Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18546 del 21/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 21/09/2016, (ud. 24/06/2016, dep. 21/09/2016), n.18546

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20793-2015 proposto da:

C.C., rappresentato e difeso, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avvocato Giorgio Calmata;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– resistente –

avverso il decreto n. 1290/2015 della Corte d’appello di Catania,

depositato in data 10 luglio 2015;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24

giugno 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Giorgio Cannata.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Ritenuto che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Catania in data 8 novembre 2011, C.C. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento dell’indennizzo per la irragionevole durata di una procedura fallimentare, al passivo della quale era stato ammesso il (OMISSIS), a seguito di istanza presentata il 17 ottobre 2014; procedura ancora pendente alla data della domanda;

che l’adita Corte d’appello rigettava il ricorso;

che il ricorso per cassazione proposto dal C. veniva accolto da questa Corte con sentenza n. 28497 del 2013;

che, riassunto il giudizio con atto del 23 gennaio 2014, la Corte d’appello di Catania, dato atto che la procedura fallimentare era ancora pendente, riteneva che la procedura stessa avrebbe dovuto essere conclusa in cinque anni, accertava un ritardo di circa sedici anni, in relazione al quale liquidava un indennizzo di Euro 8.000,00, facendo applicazione in via analogica dei parametri di indennizzo introdotti dal legislatore del 2012;

che per la cassazione di questo decreto C.C. ha proposto ricorso sulla base di due motivi;

che l’intimato Ministero non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione;

che il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Considerato che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con il primo motivo di ricorso il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 2 e 3, e dell’art. 6 della CEDU, in relazione alla L. n. 134 del 2012 e all’art. 11 preleggi, comma 1, e art. 12 preleggi, dolendosi che la Corte d’appello abbia liquidato l’indennizzo secondo il criterio introdotto dal legislatore del 2012, ritenuto applicabile in via analogica;

che con il secondo motivo il ricorrente denuncia l’omessa pronuncia della Corte d’appello sulla domanda, formulata sia nell’atto introduttivo che in sede di riassunzione, di danno patrimoniale, determinato in Euro 3.000,00 in via equitativa, avuto riguardo alla perdita degli interessi legali sulla somma ammessa al passivo e certamente non più ottenibili ai sensi della L. Fall., artt. 54 e 55;

che il primo motivo di ricorso è infondato;

che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale dev’essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2010; Cass. n. 12461 del 2015);

che, d’altra parte, la presente controversia non è soggetta, ragione temporis, all’applicazione delle disposizioni introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla L. n. 134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione;

che alle disposizioni introdotte nel 2012 non può neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non vi è nulla nel D.L. n. 83 del 2012, che possa indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva, avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione per la entrata in vigore della nuova disciplina (Cass. n. 12665 del 2015);

che, come di recente ribadito e chiarito (Cass. n. 10056 del 2015), il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 preleggi, solo quando manchi nell’ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n. 2656 del 2015; Cass. n. 9852 del 2002);

che nel caso in esame non ricorre alcun vuoto normativo, atteso che la L. n. 89 del 2001, nella formulazione precedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito nella L. n. 134 del 2012, per come costantemente interpretata ed applicata non pone all’equa riparazione alcun limite fisso derivante dalla posta in gioco nel processo presupposto;

che, tuttavia, non può non rilevarsi come questa Corte, nella vigenza della disciplina della L. n. 89 del 2001 anteriore alle modifiche introdotte nel 2012, abbia ritenuto che il criterio di 500,00 Euro per anno possa costituire un adeguato ristoro, segnatamente nelle procedure fallimentari (Cass. n. 16311 del 2014);

che, dunque, il decreto impugnato, pur facendo erroneo riferimento ad una applicazione analogica di una normativa in realtà non applicabile, è pervenuto ad una liquidazione dell’indennizzo che non può di per sè essere ritenuta irragionevole e inidonea ad assicurare un adeguato ristoro;

che, dunque, corretta la motivazione del decreto impugnato nei termini ora indicati, il primo motivo di ricorso risulta infondato;

che il secondo motivo è infondato;

che, invero, pur non potendosi disconoscere che il decreto impugnato non presenti alcuna statuizione in ordine al reclamato danno patrimoniale, la rilevata assenza di pronuncia non comporta la cassazione del decreto impugnato, in considerazione del fatto che la domanda sulla quale si deduce la insussistenza di una statuizione deve ritenersi infondata in diritto;

