Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18564 del 10/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/07/2019, (ud. 22/05/2019, dep. 10/07/2019), n.18564

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15708-2018 proposto da:

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

LIBERIANA 27, presso lo studio degli avvocati VINCENZO DE MICHELE,

FABIO VERILE, che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FOGGIA, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE MAZZINI 6, presso lo studio

dell’avvocato VANIA ROMANO, rappresentato e difeso dagli avvocati

DOMENICO DRAGONETTI, ANTONIO PUZIO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 643/2018 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 14/03/2018 R.G.N. 2835/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CIMMINO Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

uditi gli Avvocati FABIO VERILE e VINCENZO DE MICHELE;

udito l’Avvocato DOMENICO DRAGONETTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso L. n. 92 del 2014, ex art. 1, comma 47, al Tribunale di Foggia S.F., dipendente del Comune di Foggia sin dal 6/12/1990 quale addetto registrazione dati, cat. B3/B6, con assegnazione, all’epoca dei fatti, presso il Servizio Attività Economiche, titolare dei benefici di cui alla L. n. 104 del 1992, impugnava il licenziamento senza preavviso comminatogli con atto dell’UPD prot. n. 53/2016 del 3/8/2016 ai sensi e per gli effetti del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a) come introdotto dal D.Lgs. n. 150 del 2009 a seguito di una informativa della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Foggia con cui, in relazione al procedimento penale n. 696/2016, era stato reso edotto il Comune della disposta esecuzione di misure cautelari a carico di vari dipendenti, tra cui appunto lo S., per i reati di cui all’art. 81 c.p., comma 2, art. 640 c.p., comma 2, art. 110 c.p., per fraudolente attestazioni delle presenze in ufficio.

2. Il Tribunale, in esito alla fase sommaria, respingeva la domanda.

3. La decisione era confermata in sede di opposizione.

4. Il reclamo proposto dallo S. era respinto dalla Corte d’appello di Bari.

4.1. Riteneva preliminarmente la Corte territoriale che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, regolante le forme ed i termini del procedimento disciplinare nulla prevedesse circa la composizione collegiale dell’UPD limitandosi a prescrivere alla PA la mera individuazione dell’ufficio competente per tali procedimenti.

4.2. Escludeva che, nella specie, fossero state violate le regole sulla competenza per i procedimenti disciplinari atteso che il procedimento era stato instaurato e concluso dall’Ufficio che, secondo la normativa regolamentare interna dell’Ente, era proprio l’ufficio competente.

Tale ufficio, inoltre, era risultato essere regolarmente costituito da soggetti rivestenti la qualifica dirigenziale sicchè inconferente era l’argomentazione relativa all’assenza di delega del componente M.A..

Priva di rilievo era inoltre la questione posta dal reclamante della mancata sottoscrizione della contestazione disciplinare da parte di tutti i componenti dell’UPD.

Riteneva che non fosse stata censurata la motivazione del Tribunale laddove era stato evidenziato che le condotte ascritte al ricorrente erano state ampiamente dimostrate dagli atti dell’indagine penale e che il lavoratore in sede di audizione non aveva contestato la materialità degli addebiti.

4.3. Evidenziava, poi, che legittimamente il giudice dell’opposizione avesse fondato il proprio convincimento sulle prove raccolte nell’ambito del procedimento penale ed escludeva ogni fondatezza dell’assunto secondo il quale non si sarebbe trattato di una mera elusione dei sistemi di rilevamento elettronici ma di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente.

4.4. Riteneva che le reiterate e consapevoli condotte illecite dello S. fossero tali da giustificare la massima sanzione espulsiva, irrilevante essendo l’esito di altre vicende processuali che avevano interessato altri dipendenti coinvolti nella medesima vicenda.

