Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18560 del 10/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 10/07/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 10/07/2019), n.18560

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1500-2014 proposto da:

B.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA

FARNESINA 5, presso lo studio dell’avvocato FABIO D’AMATO, che lo

rappresenta e difende;

– ricorrente principale –

REGIONE LAZIO, in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARCANTONIO COLONNA 27,

presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA COLLACCIANI, che la

rappresenta e difende;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

e contro

C.L.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5445/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 09/07/2013 R.G.N. 2505/2007.

Fatto

RILEVATO

che:

1. con sentenza n. 5445/2013, pubblicata in data 9 luglio 2013, la Corte d’appello di Roma, in parziale riforma della decisione del Tribunale capitolino, condannava la Regione Lazio al risarcimento del danno in favore di B.F. in conseguenza del demansionamento da quest’ultimo subito dal marzo all’ottobre del 2002, in misura pari ad Euro 3.920,00 per danno biologico e ad Euro 1.466,50 per spese mediche;

1.1. B.F., dipendente della Regione convenuta dall’1/5/2001 in categoria professionale C, posizione economica C1 del c.c.n.l. di settore, assegnato alla Commissione Urbanistica presso il Consiglio Regionale, quindi eletto in data 13/5/2001 consigliere del Municipio Roma XVIII con incarico di Presidente della VI Commissione Consiliare Urbanistica e Ambiente e trasferito in data 3/12/2001, con decorrenza dal 23/11/2001, presso l’Area Autonoma del Collegio dei Revisori dei Conti del Consiglio della Regione Lazio, era stato sollevato da tali ultime mansioni con comunicazione del 25/3/2002 del Dirigente, C.L., con la quale era stata richiesta la sua messa a disposizione, “per indisponibilità ad eseguire prestazioni lavorative in orario antimeridiano in quanto Consigliere Municipale nonchè Presidente di una Commissione Municipale”;

da tale momento, secondo la prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio, al B. non era stato affidato alcun compito effettivo e ne era derivata una sua forzata inattività con compromissione delle sue condizioni psico-fisiche;

il predetto aveva pertanto agito nei confronti della Regione Lazio e della Dirigente C.L. per ottenere il risarcimento del danno biologico ed alla professionalità subito in conseguenza del demansionamento ed in relazione al periodo dal marzo del 2002 fino all’ottobre del 2002 (allorchè il B. era stato trasferito all’Area risorse umane e trattamento consiglieri);

1.2. il Tribunale respingeva la domanda ritenendo che il B. non avesse fornito la prova dell’asserito demansionamento nè del nesso di causalità tra il pregiudizio lamentato e le condotte addebitate all’Amministrazione ed escludendo che il provvedimento di messa a disposizione del ricorrente potesse configurare un atto vessatorio;

1.3. la Corte d’appello di Roma riteneva, al contrario, che la Regione Lazio non avesse dimostrato che gli impegni del lavoratore come consigliere municipale fossero incompatibili con le mansioni svolte e che la prova in ordine all’orario di lavoro fosse risultata contraddittoria;

in ogni caso assumeva che fosse emersa la dequalificazione e la totale mancanza di attribuzione di mansioni per di più con modalità vessatorie (cambio della serratura, mancata assegnazione di una stanza, costrizione su una panca ecc.) e che il successivo trasferimento del B. dimostrasse l’esistenza di mansioni compatibili non dequalificanti;

riteneva, sulla base della disposta c.t.u., che tra la suddetta dequalificazione e la percentuale di danno biologico del 3% sussistesse un nesso causale;

escludeva il risarcimento del danno da incapacità temporanea in assenza di domanda e quello del danno alla professionalità per mancanza di deduzioni specifiche sul punto;

respingeva il ricorso incidentale di C.L. quanto alla dedotta insussistenza della sua legittimazione passiva e tuttavia riteneva che il rigetto della domanda nei confronti della predetta fosse da confermare, non essendo emersi elementi convincenti in ordine all’imputabilità alla C. dei comportamenti ritenuti causativi del danno;

2. per la cassazione di tale decisione ha proposto ricorso la Regione Lazio, affidando l’impugnazione a quattro motivi;

3. ha resistito con controricorso la Regione Lazio ed ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a tre motivi;

4. non ha svolto attività difensiva C.L.;

5. il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. ragioni di ordine logico impongono l’esame prioritario del ricorso incidentale;

