Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18528 del 10/08/2010

Cassazione civile sez. trib., 10/08/2010, (ud. 17/06/2010, dep. 10/08/2010), n.18528

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.S. e D.S.S., residenti in (OMISSIS)

rappresentati e difesi per procura a margine del ricorso

dall’Avvocato Carmine Farace, elettivamente domiciliati presso lo

studio dell’Avvocato Machetta Marco in Roma, via degli Scipioni n.

110;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi n. 12.

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 93/37/05 della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, depositata il 17 giugno 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17

giugno 2010 dal Consigliere relatore Dott. Mario Bertuzzi;

Viste le conclusioni del P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. De Nunzio Vladimiro, che ha chiesto che il ricorso sia

dichiarato inammissibile.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto notificato il 4.5.2006, D.S. e D.S. S. ricorrono, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 93/37/05 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 17 giugno 2005, che, in riforma della pronuncia, di primo grado, aveva rigettato il ricorso da loro proposto per l’annullamento dell’avviso di rettifica che aveva liquidato un importo maggiore a titolo di imposta di registro in relazione all’atto di compravendita immobiliare da essi stipulato in data 21.1.2000. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due motivi di ricorso sono così formulati:

il primo denunzia “Errore sull’applicazione della norma di legge” assumendo che l’avviso di rettifica impugnato, essendo fondato su generici apprezzamenti circa l’ubicazione e l’utilizzazione dell’immobile, appare sorretto da una motivazione soltanto apparente ed è pertanto illegittimo; il secondo motivo lamenta “Errata interpretazione della norma di legge”, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto inapplicabile nel caso di specie la risoluzione n. 89 “perchè il tutto è disciplinato dalla L. 865 del 1971, art. 35” disattendendo erroneamente il principio, affermato anche in giurisprudenza, che laddove il corrispettivo della vendita, come nel caso di specie, sia determinato legislativamente, l’Ufficio finanziario non può procedere a rettifica del valore; si osserva, infatti, che “Nel caso che ci occupa il prezzo è determinato per legge in base a quanto disposto dalla Convenzione tra CIMEP Comune di Monza, (ai sensi della L. 22 otto 1971, n. 865, art. 35, comma 7) e la “Per stare insieme Società Cooperativa Edilizia a responsabilità limitata”, stipulata con atto, in data 27.11.1991, n. 55994/3319 di rep. Notaio Ciro De Vincenzo (all. 5)”. Il ricorso contesta inoltre l’affermazione della sentenza secondo cui “Nell’atto di vendita notarile si fa riferimento al prezzo di prima assegnazione ma non si indica il criterio di determinazione dello stesso per verificare se esso coincide con quello stabilito dalla L. n. 560 del 1993 nè si fa cenno della cifra” assumendo che essa “è imprecisa e fuorviante, in quanto nell’atto di compravendita sono richiamate e specificate sia la Convenzione con il CIMEP (cfr. pag. 2 atto di vendita) sia la metodologia usata (nei patti specifici) di determinazione delle rivendite successive alla prima assegnazione (cfr. pag. 7 atto di vendita”; si aggiunge che nel giudizio di primo grado era stata anche prodotta la nota di un geometra che illustrava il metodo di calcolo del prezzo e “certificazione del Comune di Monza per i requisiti dell’acquirente D.S.S.”. L’affermazione della sentenza che “allegata alla controversia non vi è la convenzione nè tanto meno un estratto di essa quindi non rimane che applicare la L. n. 560, art. 1, comma 10” non porta a giustificare, ad avviso dei ricorrenti, la statuizione di rigetto del ricorso, la quale “altro non è se non l’acritico accoglimento dell’accertamento senza calcolo ai sensi della L. n. 560 del 1993, art. 1, comma 10” operato dall’Ufficio finanziario.

In via pregiudiziale ed assorbente rispetto all’esame dei motivi ed in accoglimento dell’eccezione sollevata dall’Agenzia delle Entrate, il ricorso va dichiarato inammissibile per omessa indicazione dei fatti di causa e per insufficiente esposizione dei motivi di impugnazione, requisiti entrambi richiesti dall’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4 ai fini dell’ammissibilità dell’atto di gravame.

