Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18540 del 10/07/2019

Cassazione civile sez. I, 10/07/2019, (ud. 12/06/2019, dep. 10/07/2019), n.18540

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25118/2018 proposto da:

W.S., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Consoli 62

presso lo studio dell’avvocato Enrica Inghilleri e rappresentata e

difesa dall’avvocato Lucia Paolinelli, in forza di procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di ANCONA, depositato il 16/07/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

12/06/2019 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso ex art. 35 bis D.Lgs. n.25/2008, depositato il 7/12/2017, W.S., cittadina nigeriana, ha impugnato dinanzi al Tribunale di Ancona – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE – il provvedimento con cui la Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme del riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

La ricorrente, nata a (OMISSIS), e trasferitasi ancora bambina con i genitori a (OMISSIS), gruppo etnico benin, cristiana pentecostale, parrucchiera, aveva narrato di essersi sposata con rito tradizionale con W.P. e di aver risieduto con lui in (OMISSIS), per quattro anni; di aver un figlio, Israel, nato nel 2014, con lei in Italia; che ad (OMISSIS) era in atto da 21 anni uno scontro tribale, a causa di un terreno con gli abitanti di (OMISSIS), che, nel tempo, aveva causato la morte di oltre mille persone; che la sera del 23/6/2014 era stata svegliata dal marito e invitata a prendere subito il bambino e a scappare con lui nella boscaglia perchè gli avversari erano venuti a cercare il capo dei giovani del villaggio o il suo vice (che era appunto suo marito); che quindi erano fuggiti, prima a (OMISSIS), poi in (OMISSIS); che un giorno il marito era stato portato via dagli (OMISSIS) e non lo aveva più rivisto; di aver quindi lavorato come cameriera e lavapiatti presso una conoscente che gestiva un ristorante; di aver appreso quindi, attraverso la sorella maggiore, che il marito era vivo e in Italia; di essere quindi partita alla volta dell’Italia per potersi ricongiungere a lui.

Con decreto del 16/7/2018 il Tribunale di Ancona ha rigettato il ricorso, negando la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di qualsiasi forma di protezione.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso W.S. con atto notificato il 14/8/2018, con il supporto di un motivo, piuttosto articolato.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, la ricorrente deduce violazione di legge con riferimento all’art. 1 della Convenzione di Ginevra, al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi da 1 a 5, e art. 14, al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8,commi 3 e 11, con riferimento alla richiesta della protezione internazionale, e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32.

1.1. Il Tribunale aveva ritenuto che il racconto della W. relativo alla vicenda patita con suo figlio, riguardasse un problema strettamente privato, mentre la protezione sussidiaria era stata negata non potendosi apprezzare nella situazione del Paese di origine un rischio effettivo di danno grave in caso di rientro.

Era mancato qualsiasi approfondimento plausibile sulla vicenda narrata dalla richiedente e sul contesto del Paese di origine e in particolare con riferimento al conflitto etnico religioso in atto in Nigeria con il rischio di grave compromissione dei diritti umani fondamentali, oltre a quelli del figlio minore.

1.2. Il motivo non coglie il segno, difettando così di pertinenza rispetto alla ratio decidendi, fondata sul carattere privato della vicenda riferita e sull’assenza di una minaccia specifica nei confronti della ricorrente, oltre che sul carattere isolato dell’episodio riferito.

1.3. La ricorrente aggiunge che il Tribunale aveva indicato le fonti utilizzate per formulare i suoi assunti ma ne aveva tratto conclusioni opposte alle risultanze.

Era poi mancata la necessaria attività informativa sulla situazione del Paese di origine in ordine al conflitto armato interno rilevante D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), ovvero ne erano stati travisati o distorti i contenuti, vizio tanto più grave in presenza del figlio minore; il Tribunale, pur avendo descritto una situazione interna della Nigeria assai problematica e resa complessa dalla presenza di attentati e di violenza generalizzata anche nelle aree di provenienza, aveva poi negato la gravità delle conseguenze per la popolazione, escludendo il rischio in caso di rimpatrio.

1.4. La ricorrente lungi dall’argomentare la prospettata censura per violazione di legge, lamenta la valutazione delle risultanze informative raccolte dal Tribunale (COI Country of origin informations), così richiedendo alla Corte di legittimità, del tutto inammissibilmente un confronto diretto con le prove volto a ribaltare il giudizio sul fatto espresso dal Giudice del merito, e deducendo un vizio motivazionale non consentito dalla legislazione vigente.

il vizio di nullità della sentenza e del procedimento per omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c., presuppone che il giudice non abbia adottato alcuna statuizione circa una domanda o una eccezione ritualmente proposte dalle parti, e non già che non abbia considerato un certo fatto storico nell’ambito della motivazione della decisione; in tal caso, ove ricorrano tutti i presupposti richiesti dalla legge per la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, che ha ridotto al “minimo costituzionale” la possibilità di denuncia del vizio motivazionale in sede di legittimità, il ricorrente deve dedurre e dimostrare l’omesso esame di un fatto decisivo controverso fra le parti.

