Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18517 del 10/08/2010

Cassazione civile sez. trib., 10/08/2010, (ud. 10/06/2010, dep. 10/08/2010), n.18517

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. MAGNO Giuseppe V. A. – Consigliere –

Dott. MERONE Antonio – Consigliere –

Dott. CARLEO Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.R. e Z.R.C., elettivamente

domiciliati in Roma via Crescenzio 91 presso lo studio dell’avv.

Lucisano Claudio e rappresentati e difesi giusta procura speciale in

calce al ricorso dallo stesso;

– ricorrenti –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i

cui uffici è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12;

– costituitasi tardivamente –

avverso la sentenza 22.15.05, depositata in data 18.07.05, della

Commissione tributaria regionale del Piemonte;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

10.6.10 dal Consigliere Dott. Giovanni Carleo;

Udito il P.G. in persona del Dr. Giampaolo Leccisi che ha concluso

per a nullità del giudizio con rimessione degli atti al primo

giudice, in subordine per il rigetto del ricorso con le pronunce

consequenziali.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

In data 14 marzo 2002 l’Ufficio delle Entrate di (OMISSIS) notificava a L.R. ed a Z.R.C. un avviso di accertamento Irpef e SSN 1996. Tali avvisi traevano origine da una verifica fiscale eseguita dalla G. di F. di Torino nei confronti della società La Vittoriese di Lombardo Giuseppe e C. s.a.a., di cui essi erano soci, e da un avviso di accertamento per la rettifica del reddito d’impresa societario. I contribuenti presentavano ricorso alla CTP di Torino avverso l’avviso riguardante il reddito di partecipazione e la Commissione adita lo accoglieva.

L’Agenzia delle Entrate interponeva appello e la Commissione regionale dei Piemonte accoglieva il gravame. Avverso la detta sentenza i contribuenti hanno quindi proposto ricorso per cassazione articolato in quattro motivi.

L’Agenzia delle Entrate resiste chiedendo la reiezione del ricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

La prima doglianza, svolta dai ricorrenti, articolata sotto il profilo della violazione e/o mancata applicazione di legge (art. 295 c.p.c.), si fonda sulla considerazione che il Collegio di seconde cure avrebbe dovuto sospendere il processo relativamente ai soci in attesa della decisione relativamente alla società per il medesimo 1996.

La doglianza non coglie nel segno per due ordini di considerazioni.

In primo luogo, deve evidenziarsi come secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la norma, prevista dall’art. 295 c.p.c., non è utilizzabile nel caso che qui interessa. Infatti, quando le parti del processo non sono le stesse (nel processo pregiudiziale: la società c/o l’amministrazione finanziaria; in quello pregiudicato: i soci c/o l’amministrazione finanziaria), la sentenza avente ad oggetto il reddito della società non può avere l’efficacia (vincolante) propria del giudicato nei confronti dei soci che non abbiano partecipato (e non abbiano avuto la possibilità di partecipare) ai relativo processo (v. Sez. Un. n. n. 14815 del 2008 in motivazione.

In secondo luogo, premesso che uno dei fondamentali presupposti perchè il giudice possa sospendere il giudizio in base all’art. 295 citato è costituito dalla pendenza della cd. pregiudiziale, deve sottolinearsi che nel caso di specie tale presupposto è stato espressamente escluso dalla Commissione di appello là dove nella motivazione della sentenza impugnata accenna alla avvenuta chiusura del contenzioso avviato dalla società partecipata per l’anno in esame, con conseguente maggior reddito di partecipazione accertato in capo al singolo socio, divenuto “immodificabile e quindi anch’esso definitivo”.

Ne deriva che, salva l’ipotesi di un travisamento dei fatti – vizio neppure adombrato dai ricorrenti e che comunque non costituisce motivo di ricorso per cassazione, non consistendo in vizi logici o giuridici, ma solo un errore denunciabile con il mezzo della revocazione – la doglianza deve essere disattesa per la sua infondatezza.

Passando all’esame delle due successive doglianze, l’una per violazione del D.Lgs. n. 300 del 1999, artt. 66, 67, 68, nonchè per omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’altra per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 4, nonchè per omessa o insufficiente motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve premettersi che i ricorrenti lamentano di aver contestato l’omessa sottoscrizione dei ricorsi in appello da parte del direttore dell’Agenzia centrale e la mancata sottoscrizione delle controdeduzioni e dei ricorsi in appello da parte di un soggetto dotato di qualifica dirigenziale senza che il Collegio di secondo grado si pronunciasse in merito.

A riguardo, a parte ogni considerazione sull’irrituale commistione compiuta dai ricorrenti tra il vizio di omessa pronuncia e quello di omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ontologicamente assai diversi tra loro in quanto il primo integra un difetto di attività del giudice, quindi un error in procedendo, produttivo della nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4 mentre il secondo costituisce invece un vizio propriamente della decisione denunciabile ex art. 360 c.p.c., n. 5 è opportuno premettere che la sentenza impugnata non contiene il minimo accenno alle questioni, che sarebbero state sollevate dai ricorrenti.

La premessa torna utile perchè, se le questioni non furono affatto dedotte, come si ha motivo di ritenere dalla lettura della sentenza impugnata di secondo grado, le censure devono essere ritenute inammissibili in considerazione della loro novità. Se al contrario le questioni furono effettivamente dedotte, l’inammissibilità deriva dal difetto di autosufficienza del ricorso. Ed invero, i ricorrenti in questa sede avrebbero dovuto riportare le questioni, nei loro esatti termini, previa opportuna trascrizione, al fine di consentire a questa Corte il necessario controllo per verificarne la ritualità del contenuto e la tempestività.

Infatti, anche in ipotesi di error in procedendo per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del fatto processuale, il potere dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali è condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio di autosufficienza de ricorso per cassazione, dell’onere di indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice una loro autonoma ricerca, ma solo una loro verifica”.

(Sezioni Unite 7930/08).

Resta da esaminare l’ultima doglianza, articolata per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 5 e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, fondata sulla considerazione che la CTR avrebbe errato quando, sulla base della ritenuta definitività per mancata impugnazione dell’avviso di accertamento riguardante il reddito di impresa della società, ha ritenuto la sussistenza di un principio di trasposizione automatica dell’esito del processo relativo alla società di persone nel processo relativo ai soci.

Anche tale doglianza non coglie nel segno, alla luce dell’ormai consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui deve tenersi fermo che, in caso di società di persone, l’accertamento del reddito sociale e l’accertamento del reddito dei singoli soci sono in evidente rapporto di reciproca implicazione (non si può accertare il reddito dei singoli se non accertando il reddito sociale e quest’ultimo condiziona l’accertamento del primo), con la conseguenza che si è in presenza di un’imputazione automatica del reddito sociale ai soci, in forza di una presunzione legale iuris et de iure.

(v. Sez. Un. n. 14815/08 in motivazione).

Considerato che la sentenza impugnata appare in linea con il principio richiamato, ne consegue che il ricorso per cassazione in esame, siccome infondato, deve essere rigettato.

Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 1.700,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 10 agosto 2010

 

 

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