Sotto il primo profilo, attinente all’esposizione sommaria dei fatti di causa, il ricorso omette pressochè completamente qualsiasi riferimento allo svolgimento del giudizio, non contenendo indicazioni da cui possa ricavarsi quali siano stati l’origine ed i contorni esatti dell’oggetto della controversia, quali le specifiche domande, eccezioni e difese articolate dalle parti e come si siano svolti, infine, gli stessi fatti di causa, con particolare riguardo al contenuto e consistenza delle questioni controversie ed alle ragioni in forza delle quali esse sono state decise. Tali indicazioni, pur necessarie, non emergono, infatti, dalla premessa narrativa del ricorso, che è circoscritta alla mera indicazione dell’atto impugnato ed agli esiti dei giudizi di primo e di secondo grado, senza però alcuna indicazione dei tatti di causa. Nè esse appaiono evidenziarsi dalla lettura dei motivi di ricorso, che appaiono pure manifestamente carenti, limitandosi all’esposizione di censure senza alcun collegamento diretto ed esplicativo in ordine alle questioni decise e che non appaiono, perciò, in grado di evidenziare l’effettiva ratio decidendi della sentenza impugnata.

Per quanto riguarda il secondo aspetto, concernente la formulazione dei motivi, va invece evidenziato che, in relazione al primo motivo, manca completamente l’indicazione delle norme di legge che si assumono violate, non risulta esposta alcuna censura nei confronti della sentenza impugnata, di cui non viene richiamata nessuna argomentazione, limitandosi esso a formulare una doglianza di merito con cui denunzia il difetto di motivazione dell’avviso impugnato, senza nemmeno precisare se essa sia stata già proposta nei precedenti gradi di giudizio e, specificatamente, nel ricorso introduttivo. Con riguardo al secondo motivo, deve poi costatarsi che esso, per come formulato, difetta di immediata intelligibilità, lacuna non superabile sulla base dei passi della sentenza ivi richiamati, contiene una confusa indicazione delle norme di legge che si assume applicabili nella fattispecie e non appare sorretto dal criterio di autosufficienza, omettendo il ricorso di riprodurre il testo dei documenti citati (quali la convenzione tra CIMEP, Comune di Monza e la società cooperativa “Per stare insieme”, l’atto di vendita e la relazione del geometra) a sostegno delle censure. che anche per tale ragione appaiono del tulio generiche. Costituisce orientamento costante di questa Corte, infatti, l’affermazione che il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad clementi o atti attinenti a pregresso giudizio di merito (Cass. n. 15952 del 1997; Cass. n. 14767 del 2007; Cass. n. 12362 del 2006). La lettura dell’intero ricorso appare, in sostanza, inidonea a soddisfare quella esigenza minima che la legge processuale ha voluto garantire richiedendo che nel ricorso per cassazione vengano esposti, anche sommariamente, i fatti della causa ed i motivi specifici di censura. adempimenti che non si risolvono in requisiti d’ordine formale, ma che sono funzionalmente preordinati a fornire al giudice di legittimità la conoscenza necessaria dei termini in cui la causa è nata e si è sviluppata al line di meglio valutare ed apprezzare, senza dovere ricorrere ad altre fonti o atti del processo, ivi compresa la sentenza impugnata, il quadro degli elementi fondamentali in cui si collocano sia la decisione contestata che i motivi di censura sollevati (Cass. n. 4403 del 2006; Cass. n. 2432 del 2003: Cass. n. 4937 del 2000).

Sulla base di tali risultanze, deve in conclusione rilevarsi che il requisito di contenuto del ricorso richiesto dalla legge non sia stato adempiuto e che, per l’effetto, il ricorso sia inammissibile, con ogni conseguenza anche sulle spese.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in complessivi Euro 1.200 di cui Euro 1.000 per onorari, oltre spese generali e contributi di legge.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2010

 

 

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