che questa Corte ha infatti affermato che da mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto” (Cass. n. 28663 del 2013);

che, nella specie, deve ritenersi acquisito alla giurisprudenza di questa Corte che, relativamente al danno patrimoniale, esso è diverso da quello connesso alla vicenda giudiziaria per la quale la stessa è dedotta (Cass. n. 17999 del 2005; Cass. n. 13741 del 2003);

che, invero, “in forza del principio della causalità adeguata il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove il fallimento del debitore, sopravvenuto nel corso del procedimento rivolto all’accertamento del diritto del creditore, e la conseguente difficoltà di quest’ultimo di ottenere il soddisfacimento interrompe detta sequenza assumendo – quale fattore idoneo a produrre, da solo, l’evento – rilevanza esclusiva ed assorbente nella causazione del danno lamentato trattandosi di fatto autonomo, eccezionale ed atipico rispetto alla serie causale già in atto, che comporta la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni” (Cass. n. 21391 del 2005; Cass. n. 18456 del 2007);

che, in particolare, questo danno non è (e non può essere) rappresentato dal bene della vita dedotto nel processo irragionevolmente lungo (Cass. n. 17999 del 2005; Cass. n. 16837 del 2010), ma è costituito dallo specifico pregiudizio derivato alla parte dal fatto che la controversia si è irragionevolmente protratta nel tempo (Cass., n. 6163 del 2003, nonchè le altre decisioni citate), occorrendo mantenere “netta la distinzione tra l’oggetto di detta causa e quello del giudizio di equa riparazione, il quale non può costituire, neppure indirettamente, un mezzo per replicare il merito della precedente controversia” (Cass. n. 6163 del 2003, cit.; Cass. n. 17999 del 2005);

che nella sentenza da ultimo citata si è anche chiarito che il danno risarcibile è esclusivamente quello causalmente riconducibile alla violazione della CEDU, occorrendo, come ha precisato la Corte europea dei diritti dell’uomo “un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura ed il danno” (sentenza 16 maggio 2002, sul ricorso n. 41424/98; cfr. anche sentenza 28 marzo 2002, sul ricorso n. 47479/99); che, ancora, si è affermato che la natura dell’equa riparazione quale obbligazione indennitaria derivante da un’attività lecita dello Stato – apparato, se rende irrilevante l’indagine in ordine al profilo soggettivo dell’agente, non esclude che debba essere applicato “il principio della causalità adeguata, principio cardine del nostro ordinamento e recepito dall’art. 41 c.p., comma 2, idoneo ad accertare se quel danno che si lamenti sia riconducibile alla “condotta” o al fatto ipotizzato come generatore (vedi Cass. n. 17999 del 2005, citata, e pronunce ivi richiamate);

che deve quindi ritenersi danno risarcibile soltanto quello che costituisce conseguenza immediata e diretta del fatto causativo (ex art. 1223 c.c., richiamato dalla L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 3, attraverso il rinvio all’art. 2056 c.c., Cass., n. 123 del 2004), in quanto sia ricollegabile al superamento del termine e trovi appunto causa nel non ragionevole ritardo nella definizione del processo (Cass., n. 1094 del 2005);

che, con specifico riferimento alla posizione del creditore ammesso al passivo, nella citata sentenza n. 17999 del 2005 si è affermato che il danno patrimoniale non può consistere “nella somma che il creditore vantava nei confronti del fallito e che egli non abbia potuto recuperare nel caso di mancanza di attivo, ovvero di attivo insufficiente”; affermazione, questa, che, a prescindere da ogni considerazione in ordine alla richiesta di liquidazione equitativa del danno formulata dal ricorrente, appare del tutto applicabile anche con riferimento allo specifico danno allegato dal ricorrente (mancata percezione di interessi sul credito ammesso, divenuto infruttifero per effetto della L. Fall., artt. 54 e 55);

che, in conclusione, il ricorso deve essere rigettato;

che non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, atteso che la difesa erariale non ha resistito con controricorso e non ha partecipato all’udienza di discussione;

che, risultando dagli atri del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al testo unico approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 24 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2016

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