2. con il primo motivo di tale ricorso incidentale viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116 e 416 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c. ed agli artt. 2103 c.c. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (art. 360 c.p.c., n. 3);

lamenta la Regione Lazio che la Corte d’appello avrebbe invertito l’onere della prova dell’esistenza del danno, della natura e delle caratteristiche ponendo a carico della Regione l’onere di dimostrare che gli impegni del lavoratore come consigliere municipale fossero incompatibili con le mansioni svolte;

censura, altresì, la sentenza impugnata per non aver indicato gli elementi istruttori posti a base della decisione e deduce che dalle prove testimoniali non fosse dato desumere le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale;

3. il motivo è infondato;

3.1. come da questa Corte già affermato (v. Cass. 9 febbraio 2016, n. 30807; Cass. 22 settembre 2017, n. 22171; Cass. 31 gennaio 2019, n. 7182) la violazione dell’art. 2697 c.c. può essere denunciata solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo: in tal caso l’errore condiziona la decisione, poichè fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli della incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regola-eccezione, a provare il fatto incerto;

detta evenienza non si verifica allorquando il giudice, all’esito della valutazione delle complessive risultanze di cause, ritenga provati i fatti allegati dalla parte sulla quale ricadeva il relativo onere;

così nella specie la Corte territoriale ha ritenuto, con argomentazione assorbente di ogni altro rilievo, che dalle risultanze di causa fosse emersa la prova, con riferimento al periodo per cui è causa, della dedotta dequalificazione e anzi della totale mancanza di attribuzione di mansioni, per di più con modalità vessatorie;

3.2. ed allora la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 e, quindi, può essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione, nel testo applicabile ratione temporis;

3.3. nel caso di specie la ricorrente incidentale, pur denunciando nella rubrica la violazione dell’art. 2967 c.c., in realtà addebita alla sentenza impugnata una lettura non corretta delle deposizioni testimoniali, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando un giudizio di merito non consentito in sede di legittimità;

3.4. la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. non è, poi, ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass. 10 giugno 2016, n. 11892) e la violazione dell’art. 116 c.p.c. è configurabile solo allorchè il giudice apprezzi liberamente una prova legale, oppure si ritenga vincolato da una prova liberamente apprezzabile (Cass., Sez. Un., n. 11892/2016 cit.; Cass. 19 giugno 2014, n. 13960; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965), situazioni queste non sussistenti nel caso in esame;

4. con il secondo motivo di ricorso incidentale la Regione Lazio denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5);

censura la sentenza impugnata per l’omesso esame della testimonianza resa da Be.Ga., di quanto esposto nella memoria di appello dalla dirigente C.L., del contenuto della nota del 14/6/2002 (con la quale il B. avrebbe ammesso sostanzialmente di prestare attività lavorativa solo nel pomeriggio), da cui la Corte territoriale avrebbe dovuto desumere la natura amministrativa dell’area cui il ricorrente era stato assegnato con consequenziale necessità di effettuare la prestazione durante le ore antimeridiane;

5. il motivo è inammissibile;

5.1. la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata (da ultimo, Cass., Sez. Un., 31 dicembre 2018, n. 33679) nell’affermare che: – il novellato testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), applicabile ratione temporis, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie; – neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante ai sensi della predetta norma; – nel giudizio di legittimità è denunciabile solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali, risolvendosi nella violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, (non denunciata nella fattispecie): tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione;

5.2. nel caso di specie le censure si risolvono in un’inammissibile critica della valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice di merito, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando questa Corte ad esprimere un giudizio di fatto, non consentito in sede di legittimità;

5.3. d’altra parte il fatto storico rilevante in causa (e cioè la pretesa indisponibilità del B. ad eseguire le prestazioni lavorative in orario antimeridiano) è stato preso in considerazione dalla Corte territoriale e la decisione è stata basata su una valutazione delle risultanze probatorie congrua, logicamente articolata e priva di errori di diritto avendo i giudici di appello esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che tale decisione hanno giustificato, sicchè deve escludersi la sussistenza di quei vizi che ora circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., n. 5;

6. con il terzo motivo la ricorrente incidentale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c., del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 nonchè dell’art. 3 del c.c.n.l. Regioni e Autonomie locali sottoscritto il 31/3/1999;

censura la sentenza impugnata per non aver attribuito rilevanza all’equivalenza formale della mansioni;

lamenta, altresì, la sottovalutazione della circostanza che la messa a disposizione del dipendente fosse dipesa dal fatto che egli non poteva garantire la presenza in ufficio nelle ore pomeridiane;

7. il motivo è infondato;

7.1. non vi è dubbio che, come da questa Corte più volte affermato (v. Cass. 21 maggio 2009, n. 11835) in materia di pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 1, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito – attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell’organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse – un concetto di equivalenza formale, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice (v. Cass. 19 agosto 2001, n. 17396; Cass. 5 agosto 2010, n. 18283; Cass., Sez. Un., 4 aprile 2008, n. 8740; v. anche le più recenti Cass. 26 marzo 2014, n. 7106; Cass. 19 agosto 2016, n. 17214; Cass. 16 luglio 2018, n. 18817);

