Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18485 del 09/08/2010

Cassazione civile sez. II, 09/08/2010, (ud. 15/06/2010, dep. 09/08/2010), n.18485

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente –

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere –

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.R., CF (OMISSIS) elettivamente domiciliata in

ROMA, PIAZZA CAVOUR ex lege, rappresentata e difesa dall’avvocato

CRASCI’ NINO;

– ricorrente –

contro

F.C. CF (OMISSIS), S.A., M.

G. CF (OMISSIS), C.A. avente causa da

C.B. per atto notarile, S.G. avente causa

da G.R. per atto notarile, B.R.N., CF

(OMISSIS) elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR,

c/o CORTE DI CASSAZIONE ex lege, rappresentati e difesi dall’avvocato

LAMICELA EDOARDO;

– controricorrenti –

e contro

F.M., G.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 492/2004 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 05/06/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VELARDI Maurizio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

G.R., F.C., M.G., F. M., C.B. e B.R.N. convenivano in giudizio C.R. per ottenerne la condanna alla demolizione delle opere abusive costruite all’ultimo piano dello stabile in (OMISSIS), in quanto la convenuta si era impossessata di spazi condominiali e, appesantendo le strutture portanti con nuovi carichi, aveva danneggiato gli appartamenti sottostanti di proprieta’ di essi attori.

La C., costituitasi, chiedeva il rigetto delle domande e, in via riconvenzionale, la condanna degli attori a rifare il tetto condominiale.

Il procedimento relativo alla riconvenzionale veniva dichiarato estinto per non aver la convenuta integrato il contraddittorio nei confronti degli altri condomini entro il termine assegnato.

L’adito tribunale di Catania rigettava le domande con sentenza 26/3/2000 avverso la quale proponevano appello gli attori soccombenti.

C.R. si costituiva ed eccepiva l’inammissibilita’ dell’appello in quanto l’appellante G.R. era deceduto circa un anno prima dell’appello. Nel merito la C. chiedeva la conferma della sentenza di primo grado.

Con sentenza 5/6/2004 la corte di appello di Catania: dichiarava inammissibile l’appello proposto da G.R.; accoglieva l’appello proposto dagli altri appellanti e, in riforma dell’impugnata pronuncia, condannava la C. a demolire i corpi di fabbrica edificato nella parte un tempo coperta da tegolato, a ripristinare il tetto nelle condizioni originarie e a ripristinare il vano vasche. La corte di merito osservava: che G.R. era deceduto dopo la pubblicazione della sentenza impugnata per cui l’appello proposto dai difensore in forza della procura rilasciata in primo grado era inammissibile; che era ammissibile l’appello proposto dagli altri appellanti non trattandosi nella specie di cause inscindibili; che infatti i detti appellanti ben potevano proporre azioni reali a difesa della proprieta’ comune senza la necessita’ di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri condomini; che il primo giudice aveva rigettato le domande degli attori di demolizione delle opere edificate dall’appellante affermando che non era stata provata l’insistenza di dette opere su parti condominiali;

che, come accertato dal c.t.u.. la C. aveva acquistato un vano di antica costruzione sito alla sommita’ dell’edificio in questione, nonche’ un vano con attiguo locale diruto ubicato nel vano vasche, la terrazza a livello, l’area libera sovrastante il vano e la terrazza, la terza parte indivisa della restante area dell’intero edificio, all’epoca coperta da tegolato; che l’atto di acquisto consentiva alla appellata di ricostruire o ripristinare il locale diruto a condizione di provvedere a sue spese ad isolare e rendere indipendente il locale vasche; che, come emerso dal sopralluogo effettuato dal c.t.u.. la C. aveva costruito tre appartamenti occupando l’intera superficie corrispondente alla copertura dell’edificio, aveva modificato l’inclinazione del tetto ed aveva sostituito le falde originarie con una copertura di lastre tipo Etenit; che il c.t.u. aveva confrontato lo stato attuale dei luoghi con quello risultante dalla perizia espletata nel 1974; che, come risultava dalla planimetria allegata alla consulenza, l’appellata dal 1974 al momento del sopralluogo aveva occupato l’intera area dell’edificio un tempo coperta da tegolato e di cui era comproprietario solo per un terzo; che il tribunale aveva errato ad attribuire efficacia di giudicato ad una sentenza emessa in un procedimento cautelare promosso dal solo G.R. e definito bonariamente; che la pronuncia del pretore riguardava solo la sussistenza di possibili danni derivanti dalla costruzioni, all’epoca intraprese dalla appellata, per cui non poteva attribuirsi a detta pronuncia efficacia ostativa rispetto alla domanda concernente la proprieta’ dell’area occupata; che pertanto andava ordinata la demolizione dei corpi di fabbrica edificati dalla C. nella parte originariamente coperta da tegolato; che l’appellata andava condannata anche a ripristinare il tetto nelle condizioni originarie e a ripristinare il vano vasche; che la domanda di risarcimento danni andava rigettata perche’ non provata; che la soccombente appellata andava condannata al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio.