2. Per la cassazione di questa pronuncia S.F. ha proposto ricorso affidandosi a tre motivi.

3. Il Comune di Foggia ha resistito con controricorso.

4. Non sono state depositate memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1 e art. 55-bis, commi 1 e 4. Lamenta che il procedimento disciplinare non fosse stato condotto in tutte le sue fasi dall’ufficio competente come individuato dal Comune di Foggia nel Regolamento disciplinare del personale dirigente e del personale non dirigente del comparto Regioni Autonomie Locali adottato con Delib. n. 27 del 2014. In particolare, rileva che nella specie l’UPD che aveva proceduto, stante la mancanza di collegialità e l’erroneità dei componenti con specifico riferimento all’assenza del Dirigente Affari Generali, era risultato difforme da quello individuato secondo il Regolamento disciplinare. Sostiene che la Corte territoriale avrebbe operato uno sganciamento delle regole legali sulla competenza per i procedimenti disciplinari da quelle regolamentari proprie di ciascuna PA che, in concreto individuano l’Ufficio a cui tale competenza deve essere attribuita, giungendo erroneamente alla conclusione che solo le prime, in quanto norme imperative possono dar luogo alla nullità del procedimento e della sanzione.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362 c.c. e ss. nell’interpretazione del Regolamento disciplinare del personale dirigente e del personale non dirigente del comparto Regioni Autonomie Locali – Modifiche ed integrazioni relative all’individuazione e alla composizione dell’Ufficio competente per i provvedimenti disciplinari di cui alla Delib. Giunta Comunale n. 27 del 2014 adottata dal Comune di Foggia in ossequio al D.Lgs. n. 16 del 2001, art. 55-bis, comma 4. Evidenzia che l’UPD non avesse agito nella forma collegiale prevista in tutte le fasi del procedimento disciplinare e che la Corte territoriale non avrebbe fatto corretta applicazione delle norme e dei criteri di interpretazione considerato che il significato letterale delle parole utilizzate nel Regolamento deponevano nel senso di ritenere perfetto il collegio disciplinare. Critica la decisione impugnata anche nella parte in cui ha ritenuto non necessaria una formale delega in favore del componente M., avvalorando così una sorta di fungibilità tra le figure dirigenziali presenti nell’UPD e facendo in tal modo erronea applicazione del Regolamento il quale richiede che i dirigenti chiamati come componenti dell’UPD in sostituzione di quelli specificamente individuali abbiano ricevuto a tal fine la nomina sostitutiva da arte del Sindaco.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e che era stato oggetto di discussione tra le parti, per avere la Corte d’appello di Bari omesso di accertare se le diverse figure dirigenziali presenti nell’UPD avessero ricevuto una nomina sostitutiva da parte del Sindaco del Comune di Foggia. Anche con tale motivo il ricorrente censura la decisione impugnata per aver ritenuto sufficiente al fine della regolare costituzione dell’UPD la presenza di soggetti rivestenti la qualifica dirigenziale valorizzando così puramente e semplicemente il dato formale della qualifica funzionale.

4. Il primo motivo è infondato.

4.1. Come da questa Corte già affermato (v. Cass. 6 febbraio 2019, n. 3467) in relazione all’attività degli organi collegiali, la formazione della volontà resta distinta dalla manifestazione, sicchè mentre la prima si deve formare all’interno dell’organo collegiale secondo le regole che ne presiedono il funzionamento, all’esterno l’organo agisce in persona del soggetto che lo rappresenta, sicchè gli atti ben possono essere sottoscritti solo da quest’ultimo.

4.2. Ed allora non ha giuridico fondamento la tesi del ricorrente, secondo cui dalla natura perfetta del collegio deriverebbe la necessità che tutte le persone fisiche che lo compongono assumano anche all’esterno la paternità dell’atto, sottoscrivendolo.

4.3. A detto assorbente rilievo si deve aggiungere che, secondo la giurisprudenza amministrativa, il collegio perfetto è caratterizzato dalla circostanza che lo stesso deve operare con il plenum dei suoi componenti nelle fasi in cui l’organo è chiamato a compiere valutazioni tecnico-discrezionali o ad esercitare prerogative decisorie, rispetto alle quali si configura l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il loro contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale, esigenza che, invece, non ricorre rispetto agli atti istruttori (v. C.d.S. n. 5187/2015, C.d.S. n. 40/2015).

4.4. Alle medesime conclusioni questa Corte è pervenuta in relazione all’attività dell’UPD, se a composizione collegiale, in ordine alla quale si è sottolineato che devono essere collegialmente compiute “solo le attività valutative e deliberative vere e proprie (rispetto alle quali sussiste l’esigenza che tutti i suoi componenti offrano il proprio contributo ai fini di una corretta formazione della volontà collegiale) e non anche quelle preparatorie, istruttorie o strumentali, verificabili a posteriori dall’intero consesso” (v. Cass. 26 aprile 2016, n. 8245 richiamata da Cass. 4 giugno 2018, n. 14200).

