Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18549 del 13/07/2018


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 18549 Anno 2018
Presidente: TRAVAGLINO GIACOMO
Relatore: PORRECA PAOLO

SENTENZA

sul ricorso 2107-2016 proposto da:
LISI ANTONIO, LISI ARCANGELO, MASTRONUZZI VITA MARIA,
considerati domiciliati ex lege in ROMA, presso la
CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati
e difesi dallavvocato
MARIA PASANISI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –

2018

contro

1033

AZIENDA USL TA l

in persona del

rappresentante pro tempore Avv.
elettivamente

domiciliata

in

1

legale

STEFANO ROSSI,

ROMA,

VIA

CARLO

Data pubblicazione: 13/07/2018

PASSAGLIA 14, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO
COSTANZO, che la rappresenta e difende giusta procura
in calce al controricorso;
– controricorrente non chè contro

INSURANCE EUROPE MILITED

SCWEGLER ASSOCIATED

..

.

INTERNATIONAL LOSS ADJUSTER SRL, SOCIETA’ COOPERATIVA
PRISMA API , ALLIANZ SPA ;
– intimati –

avverso la sentenza n. 145/2015 della CORTE D’APPELLO
SEZ.DIST. DI TARANTO, depositata il 31/03/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 03/04/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO
PORRECA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. CARMELO SGROI che ha concluso per il
rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato MARIA CIARA PASANISI;
udito l’Avvocato MAURIZIO COSTANZO;

PONZETTA GABRIELLA, ITALIANA ASSICURAZIONI SPA , QBE

FATTI DI CAUSA
Antonio Lisi e Vita Maria Mastronuzzi, anche quali genitori esercenti la
potestà del figlio minore Arcangelo Lisi, convenivano in giudizio, per quanto qui
ancora rileva, Gabriella Ponzetta e la AUSL di Taranto, esponendo che il
rappresentato, mentre si trovava ospite di una cooperativa, veniva spintonato
da un compagno di giochi e, a seguito della caduta, riportava la frattura

ospedaliero della struttura citata, il cui medico di turno era la convenuta, la
quale diagnosticava un’algia post traumatica all’anca sinistra, prescrivendo una
terapia antinfiammatoria ma non un trattamento in ospedale. Aggiungevano
che il figlio, a causa dei forti dolori era costretto il giorno seguente al ricovero
presso il locale nosocomio, dove gli era diagnosticata la frattura, trentotto ore
dopo il fatto, costringendolo a una terapia chirurgica plurima, all’esito della
quale la successiva diagnosi di osteonecrosi della testa femorale attestava le
lesioni permanenti cagionate dall’errata diagnosi della Ponzetta e dal
conseguente intempestivo ricovero. Chiedevano il ristoro dei correlati danni
anche non patrimoniali.
Il tribunale, davanti al quale era convenuta anche la cooperativa Prisma
coinvolta e si costituivano altresì le compagnie assicurative chiamate, rigettava
la domanda ritenendo che il ricovero non era stato permesso nell’immediatezza
dall’educatore cui il minore era in quella occasione affidato, e, in ogni caso, che
non sussisteva il nesso causale tra il ritardo nell’intervento e l’insorgere della
osteonecrosi della testa femorale sinistra.
La corte di appello, pronunciando sul gravame principale degli originari
attori, lo respingeva, osservando che pur ammettendosi l’irrilevanza
dell’opposizione al ricovero dell’educatore non risultato titolare di poteri
rappresentativi e non emergendo una corretta informazione della dottoressa
Ponzetta, non era stato provato il nesso causale con il dedotto ritardo, atteso
che la perizia officiosa di prime cure aveva indicato che, nel caso di frattura
sottocapitata del femore, il rischio di necrosi era molto elevato per
l’interruzione della già scarsa vascolarizzazione.
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mediale del collo femorale sinistro, cui seguiva un intervento del servizio

