Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18520 del 09/09/2011

Cassazione civile sez. lav., 09/09/2011, (ud. 03/03/2011, dep. 09/09/2011), n.18520

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI VENAROTTA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI DARDANELLI 13, presso lo

studio dell’avvocato SPINGARDI LUCA, rappresentato e difeso dagli

avvocati D’ANGELO VITTORIO, CARLI ROBERTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.A.;

– intimato –

e sul ricorso 22630-2007 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MARIANNA

DIONIGI N. 57, presso lo studio dell’avvocato SIMONETTA PARADISI,

rappresentato e difeso dall’avvocato LUZI MASSIMINO, giusta delega in

atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI VENAROTTA, in persona del Sindaco pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI DARDANELLI 13, presso lo

studio dell’avvocato SPINGARDI LUCA, rappresentato e difeso dagli

avvocati D’ANGELO VITTORIO, CARLI ROBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 428/2006 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 31/10/2006 R.G.N. 246/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

03/03/2011 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

S.A., licenziato nel dicembre del 2001 dal Comune di Venarotta, di cui era stato dipendente quale responsabile dell’ufficio tecnico, a conclusione di un procedimento disciplinare iniziato, con sospensione cautelare dal servizio, nel febbraio del 1997, adiva il Tribunale di Ascoli Piceno impugnando tale licenziamento e la precedente sospensione cautelare.

Il tribunale rigettava la domanda, in particolare ritenendo infondate le contestazioni formulate dall’attore riguardo alla regolarità del procedimento disciplinare esperito.

A seguito di appello del S., la Corte d’appello di Ancona, con sentenza depositata il 31.10.2006, in parziale accoglimento dell’impugnazione, dichiarava illegittimo e annullava il licenziamento disciplinare, con le pronunce conseguenti quanto alla reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno;

dichiarava il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, in favore del giudice amministrativo, in ordine alla domanda relativa alla sospensione cautelare per il periodo fino al 30.6.1998;

confermava il rigetto della stessa domanda quanto al periodo successivo.

La Corte, premesso che era rilevabile anche d’ufficio la questione, prospettata in primo grado all’udienza del 28.9.2004 ma basata su fatti tempestivamente allegati e pacifici, relativa alla illegittimità della procedura disciplinare per incompetenza dell’organo che l’aveva promossa, riteneva fondato il relativo motivo di appello. Al riguardo osservava che nella specie la iniziale contestazione disciplinare era stata formulata dal sindaco, in violazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 59, comma 4, ora D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 che attribuisce la competenza per l’esercizio di tutte le funzioni dell’amministrazione datrice di lavoro relative al procedimento disciplinare ad un apposito ufficio o organo, da istituirsi da parte dei vari enti pubblici secondo le previsioni del proprio ordinamento; ciò allo scopo, da un lato, di semplificare il macchinoso sistema precedentemente vigente nel pubblico impiego e, dall’altro, di preservare aspetti di specializzazione e di terzietà dell’organo investito delle funzioni disciplinari. Peraltro, il vizio di incompetenza conseguitane, derivante da contrasto con norma imperativa, aveva determinato una nullità, come tale rilevabile anche d’ufficio in ogni stato o grado del giudizio.

La Corte rilevava anche l’ulteriore illegittimità del procedimento disciplinare consistente nella violazione della L. n. 97 del 2001, art. 5, comma 4, – applicabile anche ai giudizi disciplinari in corso a norma dell’art. 10, comma 1, della stessa legge – secondo cui, in caso di pronuncia di sentenza penale irrevocabile di condanna nei confronti di dipendenti di amministrazione pubbliche (o di soggetti alle stesse equiparati ai fini della legge in questione), il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di sospensione, proseguire entro il termine di 90 giorni dalla comunicazione della sentenza alla amministrazione. Tale termine non era stato rispettato nella specie poichè, mentre la sentenza irrevocabile di patteggiamento era stata comunicata al Comune il 16.5.2001, il provvedimento di riattivazione era stato emesso il 20.8.2001 (e notificato il giorno dopo).

Quanto alla regolarità della sospensione cautelare la Corte di merito osservava – per la parte della domanda ritenuta ricadente nella giurisdizione del g.o. – che era stato rispettato l’art. 27 del c.c.n.l. 1994-1997, dovendosi ritenere che il relativo comma 30 consenta di prolungare la sospensione disposta a seguito di misura restrittiva della libertà personale, quando sia cessato lo stato di restrizione della libertà personale, anche a prescindere da una preventiva emissione di un provvedimento di rinvio a giudizio.

Il Comune di Venarotta ricorre per cassazione con un motivo articolato in quattro parti.

Il S. resiste con controricorso e propone due motivi di ricorso incidentale a cui il Comune resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. I due ricorsi devono essere riuniti (art. 335 c.p.c.).

Il ricorso principale denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, violazioni di legge, nullità della sentenza e assoluta carenza di motivazione su un punto decisivo. Esso è articolato nelle quattro seguenti censure.