4.5. Anche sotto questo profilo, pertanto, la doglianza è infondata perchè la contestazione, con la quale si dà avvio al procedimento disciplinare, non ha natura decisoria nè è espressione di un potere discrezionale, in quanto nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato, a differenza dell’impiego privato, l’iniziativa disciplinare è doverosa (cfr. Cass. n. 4 aprile 2017, n. 8722, richiamata fra le più recenti da Cass. 21 agosto 2018, n. 20880), tanto che la sua omissione è fonte di responsabilità per il soggetto tenuto ad attivare il procedimento.

4.6. Quanto, poi, alla pretesa di far discendere la nullità della sanzione disciplinare dalla violazione della regola della composizione sul presupposto che, a termini di Regolamento, la forma collegiale sarebbe stata prevista per tutte le fasi del procedimento disciplinare, va ribadito il principio già affermato da Cass. 25 ottobre 2017, n. 25379, in base al quale occorre distinguere le regole legali sulla competenza da quelle regolamentari che disciplinano la costituzione e il funzionamento dell’organo collegiale secondo l’ordinamento interno di ciascuna Pubblica Amministrazione, perchè il D.Lgs. n. 165 del 2001 “non attribuisce natura imperativa riflessa al complesso delle regole procedimentali interne che regolano la costituzione e il funzionamento dell’UPD”. Ciò perchè l’interpretazione dell’art. 55-bis, comma 4, non può essere ispirata ad un eccessivo formalismo ma deve essere coerente con la sua ratio, che è quella di tutelare il diritto di difesa dei dipendenti pubblici, senza alcuna eccezione, anche per i casi più gravi di condotte penalmente rilevanti, tenendo, però, in considerazione i principi di cui agli artt. 54,97 e 98 Cost..

4.7. Si è conseguentemente ritenuto che ai fini della legittimità della sanzione rileva che sia stato garantito il principio di terzietà, sul quale riposa la necessaria previa individuazione dell’ufficio dei procedimenti, il che “postula solo la distinzione sul piano organizzativo fra detto ufficio e la struttura nella quale opera il dipendente” (v. Cass. 2 marzo 2017, n. 5317).

5. Dalle considerazioni che precedono deriva l’irrilevanza del secondo motivo.

5.1. Ed infatti quello che rileva, ai fini del diritto di difesa del dipendente, è che sia stata garantita la terzietà nei termini sopra evidenziati.

5.2. Va in ogni caso evidenziato che l’interpretazione della disciplina regolamentare è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per violazione dei canoni di ermeneutica di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., applicabili in forza del rinvio contenuto nell’art. 1324 c.c., sicchè il ricorrente per cassazione non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali d’interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai richiamati canoni legali (in tal senso, fra le più recenti, Cass. 17 agosto 2018, n. 20775; Cass. 30 maggio 2018, n. 13667).

5.3. E’, pertanto, inammissibile la censura che si limiti, come nel caso di specie, a prospettare una diversa interpretazione dell’atto, sollecitando un riesame del merito della causa non consentito alla Corte di legittimità.

6. Il terzo motivo è inammissibile.

6.1. Questa Corte ha già affermato (v. Cass. 29 ottobre 2014, n. 23021; Cass. 29 ottobre 2015, n. 22142; Cass. 27 luglio 2017, n. 18659), con indirizzo cui si intende dare in questa sede continuità, l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 348 ter c.p.c. alla sentenza che definisce il procedimento di reclamo ex art. 1 legge Fornero. Sul punto ha evidenziato come la normativa di riferimento non disciplini il contenuto dell’atto di reclamo, introduttivo del giudizio di secondo grado e che vi è dunque integrazione della disciplina – pur speciale – dettata dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 58 e 61 con quella dell’appello nel rito del lavoro; dalla integrazione deriva la applicazione anche dell’art. 348 ter c.p.c., ed in particolare – per quanto in questa sede rileva – della modifica che riguarda il vizio di motivazione per la pronuncia cd. doppia conforme.

6.2. La disposizione è applicabile ratione temporis (D.L. n. 83 del 2012, ex art. 54, comma 2) nel presente giudizio giacchè il reclamo è stato depositato nel 2017.

6.3. Nè il ricorrente, al fine di evitare l’inammissibilità del motivo, ha indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di prime cure e quelle poste a base della sentenza di rigetto del reclamo, dimostrando che esse sono tra loro diverse (v. Cass. 10 marzo 2014, n. 5528 e successive conformi).

6.4. Resta, dunque, preclusa la possibilità di sindacato da parte di questa Corte sull’accertamento in fatto svolto dalla Corte territoriale.

7. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

8. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

9. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 22 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2019

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