Avverso questa decisione ricorrono per cassazione Antonio Lisi, Vita Maria
Mastronuzzi e Arcangelo Lisi, nelle more divenuto maggiorenne, formulando tre
motivi e depositando memoria.
Resiste con controricorso l’Azienda Sanitaria Locale di Taranto, mentre
non hanno svolto difese gli altri intimati.
RAGIONI DELLA DECISIONE

applicazione degli artt. 1218, 1228, 1176, cod. civ., poiché la corte di appello
avrebbe errato nell’imputare l’onere della prova del nesso causale al
danneggiato, laddove neppure la consulenza giudiziale aveva accertato
eventuali concause naturali da sole sufficienti a determinare la necrosi della
testa femorale.
Con il secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione degli artt. 2700
e 2722, cod. civ., poiché la corte di appello avrebbe errato nel ritenere, in forza
di prove orali peraltro inattendibili, che il ricovero, pur sollecitato dalla
Ponzetta, fosse mancato per l’opposizione dell’educatore, in contrasto con il
documento fidefacente costituito dalla scheda d’intervento del servizio
ospedaliero giunto “in loco” al momento del fatto.
Con il terzo motivo di ricorso si prospetta l’omesso esame di un fatto
decisivo e discusso, deducendo che:
a) la consulenza officiosa non aveva accertato la correttezza della
condotta della Ponzetta, e aveva esaminato il nesso tra lesione ed
evento o tutt’al più ritardo nell’intervento chirurgico, e non tra
condotta ed evento;
b) il consulente aveva proceduto secondo un errato criterio del “meno
probabile che non”, riferito alla probabilità che la necrosi si innestasse
anche in presenza di fratture trattate, e non alla preponderanza
probabilistica tra condotta ed evento;
c) il consulente non aveva esaminato le deduzioni della consulenza di
parte depositata, peraltro senza accordare la reiterata richiesta di
chiarimenti;
4

1. Con il primo motivo di ricorso si prospetta la violazione e falsa

d) non era stato dato luogo, pertanto, al necessario accertamento sulla
relazione eziologica tra condotta omissiva ed evento lesivo;
e) erano state erroneamente valutate le risultanze peritali di parte che
affermavano la correlazione causale tra necrosi e frattura, sulla
premessa che l’osteonecrosi avascolare doveva considerarsi
determinata dal ritardo in parola o dalla mancata consolidazione,

f) le conclusioni del perito di ufficio erano apodittiche sul punto;
g) era vero che la stessa consulenza di parte aveva affermato l’alto
rischio di necrosi in casi come quello di specie, ma non era stata
esaminata, in chiave probabilistica o di perdita di “chance”, la
rilevanza concausale del ritardo ovvero del differimento dell’intervento
di osteosintesi, fermo che il mancato accertamento di fatti
astrattamente idonei a escludere il nesso causale non poteva che
riverberare a carico del danneggiato;
h) era stato quindi omesso l’esame sulla verosimiglianza, probabilità o
anche solo possibilità che l’omissione descritta fosse stata causa
dell’evento lesivo.
2. Il primo motivo di ricorso è infondato.

Come chiarito da questa Corte di recente (Cass., 07/12/2017, n. 29315),
la giurisprudenza di legittimità si è progressivamente attestata nel senso che in
tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente
dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del
sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del
danno.
Va innanzitutto chiarito che nei giudizi di risarcimento del danno
derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento
del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di
causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti,
sicché la sussistenza della prima non comporta, di per sé, la dimostrazione del
secondo e viceversa.
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tramite immobilizzazione, della frattura stessa;

L’art. 1218, cod. civ., solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma
non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa
del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del
debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. E infatti:
la

previsione

dell’art.