1.1. Si censura il rilievo d’ufficio della nullità del procedimento disciplinare per la sua promozione da parte di organo diverso dall’apposito ufficio disciplinare, non ancora costituito, sostenendosi che tale nullità integrava un’eccezione in senso proprio, tardivamente dedotta dalla parte, come eccepito dalla difesa del Comune.

1.2. Si lamenta, da un lato, che la sentenza impugnata abbia totalmente omesso di considerare il fatto che in sede di riattivazione del procedimento disciplinare a seguito della sentenza penale la contestazione era stata compiutamente reiterata dall’ufficio disciplinare ormai regolarmente costituito, con richiamo degli addebiti di cui alla sentenza penale; e, dall’altro, si sostiene che debba ritenersi ammissibile la contestazione disciplinare da parte dell’organo precedentemente competente, in attesa della costituzione del nuovo organo previsto dalla legge.

1.3. Si sostiene che nella specie la riattivazione del procedimento disciplinare è avvenuta tempestivamente nel rispetto del termine di 120 giorni previsto dalla L. n. 97 del 1991, art. 10, comma 3.

1.4. Si lamenta mancanza di motivazione rispetto alla tesi interpretativa (a cui conforto) si richiama la decisione del Consiglio di Stato, adunanza plenaria, n. 2/2003), sostenuta nel giudizio di appello, secondo cui deve ritenersi rilevante ai fini della regolarità procedurale il rispetto di un termine complessivo per la riattivazione e la conclusione del procedimento di 270 o 300 giorni, ex art. 5, comma 4, legge cit.

2. Il ricorso principale non merita accoglimento.

2.1. E’ opportuno preliminarmente ricordare che l’annullamento del licenziamento disciplinare trova giustificazione, nella sentenza impugnata, in due concorrenti ma autonome rationes decidendi:

incompetenza dell’organo che aveva promosso il procedimento (o l’azione) disciplinare; riattivazione del procedimento disciplinare oltre il termine di 90 giorni dalla comunicazione all’amministrazione della pronuncia della sentenza penale irrevocabile di condanna.

Pertanto il ricorso può essere accolto solo in presenza di censure idonee a incidere su ambedue tali aspetti della motivazione.

Conseguentemente si ritiene opportuno esaminare il terzo e il quarto profilo del ricorso principale, il cui rigetto comporterebbe la conferma della seconda delle suesposte ragioni del decidere.

2.2. Con riferimento al terzo profilo di ricorso deve rilevarsi la sua evidente infondatezza, stante il disposto della L. 27 marzo 2001, n. 97, art. 5, comma 4, (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), secondo cui “il procedimento disciplinare deve avere inizio o, in caso di intervenuta sospensione, proseguire entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione (…)”.

D’altra parte la disposizione transitoria di cui alla citata L., art. 10, comma 1, precisa che le disposizioni della medesima legge “si applicano ai procedimenti penali, ai giudizi civili e amministrativi e ai procedimenti disciplinari in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa”. Quanto all’ipotesi di applicazione del più lungo termine di 120 giorni previsto dall’art. 10, comma 3, riguardo all’instaurazione del procedimento disciplinare per fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge (6 aprile 2001, giorno successivo a quello della pubblicazione sulla gazzetta ufficiale, come previsto dall’art. 11), deve rilevarsi che nella specie il procedimento disciplinare era già stato promosso, e quindi risulta applicabile piuttosto il comma 1, e che, comunque la Corte Costituzionale con la sentenza 24 giugno 2004 n. 186 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del richiamato L. n. 97 del 2001, art. 10, comma 3, nella parte in cui prevede, per i fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della medesima legge, l’instaurazione dei procedimenti disciplinari entro 120 giorni dalla conclusione del procedimento penale con sentenza irrevocabile di condanna, anzichè entro il termine di novanta giorni dalla comunicazione della sentenza all’amministrazione o all’ente competente per il procedimento disciplinare.

2.3. La tesi interpretativa sostenuta con il quarto profilo di ricorso deve ritenersi infondata, in quanto palesemente in contrasto con la disciplina delineata dalla L. n. 97 del 2001, art. 5, comma 4, che chiaramente pone distinti termini, aventi autonome ragioni, per la instaurazione o prosecuzione del procedimento disciplinare a seguito della sentenza penale e per la conclusione del procedimento stesso. Quanto sinora detto trova ulteriore conforto nel rilievo giurisprudenziale che, in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendenti pubblici condannati in sede penale, il termine di giorni novanta per l’instaurazione o la riattivazione del procedimento stesso decorre dalla comunicazione della sentenza irrevocabile all’Amministrazione datrice di lavoro, rispondendo tale soluzione alla duplice esigenza di non procrastinare eccessivamente il potere disciplinare dell’amministrazione e di evitare che il termine decorra anteriormente al passaggio in giudicato della sentenza e all’avvenuta conoscenza, da parte dell’Amministrazione medesima, dell’irrevocabilità della condanna del proprio dipendente (cfr. Cass. 22 ottobre 2009, n. 22418, anche per ragioni che fanno propendere per la perentorietà dei tale termine).

