Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18493 del 26/07/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 26/07/2017, (ud. 10/07/2017, dep.26/07/2017),  n. 18493

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. ROCCHI Giacomo – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – rel. Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1234/2011 R.G. proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

P.M.;

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio

n. 174/35/2009, depositata il 16.11.2009;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 10 luglio

2017 dal Consigliere Roberto Amatore.

Fatto

RILEVATO

CHE:

– La parte ricorrente propone ricorso per cassazione, affidando la sua impugnativa a tre motivi di doglianza. L’Ufficio finanziario aveva determinato maggiori ricavi ai fini Irpef ed Iva per l’anno di imposta 1996 a carico del contribuente, e ciò sulla base di una rettifica del reddito scaturente dall’applicazione dei parametri contabili introdotti dalla L. n. 549 del 1995, art. 3, commi 181 e 183, e ciò sulla base dei parametri previsti dal D.P.C.M. 29 gennaio 1996, come modificato dal D.P.C.M. 27 marzo 1997. Avverso tale pretesa impositiva proponeva ricorso il contribuente, assumendo, tra l’altro, la nullità dell’atto per la illegittimità del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, in ragione causa della mancata acquisizione del parere del Consiglio di Stato sul D.P.C.M. stesso. La C.T.P. di Roma accoglieva il ricorso del contribuente e la C.T.R. del Lazio respingeva del pari il ricorso dell’ufficio finanziario, confermando pertanto il decisum del giudice di prima istanza.

– con il primo motivo si denunzia violazione e falsa applicazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, nonchè della L. n. 400 del 1988, art. 17 e ciò in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Si deduce che non vi è necessità del parere del Consiglio di Stato in merito alla validità del D.P.C.M. in esame, contrariamente a quanto ritenuto dai primi giudici.

– con il secondo motivo si denunzia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione della L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1.

Si osserva che nella motivazione resa dalla C.T.R. si era ribaltato l’onere della prova, ponendone il carico sulla posizione processuale della agenzia finanziaria. Si evidenzia ancora che l’agenzia aveva ritenuto legittimamente di applicare il redditometro sulla base di una presunzione relativa, che doveva essere vinta dal contribuente che tuttavia nulla aveva allegato in proposito.

– con il terzo motivo si censura la sentenza ricorsa, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2. Si denunzia l’illegittimità del provvedimento impugnato nella misura in cui non aveva provveduto all’accertamento nel merito del reddito con la necessaria determinazione dello stesso, senza limitarsi all’accertamento di un vizio formale dell’atto di accertamento.

– in data 16.6.2017 venivano depositate note scritte della Procura Generale della Cassazione che, nella persona del sostituto P.G. Dott.ssa Rita Sanlorenzo, concludeva per l’accoglimento del primo e secondo motivo di doglianza.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

– il ricorso è fondato;

– è fondato già il primo motivo di doglianza;

– sul punto qui in esame è utile ricordare la uniforme e consolidata giurisprudenza espressa da questa Corte di legittimità secondo cui in tema di accertamento tributario – il D.P.C.M. 29 gennaio 1996 (sulla “Elaborazione dei parametri per la determinazione di ricavi, compensi e volume d’affari sulla base delle caratteristiche e delle condizioni di esercizio sull’attività svolta”, determinati ai sensi della L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 181) non viola la L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17 per essere stato emanato senza il parere preventivo del Consiglio di Stato, in quanto non è un atto di natura regolamentare – nè attuativo di legge, ai sensi del primo comma, nè delegificante, ai sensi del comma 2 -, non essendo espressione di una potestà normativa, secondaria rispetto a quella legislativa, attribuita all’amministrazione, e non disciplina in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma è solo un provvedimento amministrativo a carattere generale, in quanto espressione di una semplice potestà amministrativa, essendo rivolto alla cura concreta di interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili (Sez. 5, Sentenza n. 16055 del 07/07/2010, Rv. 614095 – 01 ; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 17806 del 17/10/2012 (Rv. 623932 – 01);

– anche il secondo motivo è fondato: anche qui occorre richiamare gli insegnamenti offerti dalla giurisprudenza di questa Corte e secondo i quali è stato affermato che – in tema di accertamento dell’imposta sui redditi delle persone fisiche – i parametri disciplinati dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 181, e dal successivo D.P.C.M. 29 gennaio 1996 sono fondati su una presunzione legale relativa, in quanto i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume di affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statistica, non astratta, bensì riferita al singolo settore economico. Ne consegue che il contribuente può sempre dimostrare le specifiche circostanze che rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavo inferiore e, dunque, l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dei maggiori indici di reddito ivi previsti (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9727 del 06/05/2014, Rv. 630648 – 01; sul punto, si legga anche l’arresto rappresentato da Sez. U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009 (Rv. 610691), secondo cui, verbatim, “La procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito”;

– alla luce della giurisprudenza da ultimo richiamata, risulta, all’evidenza fondata la denunziata violazione in legge, e ciò in ragione dell’erroneo ribaltamento, nella pur stringata motivazione impugnata, dell’onere della prova, ponendolo a carico dell’Agenzia delle entrate;

– in realtà, l’Ufficio finanziario aveva ritenuto di applicare il redditometro sulla base di una presunzione relativa che doveva essere vinta dal contribuente che tuttavia nulla ha allegato in proposito;

– il terzo motivo è assorbito dall’accoglimento degli altri due motivi di ricorso.

PQM

 

La Corte in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio alla,C.T.R. del Lazio in diversa composizione per nuovo esame, e liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale, il 10 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2017

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