1.5. Aggiunge la ricorrente che nello sviluppo argomentativo del decreto mancava l’autonomo esame dei parametri di credibilità delle dichiarazioni della ricorrente in violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3.

Censura questa non pertinente rispetto alla ratio decidendi che non ha espresso dubbi sulla credibilità delle dichiarazioni della sig.ra W..

1.6. La ricorrente sostiene che non rilevava – diversamente da quanto osservato dal Tribunale – la mancata menzione da parte della W. del timore di essere coinvolta in episodi di violenza a sfondo religioso riportati dagli Osservatori, poichè non sussisteva un obbligo di qualificazione giuridica da parte del richiedente asilo.

1.7. La censura è fuori fuoco e si dirige contro una notazione incidentale non decisiva del Tribunale, che, a pagina 4, ha rimarcato che la ricorrente non aveva fatto menzione di timori di essere coinvolta in situazioni di tal genere.

A parte il rilievo che se l’obbligo del giudice di cooperazione istruttoria se affranca almeno in parte il richiedente asilo dall’onere della prova, non lo esonera dall’onere di allegazione dei fatti rilevanti per il giudizio, rispetto al quale non soffre di alcuna limitazione conseguente alle sue personali condizioni di profugo, risulta assorbente che la motivazione centrale opposta dal Tribunale è imperniata sull’assenza di un rischio di violenza generalizzata e di attentati a matrice religiosa nella zona sud-est del paese da cui proviene la signora W..

1.8. Secondo la ricorrente non era giustificato l’approccio settoriale nella valutazione del pericolo presente nell’area di provenienza, seguito dal Tribunale, stante il mancato richiamo nel D.Lgs. n. 18 del 2014, della possibilità per gli Stati membri prevista dalla Direttiva 2011/95/UE di escludere dalla protezione chi potesse recarsi in altra parte sicura del suo Paese per sottrarsi al pericolo esistente nella sua zona di provenienza.

1.9. L’equivoco è evidente.

La ricorrente lamenta la violazione dell’art. 8 della Direttiva 13/12/2011 n. 95, corrispondente all’art. 8 della Direttiva 2004/83 poichè tale disposizione, non trasfusa nella disciplina nazionale, non consente di valutare la sicurezza di particolari aree del Paese per escludere il riconoscimento della protezione internazionale.

La ricorrente sembra sostenere, cioè, che la valutazione di pericolosità non potrebbe essere neutralizzata sulla base della settorialità dell’approccio e dell’asserita presenza del rischio solo in certe zone del Paese.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel dare attuazione alla direttiva 2004/83/Ce con il D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 25, il legislatore si è avvalso della facoltà, prevista dall’art. 8, di non escludere la protezione dello straniero, che ne abbia fatto domanda, per il solo fatto della ragionevole possibilità di trasferimento in altra parte del paese di origine, nella quale non abbia fondato motivo di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire gravi danni, non può essere rigettato la domanda di protezione per il solo fatto della ravvisata possibilità di trasferimento (Sez. 6, 16/02/2012, n. 2294; Sez.6, 9/4/2014 n. 8399; Sez. 1, 27/10/2015 n. 21903).

Se è vero quindi che per la giurisprudenza della Corte la settorialità della situazione di rischio di danno grave nella regione o area di provenienza interna dello stato di origine del richiedente asilo di origine non preclude l’accesso alla protezione per la sola possibilità di trasferirsi in altra area o regione del Paese, priva di rischi analoghi, non vale certamente il contrario: non è possibile, cioè, ottenere accesso alla protezione se si proviene da una regione o area interna sicura del Paese di origine, per il solo fatto che vi siano nello stesso Paese anche altre aree o regioni invece insicure.

1.10. Quanto alla protezione umanitaria, la ricorrente deduce che le condizioni attuali del Paese di origine dovevano essere valutate anche in quella più limitata prospettiva, stante la natura atipica e non standardizzata di tale residuale forma di protezione.

Censura questa totalmente generica che non si confronta con l’approfondita motivazione opposta al riguardo dal Tribunale.

1.11. La ricorrente infine sostiene che un provvedimento provvisorio di accoglimento a fondamento umanitario poteva trovare giustificazione nelle condizioni personali della richiedente (madre di bambino minore) oltre che nella generica pericolosità della zona di provenienza.