7.2. resta, comunque, salva l’ipotesi che la destinazione ad altre mansioni abbia comportato, come nell’ipotesi in esame, il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa;

trattasi di questione che, infatti, giova rimarcare, esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni, integrando la diversa ipotesi della sottrazione pressochè integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del pubblico impiego (v. Cass. 21 maggio 2009, n. 11835; Cass. 11 maggio 2010, n. 11405; Cass. 15 gennaio 2014, n. 687);

7.3. ed allora il motivo, nonostante la formale denuncia di violazione di legge, scivola, inammissibilmente, nella valutazione dei fatti come operata dalla Corte territoriale;

7.4. va, al riguardo, ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa;

viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 4 aprile 2013, n. 8351; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155), ora, peraltro, nei limiti della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e graficò, motivazione apparente, contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione: v. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014, n. 8053);

è dunque inammissibile una doglianza che fondi il presunto errore di sussunzione – e dunque un errore interpretativo di diritto – su una ricostruzione fattuale diversa da quella posta a fondamento della decisione, alla stregua di una alternativa interpretazione delle risultanze di causa;

8. con il primo motivo di ricorso principale viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c., dell’art. 2059c.c. e dell’art. 32 Cost. in punto di liquidazione del danno biologico e da invalidità temporanea;

sostiene il ricorrente che l’invalidità temporanea ed assoluta costituiscano una componente del danno biologico e che pertanto fosse sufficiente chiedere, come avvenuto, il risarcimento del danno biologico (complessivo) senza alcuna ulteriore specificazione;

9. il motivo è infondato;

9.1. quelli in discussione solo titoli di danno diversi pur riconducibili entrambi al danno biologico;

come è noto, il danno biologico (nozione giuridica) scaturisce dalla compromissione dell’integrità psicofisica (nozione medico-legale);

la lesione dell’integrità psicofisica può essere tanto temporanea, quanto permanente;

la compromissione temporanea dell’integrità psicofisica è convenzionalmente definita invalidità temporanea: trattasi di un fenomeno necessariamente transeunte, al cui esaurimento possono darsi tre possibilità con effetti giuridicamente diversi: (a) la vittima può guarire recuperando integralmente lo stato di salute quo ante (guarigione senza postumi); (b) la vittima può guarire senza però recuperare integralmente lo stato di salute quo ante (guarigione con postumi); (c) la vittima non guarisce, poichè la malattia causata dalla lesione ne provoca la morte;

9.2. come da questa Corte già affermato (v. Cass. 28 febbraio 2017 n. 5010; Cass. 13 agosto 2015, n. 6788) invalidità temporanea ed invalidità permanente sono pregiudizi aventi medesima natura giuridica, ma diversi in fatto: essi dunque non si implicano a vicenda;

così come può accadere che ad un periodo di malattia segua una guarigione senza postumi, all’opposto può accadere che la lesione provocata dall’illecito determini illico et immediate l’invalidità temporanea;

9.3. corretta è allora la sentenza impugnata che ha ritenuto necessaria, per il riconoscimento dell’invalidità temporanea (avente effetti e contenuti diversi rispetto all’invalidità permanente ancorchè egualmente riconducibile al genus del danno biologico), una specifica domanda, supportata da allegazioni in fatto, non essendo sufficiente quella di danno biologico complessivo;

10. con il secondo motivo di ricorso principale viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 1223,1226 c.c. e art. 115 c.p.c. nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in punto di mancato riconoscimento del danno da svalutazione monetaria e conseguente riconoscimento di rivalutazione ed interessi;

11. il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni;

11.1. innanzitutto è promiscuamente formulato art. 360 c.p.c., ex nn. 3 e 5 con la contemporanea deduzione della violazione di più disposizioni di legge (sostanziale e processuale) e del vizio di omesso esame ma tale modalità di formulazione risulta non rispettosa del canone della specificità del motivo allorquando – come nella specie – nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, ‘di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità’ (Cass., Sez. U., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. U., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862);

11.2. il motivo, inoltre, non chiarisce perchè l’importo liquidato dalla Corte territoriale in base alle Tabelle di Milano non potrebbe essere stato un importo attualizzato e quindi rivalutato alla data della sentenza;

non risultano allegate le Tabelle di Milano cui la sentenza impugnata ha fatto riferimento nè sono offerti elementi per ricostruire, nel senso auspicato dal ricorrente, il procedimento che ha portato la Corte territoriale alla conclusiva quantificazione;

