, di atto di esecuzione di un provvedimento della pubblica amministrazione che agisce iure imperii, rivolto, quindi, anche ad attestare il necessario collegamento tra gli immobili individuati nell’atto ablatorio e quelli materialmente appresi, sia per la qualità dell’ente espropriante che lo redige a norma della L. n. 1 del 1978, sia per la sua funzione di provvedimento amministrativo nominato e tipico, nonchè conclusivo di un procedimento amministrativo (Cass., n. 10651/2010).

Uno dei principali effetti di tale atto consiste nella contestuale nascita del diritto del proprietario a percepire l’indennizzo per l’occupazione, ormai non più subordinato alla sua liquidazione in sede amministrativa (Corte Cost. n. 470 del 1990), salva, tuttavia, la prova gravante sull’amministrazione espropriante che al verbale non è seguita l’effettiva presa di possesso dell’immobile (Cass., 8 gennaio 2020, n. 143; Cass., 13 maggio 2015, n. 9788; Cass., 27 marzo 2014, n. 7428; Cass., 21 marzo 2013, n. 7197; Cass., 19 novembre 2010, n. 23505; Cass., 31 marzo 2008, n. 8384; v. anche, per l’ipotesi di parziale esplicazione dei poteri dominicali da parte del titolare del diritto, Cass., Sez. U, 7 agosto 2009, n. 18077). Le fattispecie più ricorrenti sono costituite, per l’appunto, dall’esercizio dei poteri dominicali da parte del titolare del diritto anche durante il periodo di occupazione, ma non possono escludersene altre, come, ad esempio, il possesso ad usucapionem dello stesso bene da parte di terzi: alla formale diminuzione del patrimonio correlata all’occupazione del bene non corrisponde una concreta lesione dell’interesse del titolare nei confronti del bene stesso.

Orbene, non potendosi escludere il simultaneus processus (davanti alla Corte di appello, in parte a seguito di impugnazione, in parte come giudice competente in unico grado) in relazione a pretese di natura indennitaria e risarcitoria relative a un’occupazione legittima divenuta illecita senza soluzione di continuità, il ricorso a un criterio valutativo che si avvalga della (sostanzialmente) medesima praesumptio hominis o iudicis si impone per evidenti ragioni sostanziali e procedurali.

Non può omettersi di rilevare, sotto altro profilo, che appare paradossale la prospettazione di una posizione del danneggiato, a fronte di una condotta contra ius del responsabile, in qualche misura deteriore, sotto il profilo probatorio, rispetto all’ipotesi concernente la pretesa scaturente da una legittima attività della pubblica amministrazione.

Il secondo e terzo motivo del ricorso principale sono assorbiti dall’accoglimento del primo.

Per quanto esposto, in accoglimento dei primi motivi del ricorso principale e di quello incidentale, nei termini sopra precisati, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte d’appello di Venezia, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale e di quello incidentale, assorbiti gli altri motivi di entrambi i ricorsi. Cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Venezia, in diversa composizione, anche per le spese del grado di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2020

 

 

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