1218

cod.

civ.

trova

giustificazione

nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente,

dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla
base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui
essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla
(Cass., Sez. U., 30/10/2001, n. 13533);
tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso
causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal
creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione
dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere,
quindi, il principio generale espresso nell’art. 2697, cod. civ., che
onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il
creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi
della propria pretesa;
ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale
(attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o
inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia
all’individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento
lesivo);
trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e
anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non
c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una
“prova liberatoria” rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto
accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza
della condotta;

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o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la prova “positiva”

né può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218, cod. civ.
faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare
«che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità
della prestazione derivante da causa a lui non imputabile»: infatti,
come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass.
Cass., 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla «non

delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti «tema di prova della
parte debitrice», e concerne un «ciclo causale» che è del tutto distinto
da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento
mancato o inesatto.
Da quanto esposto deriva, come anticipato, che nei giudizi di
risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore, paziente
danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del
medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto
dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è
stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la
conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto
nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.
Questa conclusione non si pone in contrasto con quanto affermato sin da
Cass., Sez. U., 11/01/2008, n. 577, secondo cui «in tema di responsabilità
contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da
contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore,
paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il
contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare
l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno
lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale
inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato
eziologicamente rilevante». Questo principio venne infatti affermato a fronte di
una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia
l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sé, in
7

imputabilità dell’impossibilità di adempiere», che si colloca nell’ambito

assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la
presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della
prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del
nesso causale, sicché non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire
una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui
all’art. 2697, secondo comma, cod. civ., e non la prova liberatoria richiesta

2.1. Nella fattispecie qui in scrutinio, pertanto, la corte territoriale non ha
violato alcuna delle norme indicate nel motivo qui scrutinato e fondato sulla
tesi opposta.
Con riferimento a quanto indicato in appendice della censura, deve
evidenziarsi che la corte di merito ha aderito alle conclusioni della consulenza
officiosa di prime cure che ha esplicitamente escluso la sussistenza del nesso in
parola, in relazione all’alto tasso probabilistico di tale complicanza nell’ipotesi
di frattura sottocapitata del femore, specie considerata l’età in crescita della
vittima, sicché la conclusione è diametralmente opposta, oltre che corretta
nella cornice ermeneutica sopra ricostruita, all’affermazione per cui non
sarebbero state accertate «eventuali concause naturali da sole sufficienti a
determinare l’evento lesivo» (pag. 7 del ricorso, terzo e quarto rigo).
3. Il terzo motivo di ricorso è in parte infondato, in parte inammissibile,
con assorbimento del secondo.
In primo luogo deve premettersi che l’accertamento della natura colposa
della condotta non ha logicamente rilevanza quando emerge quello della
mancanza di nesso causale. Venendo meno l’elemento oggettivo, l’analisi della
sussistenza di quello soggettivo resta logicamente assorbita.
Inoltre l’accertamento ha avuto correttamente ad oggetto il rapporto tra
condotta e danno, e il ritardo non è altro che il primo effetto del ciclo causale
che conduce dalla prima al secondo.
In secondo luogo va rilevato che la corte territoriale, aderendo alle
conclusioni della consulenza d’ufficio, ha correttamente applicato il criterio del
“più probabile che non” (e non solo possibilistico come si allude alla fine della
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dall’art. 1218, cod. civ.

censura), atteso che ha escluso il riscontro di tale parametro tra condotta e
danno, posto l’alto rischio di insorgenza della necrosi spiegato nel senso che
l’epifisi femorale è zona poco vascolarizzata e alla frattura in questione si
accompagna necessariamente l’interruzione della già ridotta vascolarizzazione
(pag. 11, primo capoverso, della sentenza impugnata). La corte di merito,
come in parte anticipato, ha evidenziato che anche la perizia di parte attrice