L’affermazione del Tribunale, secondo cui il permesso umanitario non poteva essere concesso sulla base della considerazione unitaria del nucleo madre-figlio e occorreva semmai invocare la tutela prevista dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, comma 4, (autorizzazione alla permanenza per gravi motivi legati allo sviluppo psicofisico del minore), era viziata da ultrapetizione, per il riferimento a una normativa diversa mai applicata al caso di specie.

1.12. Tale obiezione è destituita di fondamento, poichè il Tribunale non ha affatto pronunciato su di una domanda fondata sul predetto art. 31, comma 4, ma si è limitato ad argomentare in relazione a tale istituto, per rafforzare le proprie considerazioni circa l’insufficienza della qualità di madre di minore presente sul territorio italiano per giustificare la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari, osservando che la tutela del minore profugo era affidata ad altri istituti, tra i quali l’autorizzazione alla permanenza sul territorio nazionale del genitore affidatario nell’interesse del minore D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 31.

1.13. Come ricordato dal Tribunale, tale norma prevede che l’espulsione di un minore straniero il provvedimento possa essere adottato solo a condizione che il provvedimento stesso non comporti un rischio di danni gravi per il minore, su richiesta del Questore, dal Tribunale per i minorenni; quanto al genitore, l’art. 31 prevede che il Tribunale per i minorenni, per gravi motivi connessi con lo sviluppo psicofisico e tenuto conto dell’età e delle condizioni di salute del minore che si trova nel territorio italiano, possa autorizzare l’ingresso o la permanenza del familiare, per un periodo di tempo determinato, anche in deroga alle altre disposizioni del testo unico.

1.14. Le ulteriori considerazioni esposte dalla ricorrente sono prove di rilevanza giuridica e attengono a recriminazioni di puro fatto, laddove deduce che il ricorso alla procedura di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 31, sia del tutto sconsigliabile poichè nelle more mancherebbe ogni possibile tutela in termini di permesso di soggiorno provvisorio e assistenza sanitaria, e implicherebbe la cessazione dell’accoglienza in struttura convenzionata.

1.15. La ricorrente assume che la qualità di madre con figlio minore la faceva rientrare a pieno titolo nella categoria dei soggetti vulnerabili meritevoli della concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

L’affermazione è potenzialmente condivisibile e non è stata adeguatamente valutata dal Tribunale.

E’ pur vero che il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, indica come soggetti non espellibili gli stranieri minori di anni diciotto, salvo il diritto a seguire il genitore o l’affidatario espulsi, e le donne in stato di gravidanza o nei sei mesi successivi alla nascita del figlio, implicitamente negando rilievo alla mera veste di genitore affidatario di figlio minore sul territorio italiano.

Tuttavia il comma 2 bis dello stesso articolo (inserito dal D.L. 23 giugno 2011, n. 89, art. 3, comma 1, lett. g), n. 2), convertito, con modificazioni, dalla L. 2 agosto 2011, n. 129) dispone, tra l’altro, che il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione dei componenti di famiglie monoparentali con figli minori debbano essere effettuate solo con modalità compatibili con le singole situazioni personali, debitamente accertate.

Per altro verso, anche il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 11, lett. h bis), (come modificato ad opera dal D.Lgs. 18 agosto 2015, n. 142, art. 25, comma 1, lett. b), n. 1)) definisce le “persone vulnerabili”, includendovi, oltre ai minori, ai minori non accompagnati, ai disabili, agli anziani, alle donne in stato di gravidanza, alle persone affette da gravi malattie o da disturbi mentali, alle vittime della tratta di esseri umani, alle persone che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale, alle vittime di mutilazioni genitali, anche i “genitori singoli con figli minori”.

Tale disposizione è stata emanata in attuazione della Direttiva 26/06/2013 n. 332013/33/CE, il cui art. 21 impone agli Stati membri di tener conto nelle misure nazionali di attuazione ella specifica situazione di persone vulnerabili includendo nella “qualifica”, fra gli altri, i genitori singoli con figli minori.

Si tratta quindi di una situazione di vulnerabilità normativamente tipizzata, potenzialmente rilevante ai fini della protezione di carattere umanitario.

Orbene la ricorrente è sicuramente presente sul territorio italiano con il figlio minore; nessun accertamento risulta compiuto circa le sorti del marito (che la W. aveva sperato di ritrovare in Italia) e la sua collocazione, fatto questo rilevante ai fini del riconoscimento alla ricorrente della veste di genitore singolo con figlio minore.

In ogni caso, poichè nella presente fattispecie siamo di fronte a una situazione di vulnerabilità tipizzata di matrice Euro-unitaria e recepita nell’ordinamento interno da norme tuttora vigenti, si impone la cassazione del provvedimento impugnato con rinvio al Tribunale di Ancona in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte accoglie il motivo di ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa il provvedimento impugnato e rinvia la causa al Tribunale di Ancona, Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 luglio 2019

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