Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18555 del 09/09/2011

Cassazione civile sez. I, 09/09/2011, (ud. 19/05/2011, dep. 09/09/2011), n.18555

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BANCA NAZIONALE DEL LAVORO s.p.a., con domicilio eletto in Roma, via

Val Gardena n. 3, presso l’Avv. De Angelis Lucio che la rappresenta e

difende unitamente all’Avv. Caltabiano Alberto come da procura

speciale in atti;

– ricorrente –

contro

S.I.E.F. s.r.l., in persona del curatore pro tempore, con domicilio

eletto in Roma, via Cicerone n. 28, presso l’Avv. Orlando Guido,

rappresentata e difesa dall’Avv. Audino Andrea, come da procura in

calce al controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Corte d’appello di Bologna n.

267/07 depositata il 21 febbraio 2007;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

giorno 19 maggio 2011 dal Consigliere relatore Dott. ZANICHELLI

Vittorio;

sentite le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott.ssa ZENO Immacolata che ha concluso per l’accoglimento

per quanto di ragione dei motivi primo e terzo, il rigetto del

secondo, l’inammissibilità del terzo e ìassorbimento degli altri;

uditi gli Avv.ti Lucio De Angelis e Guido Orlando per delega

dell’Avv. Audino.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In esito (per quanto qui interessa) ad azione revocatoria proposta dalla curatela del fallimento S.I.E.F. s.r.l. in relazione a mandati di pagamento, cessioni di crediti e pagamenti afferenti ad un conto corrente scoperto il Tribunale di Bologna ha condannato la Banca Nazionale del Lavoro s.p.a. (in seguito Banca) alla corresponsione di Euro 439.064,18, oltre accessori. Sull’impugnazione della Banca la Corte d’appello ha integralmente confermato la decisione.

Ricorre per cassazione la Banca deducendo sei motivi con i quali, in sintesi, lamenta: vizi di motivazione e violazione dell’art. 2729 c.c. in ordine alla ritenuta sussistenza della scientia decotionis;

falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. e vizi di motivazione in relazione alla ritenuta inammissibilità di deduzione di nuove prove in fase di appello in quanto non indispensabili; falsa applicazione della L. Fall., art. 67, in quanto qualificati come atti solutori i bonifici effettuati da terzi in favore della debitrice fallita;

ancora falsa applicazione della L. Fall., art. 67, in relazione al mandato a riscuotere crediti o alla cessione dei medesimi.

Resiste l’intimata curatela con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con i primi due motivi, che per ragioni di complementarietà possono essere congiuntamente esaminati, si censura l’impugnata decisione, sotto il profilo della violazione dell’art. 2729 c.c. e del difetto di motivazione in relazione alla ritenuta conoscenza da parte della Banca dello stato di insolvenza della debitrice poi fallita in data (OMISSIS).

Le censure sono in parte fondate.

La ricorrente si duole dell’incongruenza della motivazione che ha dato rilievo ad elementi di fatto che non sarebbero stati noti alla creditrice o che comunque atterrebbero ad eventi verificatisi in epoca posteriore al compimento di buona parte degli atti revocati. La Corte d’appello ha infatti assunto come elemento di prova della conoscenza della effettiva situazione dell’impresa la circostanza che fin dai 1967 la Banca aveva svolto il servizio di cassa per conto della medesima per cui non poteva ignorarne lo stato di grande difficoltà da tempo sussistente e poi formalmente evidenziato nei bilancio relativo all’anno 1994 che ha esposto una perdita di Euro 331.242.812 ma preceduto da ulteriori sintomi quali l’interruzione del pagamento delle retribuzioni, l’esistenza di numerosi procedimenti monitori anche per importi rilevanti e il procedimento di sfratto per morosità dall’immobile aziendale. In realtà tali eventi (a parte il bilancio) non sono accompagnati da forme di pubblicità accessibili a chiunque è non è certo sufficiente a giustificarne la presunzione di conoscenza la motivazione affidata unicamente al rilievo secondo cui gli stessi “non potevano certo sfuggire agli operatori economici del luogo” in mancanza di elementi (quali eventuali risultanze della Centrale rischi attinenti alla debitrice) da cui possa desumersi che i fatti in questione abbiano avuto una qualche notorietà se non pubblica quantomeno nell’ambiente finanziario.

Con il terzo e il quarto motivo, che per la loro complementarietà possono anch’essi essere trattati congiuntamente, si denuncia la falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c. nonchè il difetto di motivazione per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibile, oltre che la produzione in sede di gravame di nuovi documenti costituiti dalla delibera della Banca di apertura di credito nel luglio 1992 e dall’estratto del libro fidi a fronte della difesa della curatela secondo la quale il conto sarebbe non sarebbe stato affidato, anche la prova testimoniale, corredata da documentazione, relativa all’apertura di credito deliberata il 18.3.1991 e confermata nel 1992 avendo i giudici di merito ritenuto insussistente sia il requisito dell’impossibilità di procurarsi e produrre tempestivamente i documenti in primo grado sia quello dell’indispensabilità della prova dedotta.