2.4. Per le ragioni già dette, il rigetto degli esaminati profili del ricorso comporta la non rilevanza dei primi due profili.

3. Il primo motivo del ricorso incidentale denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. per omesso esame dell’eccezione di declaratoria di nullità del licenziamento disciplinare per perenzione del relativo procedimento a causa della decorrenza del relativo termine di 120 giorni, in difetto dell’emanazione di un provvedimento di sospensione dello stesso per la pendenza del processo penale. I relativi conclusivi quesiti di diritto riguardano il primo l’interpretazione dell’art. 25, comma 8, del c.c.n.l. 1994-1997 comparto regioni-enti locali nel senso che il procedimento disciplinare, in caso di connessione con procedimento penale deve sempre essere sospeso (nel senso che richiede un positivo, esplicito provvedimento di sospensione), e il secondo l’interpretazione dello stesso testo nel senso che l’espressione “procedimento penale” di cui alla richiamata disposizione contrattuale indica il procedimento che ha inizio con la richiesta di rinvio a giudizio (nella specie intervenuta dopo 640 giorni dalla contestazione di addebiti).

Il motivo appare inammissibile per difetto di interesse, stante il rigetto del ricorso principale. Ad ogni modo lo stesso è inammissibile anche per l’inosservanza della prescrizione dettata dall’art. 366-bis c.p.c. (applicabile nella specie ratione temporis) sul conclusivo quesito di diritto che deve corredare i motivi di ricorso per cassazione formulati con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, stante la non correlazione tra gli argomenti di cui all’esposizione del motivo e il quesito.

4. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 27 del richiamato c.c.n.l. 1994-1997. Si censura l’interpretazione di tale disposizione, sostenendosi che il suo tenore letterale e in particolare il richiamo delle “medesime condizioni di cui al comma 2” evidenzia che ai fini del prolungamento della sospensione cautelare dopo la cessazione della restrizione della libertà personale è richiesta anche la sussistenza del provvedimento di rinvio a giudizio.

La Corte, procedendo all’interpretazione diretta del contratto collettivo nazionale a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3 nel testo vigente, ritiene perfettamente condivisibile l’interpretazione fornita dalla Corte d’appello e quindi infondato il motivo di ricorso.

L’art. 27 del CCNL 1994-1997 per il Comparto regioni enti locali recita: “1. Il dipendente che sia colpito da misura restrittiva della libertà personale è sospeso d’ufficio dal servizio con privazione della retribuzione per la durata dello stato di detenzione o comunque dello stato restrittivo della libertà.

2. il dipendente può essere sospeso dal servizio con privazione della retribuzione anche nel caso in cui venga sottoposto a procedimento penale che non comporti la restrizione della libertà personale quando sia stato rinviato a giudizio per fatti direttamente attinenti al rapporto di lavoro o comunque tali da comportare, se accertati, l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento ai sensi dell’art. 25, commi 6 e 7, 3.

L’amministrazione, cessato lo stato di restrizione della libertà personale di cui al comma 1, può prolungare anche successivamente il periodo di sospensione del dipendente fino alla sentenza definitiva, alle medesime condizioni di cui al comma 2”.

Vi sono vari elementi letterali e logici a conferma della tesi secondo cui l’inciso del comma 3 “alle medesime condizioni di cui al comma 2” non si riferisca anche al presupposto ivi previsto del rinvio a giudizio, ma solo alla condizione che i fatti di cui al procedimento penale attengano direttamente al rapporto di lavoro o siano comunque tali da comportare la sanzione del licenziamento disciplinare. Come già osservato dalla Corte d’appello, mentre il termine “prolungare” allude ad un’ininterrotta continuazione della sospensione cautelare, nella maggior parte dei casi la cessazione dello stato di detenzione cautelare interviene ben prima del rinvio a giudizio, anche in procedimenti penali per reati di una certa gravita sotto il profilo della incidenza della loro commissione sul rapporto di lavoro. Sarebbe quindi illogico che l’amministrazione pubblica datrice di lavoro fosse comunque costretta a riammettere il dipendente in servizio, anche se la detenzione cautelare sia cessata per ragioni diverse da quelle inerenti al venire meno di sufficienti indizi di colpevolezza. Deve anche sottolinearsi che le ipotesi del comma 20 e del comma 30 rimangono distinte relativamente alla presuntiva gravità del fatto di reato commesso, maggiore nell’ipotesi del 2 comma, relativa al “caso in cui il dipendente venga sottoposto a procedimento penale che non comporti la restrizione della libertà personale”, per il quale si richiede il presupposto del rinvio del giudizio, prima del quale, tra l’altro, mancano valutazione in punto di gravi indizi di colpevolezza.

5. In conclusione devono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

Le spese del giudizio vengono compensate in considerazione della reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta entrambi e compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 3 marzo 2011.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2011

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