Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18561 del 10/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/07/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 10/07/2019), n.18561

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. PICONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15187/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE

DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI N. 12;

– ricorrente –

contro

P.O., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71

(c/o STUDIO AVVOCATO GIUSEPPE DELL’ERBA), rappresentato difeso

dall’avvocato ANTONIO COSTANTINI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 251/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE,

depositata il 25/03/2014 R.G.N. 1420/2012.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

CHE:

1. il Tribunale di Lecce, con sentenza del 4 marzo 2011, rigettò il ricorso proposto da P.O. nei confronti della Agenzia delle Entrate di cui era dipendente inquadrato nella terza Area funzionale del CCNL applicabile, ritenendo che sia le mansioni alle quali era stato adibito il P. presso l’Ufficio di (OMISSIS) (dal 20 luglio 2006 al 19 novembre 2006) che quelle alle quali era stato adibito lo stesso lavoratore presso l’Ufficio di Maglie (dal 20 novembre 2006 all’11 febbraio 2008) rientrassero in quelle proprie del profilo di appartenenza, non essendo decisiva la circostanza che il ricorrente, prima del suo trasferimento, svolgesse l’incarico di natura temporanea di Capo Team;

2. con sentenza pubblicata il 25 marzo 2014 la Corte di Appello distrettuale, in accoglimento dell’appello proposto dal lavoratore, ha accertato che ” P.O. è stato demansionato nel periodo dal luglio 2006 a febbraio 2008″, condannando l’Agenzia delle Entrate al risarcimento dei danni quantificati in Euro 38.000,00 a titolo di danni non patrimoniali, ed Euro 4.100,00, a titolo di danno patrimoniale;

3. la Corte ha affermato che “lo ius variandi del datore di lavoro pubblico di norma può esercitarsi solo nell’ambito di mansioni aderenti alla specifica competenza tecnico professionale del dipendente che ne salvaguardino il livello professionale e gli consentano di utilizzare il patrimonio di esperienze acquisite nella pregressa fase del rapporto di lavoro, almeno che non sussistano oggettive esigenze della pubblica amministrazione che giustifichino, a monte, il mutamento di mansioni, e quindi la conseguente perdita di professionalità, e che tale mutamento avvenga all’esito di una procedura di comparazione con altri dipendenti nella medesima posizione”, sulla scorta di tale assunto, la Corte, “dal raffronto tra le attività espletate dal P. prima del suo trasferimento e quelle espletate dopo lo stesso ed anche dopo il rientro nella sede originaria”, è giunta ad un giudizio di dequalificazione, liquidando danni patrimoniali e non patrimoniali in favore del dipendente;

4. per la cassazione di tale sentenza propone ricorso l’Agenzia delle Entrate con 2 motivi, cui resiste il P. con controricorso, illustrato da memoria.

CONSIDERATO IN DIRITTO

CHE:

1. con il primo motivo di ricorso si deduce la nullità della sentenza per violazione dell’art. 51 c.p.c., n. 4, e art. 158 c.p.c., in quanto un componente del Collegio d’appello non si sarebbe astenuto pur essendosi pronunciato in sede di procedimento ex art. 700 c.p.c., che aveva preceduto il giudizio a cognizione piena poi instaurato dal P.;

2. il motivo è infondato; invero secondo questa Corte (di recente v. Cass. n. 27924 del 2018) non è deducibile come motivo di nullità di una sentenza d’appello la circostanza che uno dei componenti del collegio che l’ha pronunciata avesse in precedenza conosciuto dei medesimi fatti in sede di provvedimento d’urgenza “ante causam”, poichè l’avere conosciuto della stessa causa in un altro grado deve essere ritualmente fatto valere come motivo di ricusazione del giudice, a norma dell’art. 51 c.p.c., comma 1, n. 4, e art. 52 c.p.c., e, d’altra parte, l’avere trattato della controversia in sede di procedimento cautelare “ante causam” neanche costituisce, secondo la giurisprudenza costituzionale (Corte Cost. n. 326 del 1997 e n. 193 del 1998), un’ipotesi sufficientemente assimilabile, sotto il profilo dell’incompatibilità, alla trattazione della causa in un altro grado di giudizio (tra le altre v. Cass. n. 14807 del 2008);

3. con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2013,2043,2087 e 2697 c.c., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, art. 17, comma 5, CCNL Agenzie Fiscali, il quale ultimo prevede che “ogni dipendente è tenuto a svolgere le mansioni considerate equivalenti all’interno della medesima area”; si rileva prioritariamente che la fonte regolatrice dell’ipotesi di cambiamento di mansioni di un dipendente pubblico non è l’art. 2103 c.c., bensì il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, interpretato dalla giurisprudenza di legittimità recependo un concetto di equivalenza “formale”, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice; si eccepisce che il P. avrebbe sempre svolto “mansioni consone alla qualifica rivestita” e si deduce che “il legittimo esercizio dello jus variandi (per cui tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili), così come contrattualmente e legislativamente previsto, comporta che l’assegnazione di mansioni equivalenti, siano esse attinenti all’area servizio o all’area controllo, siano essi afferenti a processi di missione dell’Agenzia e/o di supporto dell’attività dell’ente, costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell’oggetto del contratto di lavoro”; da ultimo si critica la sentenza impugnata per aver liquidato danni patrimoniali e non patrimoniali in difetto di allegazioni idonee;

4. il motivo, che il Collegio reputa ammissibile in quanto dall’illustrazione di esso si evince adeguatamente l’errore di diritto denunciato, è fondato, atteso che l’assunto da cui muove la Corte territoriale e riportato nello storico della lite si pone in frontale contrasto con la lettera della legge così come interpretata da un costante orientamento dei giudici di legittimità con cui la sentenza impugnata, nonostante sia risalente e consolidato, non si confronta, in base al quale:

“In tema di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, – nella formulazione anteriore alla novella di cui al D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1, – assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione, non potendosi aver riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c.” (Cass. n. 7106 del 2014; tra le altre: Cass. n. 17396 del 2011; Cass. n. 18283 del 2010; Cass. n. 11405 del 2010; Cass. n. 8740 del 2008; ancora di recente v. Cass. n. 18817 del 2018);

si è anche precisato che “In tema di lavoro pubblico negli enti locali, il conferimento di una posizione organizzativa non comporta l’inquadramento in una nuova categoria contrattuale ma unicamente l’attribuzione di una posizione di responsabilità, con correlato beneficio economico. Ne consegue che la revoca di tale posizione non costituisce demansionamento e non rientra nell’ambito di applicazione dell’art. 2103 c.c., e del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52,trovando applicazione il principio di turnazione degli incarichi, in forza del quale alla scadenza il dipendente resta inquadrato nella categoria di appartenenza, con il relativo trattamento economico” (Cass. n. 6367 del 2015);

l’accoglimento del motivo – non certo precluso dalle argomentazioni spese in memoria dalla difesa del P. che fanno riferimento ad una presunta ritorsività degli atti datoriali subiti che non costituisce invece ragione della decisione impugnata – il quale pone ancora sub iudice l’inadempimento dell’Agenzia travolge ogni statuizione della sentenza della Corte di Appello sul risarcimento dei danni, assorbendo ogni questione sul punto;

4. conclusivamente, rigettato il primo motivo di ricorso, deve essere accolto il secondo nei sensi innanzi espressi, con cassazione della sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvio al giudice indicato in dispositivo che si atterrà a quanto statuito, scrutinando la fattispecie concreta alla luce ai principi innanzi richiamati e regolando anche le spese.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Lecce, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2019

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