La censura di violazione di legge, che sarebbe consistita nell’affermazione del principio secondo cui il requisito della precedente indisponibilità della prova dedotta avrebbe dovuto essere fatto oggetto di specifica deduzione, nella specie carente, è infondata in quanto, come risulta dal principio enunciato dalle Sezioni Unite secondo cui “Nel rito ordinario, con riguardo alla produzione di nuovi documenti in grado di appello, l’art. 345 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso che esso fissa sul piano generale il principio della inammissibilità di mezzi di prova nuovi – la cui ammissione, cioè, non sia stata richiesta in precedenza – e, quindi, anche delle produzioni documentali, indicando nello stesso tempo i limiti di tale regola, con il porre in via alternativa i requisiti che tali documenti, al pari degli altri mezzi di prova, devono presentare per poter trovare ingresso in sede di gravame (sempre che essi siano prodotti, a pena di decadenza, mediante specifica indicazione degli stessi nell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado, a meno che la loro formazione non sia successiva e la loro produzione non sia stata resa necessaria in ragione dello sviluppo assunto dal processo): requisiti consistenti nella dimostrazione che le parti non abbiano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero nel convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi per la decisione. Peraltro, nel rito ordinario, risultando il ruolo dei giudice nell’impulso del processo meno incisivo che nel rito del lavoro, l’ammissione di nuovi mezzi di prova ritenuti indispensabili non può comunque prescindere dalla richiesta delle parti” (Sez. U, Sentenza n. 8203 del 20/04/2005), la impossibilità della tempestiva produzione dei documenti costituisce, unitamente a quello alternativo dell’indispensabilità, il limite alla produzione di documenti nuovi in appello e quindi un’eccezione alla regola che, come tale, dev’essere dedotta quale causa giustificatrice della richiesta in modo da consentire a giudice che deve procedere all’ammissione di valutare le motivazioni addotte.

Ugualmente infondata è l’ulteriore censura che addebita al giudice dei merito una carenza di motivazione in ordine appunto al citato requisito dell’indispensabilità dal momento che la Corte aveva già congruamente motivato sul punto relativamente al documento la cui redazione si voleva confermare con la prova testimoniale per cui il richiamo a tali motivazioni (assenza di efficacia ex se probatoria e quindi possibilità di libera valutazione da parte del giudice) non adeguatamente contestate in ricorso è da ritenersi argomentazione congrua anche in ordine al requisito della non indispensabilità intesa come non decisività della prova testimoniale.

Il quinto motivo denuncia la violazione della L. Fall., art. 67, in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel ritenere che i bonifici disposti da terzi in favore della fallita e portati in diminuzione del passivo del conto corrente costituirebbero atti revocabili in quanto aventi funzione solutoria, sostenendosi per contro che, configurandosi una delegazione di pagamento, l’obbligazione della banca si compenserebbe con il suo credito nei confronti della correntista e sarebbe pertanto non revocabile in virtù de disposto della L. Fall., art. 56.

Il motivo è infondato in quanto il principio enunciato ed applicato dalla Corte di merito è conforme alla ormai costante giurisprudenza di legittimità, da cui il Collegio non ravvede ragioni per discostarsi, che ha ripetutamente enunciato il principio secondo cui “In tema di contratti bancari, il bonifico (ossia l’incarico del terzo dato alla banca di accreditare al cliente correntista la somma oggetto della provvista) costituisce un ordine (delegazione) di pagamento che la banca delegata, se accetta, si impegna (verso il delegante) a eseguire. Da tale accettazione non discende, dunque, un’autonoma obbligazione della banca verso il correntista delegatario, trovando lo sviluppo ulteriore dell’operazione la sua causa nel contratto di conto corrente di corrispondenza che implica un mandato generale conferito alla banca dal correntista a eseguire e ricevere pagamenti per conto del cliente, con autorizzazione a far affluire nel conto le somme così acquisite in esecuzione del mandato. Deriva da quanto precede, pertanto, che, secondo il meccanismo proprio del conto corrente, la banca, facendo affluire nel conto passivo il pagamento ricevuto dell’ordinante, non esaurisce il proprio ruolo in quello di mero strumento di pagamento del terzo, ma diventa l’effettiva beneficiaria della rimessa, con l’effetto a essa imputabile (se l’accredito intervenga nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento, ricorrendo il requisito soggettivo della revocatoria fallimentare) di avere alterato la “condicio creditorum” (Cassazione civile, sez. 1, 1/07/2008, n. 17954; nello stesso senso:

Sez. 1, Sentenza n. 4762 del 28/02/2007).

Con il sesto motivo si denuncia ancora falsa applicazione della L. Fall., art. 67, in relazione alla pronuncia della Corte d’appello secondo cui sarebbero revocabili i mandati all’incasso e le cessioni di credito effettuate a fronte di operazioni di erogazione di anticipazioni su fatture in quanto aventi l’effetto di dar luogo ad atti estintivi di debiti preesistenti effettuati con mezzi anomali di pagamento.

Il motivo non è fondato. La Corte di merito ha accertato che al momento in cui le anticipazioni sono state concesse il conto corrente presentava un saldo debitore e che gli importi incassati in esecuzione del mandato sono stati trattenuti dalla banca a deconto della sua esposizione e lo stesso effetto hanno avuto le cessioni dei crediti mentre è del tutto priva di riscontri probatori la contrastante tesi della ricorrente secondo la quale cessioni e mandati all’incasso avrebbero avuto unicamente funzione di garanzia in relazione a crediti contestualmente sorti.

E’ infine inammissibile il settimo motivo con il quale si lamenta l’omessa valutazione di documenti decisivi dal momento che il contenuto di tali documenti (scrittura del 7.10.1991 e clausole riportate nelle richieste di anticipazione) non è stato riportato nel ricorso per cui la Corte non è posta in grado di valutarne la rilevanza.

Il ricorso deve dunque essere accolto nei limiti di cui in motivazione e la causa rinviata al giudice a quo il quale provvedere ad accertare quali siano gli atti revocabili a far tempo dall’accertata insorgenza dello stato di insolvenza da fissarsi alla data della intervenuta conoscenza del bilancio 1994; allo stesso giudice viene rimessa la liquidazione delle spese.

P.Q.M.

la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, rigetta gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa, anche per le spese, alla Corte d’appello di Bologna in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 19 maggio 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2011

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