femorale nei giovani in accrescimento, anche adeguatamente trattate,
rappresentate quasi esclusivamente dalla osteonecrosi avascolare, stimabile
tra il 12 e l’86 per cento (stessa pagina della decisione). Sicché non poteva
dirsi sussistente la preponderanza probabilistica rispetto al ritardo di poco più
di un giorno nell’intervento di osteosintesi, cagionato dalla mancata
prescrizione della dottoressa Ponzetta (pagg. 11-12 della sentenza). Si tratta
di un rilievo al riguardo assorbente proprio perché formulato pure con
riferimento all’adeguato trattamento.
Deve quindi evidenziarsi che non si è di fronte a una causa ignota delle
lesioni, bensì a una ricostruzione eziologica che esclude la sussistenza della
prova di una rilevanza concausale della condotta imputata al danneggiante.
In questo contesto non risulta alcun omesso esame dei fatti rilevanti nel
senso normativo imputabile alla categoria del vizio dedotto.
Al riguardo va infatti precisato che alla fattispecie è applicabile la nuova
previsione di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, introdotta dall’art. 54 del
decreto-legge 22 giugno 2012 n. 83, convertito dalla legge 7 agosto 2012 n.
134, che dev’essere interpretata come riduzione al “minimo costituzionale” del
sindacato di legittimità sulla motivazione, sicché in cassazione è denunciabile con ipotesi che si converte in violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, cod.
proc. civ. dando luogo a nullità della sentenza – solo l’anomalia motivazionale
che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto
attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo
della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze
processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi
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aveva confermato l’elevatissimo rischio di complicanze nelle fratture del collo

sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”; nel
“contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, ossia in manifeste e
irresolubili contraddizioni, nonché nella “motivazione perplessa e
obiettivamente incomprensibile”; esclusa qualunque rilevanza di semplici
insufficienze o contraddittorietà, al di fuori delle quali il vizio di motivazione
può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia

soluzione della controversia, fermo restando che l’omesso esame di elementi
istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo,
ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie
(Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., 12/10/2017, n. 23940).
Al di fuori di tale perimetro residuano, come nel caso, solo inammissibili
richieste di rilettura – per contrapposizione a quella contenuta nella decisione
gravata – delle risultanze (ovvero della rilevanza delle richieste di rinnovazioni)
istruttorie, in specie, nell’ipotesi qui in scrutinio, quelle peritali. Fermo
restando, quanto a queste ultime, che non risultano compiutamente e dunque
idoneamente trascritte le invocate deduzioni peritali di parte contrarie, con
contestuale vizio di inammissibilità per carenza di autosufficienza e quindi
specificità del motivo.
3.1. È opportuno precisare, stante il riferimento alla perdita di “chance”,
che anche il caso di danno da perdita della “chance” risponde all’accertamento
del nesso di causalità secondo la regola “di funzione”, cioè probatoria, del “più
probabile che non”, sicché, in questo caso, la ricorrenza del nesso in parola
può affermarsi solo allorché il giudice accerti che quella possibilità si sarebbe
verificata “più probabilmente che non” (in questo senso la nomofilachia è
chiarita in Cass., 17/09/2013, n. 21255, specie alle pagg. 129-131, e Cass.,
27/03/2014, n. 7195, specie alle pagg. 15-16).
In altri termini, l’inciso della censura, sul punto, mescolando peraltro
inestricabilmente, e quindi inammissibilmente, al vizio motivazionale profili
attinenti alla corretta applicazione del regime normativo causale (Cass.,
20/09/2013, n. 21611; Cass., Sez. U., 06/05/2015, n. 9100), allude a un
10

formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa

tema, quella della perdita di “chance”, confuso con quello del nesso causale,
che soggiace al medesimo regime anche rispetto al pregiudizio consistente
nella perdita in parola.
4. Spese secondo soccombenza.
Non si applica la disposizione di cui all’art. 13, comma 1-quater, del
d.P.R. n. 115 del 2002, stante la risultante ammissione al patrocinio a spese

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle
spese processuali dell’Azienda Sanitaria intimata liquidate in euro 4.700,00,
oltre a euro 200,00 per esborsi, oltre al 15 per cento per spese forfettarie oltre
accessori legali.
Così deciso in Roma il giorno 3 aprile 2018.

dello Stato (cfr., ad esempio, Cass., 22/03/2017, n. 7368).

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