11.3. in ogni caso va escluso il cumulo tra interessi e rivalutazione in quanto in termini generali il credito del lavoratore nei confronti del proprio datore di lavoro, volto al risarcimento del danno biologico, non ha natura giuridica di credito di lavoro (peraltro, nella specie, trattandosi di datore di lavoro pubblico, il cumulo sarebbe comunque escluso: v. Cass. 10 gennaio 2013, n. 535 e Cass. 5 luglio 2011, n. 14705) trovando nel rapporto di lavoro soltanto l’occasione di contatto sociale che ha determinato la sua insorgenza, ma ha natura di credito risarcitorio;

11.4. ne consegue che, avendo la sentenza di liquidazione del credito operato la trasformazione di esso, da credito di valore in credito di valuta, il danno da ritardo è disciplinato dall’art. 1224 c.c., che esclude il cumulo tra interessi e rivalutazione (v. Cass. 30 luglio 2003, n. 11704);

12. con il terzo motivo di ricorso principale viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c.nonchè omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in punto di liquidazione del danno alla professionalità;

il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver escluso il danno alla professionalità in mancanza di deduzioni specifiche e rileva che tale danno sarebbe emerso dalle deposizioni testimoniali del tutto pretermesse dalla Corte territoriale;

rileva che tale danno dovesse essere ritenuto sussistente in presenza di un accertato demansionamento, irrilevante essendo la durata di quest’ultimo;

13. il motivo, oltre a presentare gli stessi profili di inammissibilità di cui al secondo motivo di ricorso per essere stato promiscuamente formulato art. 360 c.p.c., ex nn. 3 e 5 è comunque infondato;

13.1. se è vero che il demansionamento ben può essere foriero di danni al bene immateriale della dignità professionale del lavoratore, è del pari vero che – per costante giurisprudenza di questa S.C. – essi non sono in re ipsa e devono pur sempre essere dimostrati (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis, Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572);

13.2. il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre 2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) potendosi, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214);

13.3. in tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 c.c., non è allora sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo di categorie generali (come la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la gravità del demansionamento, la sua durata e altre simili), dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza;

13.4. nella specie, in giudice di merito, facendo corretta applicazione degli indicati principi, con accertamento di fatto non surrogabile in questa sede, ha ritenuto che fossero del tutto mancate deduzioni specifiche in primo grado sul punto, il che precludeva ogni possibilità per il giudicante di giungere ad una valutazione seppure presuntiva;

13.5. nè maggior pregio hanno i rilievi incentrati sull’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio dovendosi richiamare quanto già evidenziato ai punti 5.1. e 5.2. che precedono;

13.6. anche in questo caso il fatto storico rilevante in causa (e cioè l’esistenza di un danno alla professionalità in conseguenza del demansionamento) è stato preso in considerazione dalla Corte territoriale e la decisione soddisfa il minimo costituzionale imposto dall’art. 111 Cost. e dall’art. 132 c.p.c.;

14. con il quarto motivo di ricorso principale viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e art. 32 Cost.;

il ricorrente critica la sentenza impugnata in punto di liquidazione del danno biologico effettuata sulla base di una c.t.u. espletata a distanza di 10 anni dall’evento lesivo;

15. il motivo è inammissibile;

15.1. la sentenza che abbia aderito alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è censurabile in sede di legittimità solo in caso di palese deviazione dalle nozioni correnti della scienza medica (la cui fonte va indicata dal ricorrente) o di omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non si possa prescindere per la formulazione di una corretta diagnosi;

15.2. al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico-formale, che si traduce, quindi, in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (giurisprudenza consolidata: v., e pluribus, Cass. 3 febbraio 2012, n. 1652; Cass. 12 gennaio 2011, n. 569; Cass. 29 aprile 2009, n. 9988; Cass. 3 aprile 2008, n. 8654);

15.3. con il motivo in esame non vengono dedotti vizi logico-formali che si concretino in deviazioni dalle nozioni della scienza medica o si sostanzino in affermazioni manifestamente illogiche o scientificamente errate, nè si indica quali necessari accertamenti strumentali siano stati – in ipotesi – omessi;

15.4. malgrado i richiami normativi esplicitati nell’intestazione del mezzo di impugnazione, in realtà il ricorrente si limita a svolgere soltanto osservazioni concernenti il merito dell’accertamento peritale non deducibili in questa sede di legittimità;

16. conclusivamente vanno respinti sia il ricorso principale sia il ricorso incidentale;

17. la reciproca soccombenza costituisce motivo per compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità;

18. va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 considerato che, in base al tenore letterale della disposizione, l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta entrambi i ricorsi e compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2019

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