La cassazione della sentenza della corte di appello di Catania e’ stata chiesta da C.R. con ricorso – affidato a cinque motivi – notificato a G.R., F.C., M.G., F.M., C.B. e B. R.N..

Hanno resistito con controricorso F.C., M. G., B.R.N. e C.A., quest’ultima quale avente causa da C.B..

Al ricorso hanno resistito anche S.G. e S. A. – con atto definito “comparsa di intervento” – nella dichiarata qualita’ di acquirenti dell’appartamento gia’ di proprieta’ di G.R..

L’intimata F.M. non ha svolto attivita’ difensiva in sede di legittimita’.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Innanzitutto va rilevata l’inammissibilita’ del ricorso proposto nei confronti di G.R. con atto notificato presso l’avvocato Edoardo Latricola atteso che – come risulta dalla sentenza impugnata – il G.R. e’ deceduto prima ancora della notifica dell’atto di appello tanto che detto appello e’ stato dichiarato inammissibile dal giudice di secondo grado.

Anche il ricorso proposto nei confronti di C.B. va dichiarato inammissibile in quanto il C.B. – come risulta dal certificato di morte prodotto dai resistenti – e’ deceduto in data (OMISSIS), ossia ben prima della pronuncia della sentenza impugnata pubblicata in data 5/6/2004 e notificata alla ricorrente C. in data 6/2/2004.

Al riguardo va segnalato che, come questa Corte ha avuto modo di precisare, qualora uno degli eventi idonei a determinare l’interruzione del processo si verifichi nel giudizio di primo grado prima della chiusura della discussione (ovvero dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni e durante la pendenza del termine per il deposito delle comparse conclusionali e di replica), e tale evento non venga dichiarato ne’ notificato dal procuratore della parte cui l’evento si riferisce, a norma dell’art. 300 c.p.c., il giudizio di impugnazione dev’essere comunque instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati (tra le tante, sentenze 19/3/2009 n. 6701;

5/3/2009 n. 5387; 13/9/1996 n. 8263).

In particolare le Sezioni Unite, con la recente sentenza 16/12/2019 n. 26279, componendo un contrasto tra le sezioni semplici, hanno affermato che l’atto di impugnazione della sentenza, nel caso di morte della parte vittoriosa, deve essere rivolto e notificato agli eredi, indipendentemente sia dal momento in cui il decesso e’ avvenuto, sia dalla eventuale ignoranza dell’evento, anche se incolpevole, da parte del soccombente; ove l’impugnazione sia proposta invece nei confronti del defunto, non puo’ trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 291 cod. proc. civ..

Va peraltro e comunque aggiunto che il controricorso – che annovera tra i resistenti C.A. “quale avente causa di C. B.” – e’ stato notificato alla ricorrente C. in data 14/3/2005, ossia dopo il passaggio in giudicato della sentenza impugnata per il decorso del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.: la sentenza impugnata e’ stata infatti notificata alla C. in data 6/12/2004.

Sempre in via preliminare va dichiarata l’inammissibilita’ – sotto vari profili – dell’intervento effettuato in questo giudizio di legittimita’ da S.G. e S.A. con atto definito “comparsa di intervento” nella dichiarata qualita’ di acquirenti dell’appartamento gia’ di proprieta’ di G.R..

In proposito va osservato che – come emerge dalla vicenda processuale sopra riportata nella parte narrativa che precede – la sentenza di primo grado ( con la quale e’ stata rigettata la domanda proposta dal G.R. – unitamente ad altri condomini – nei confronti della C.) e’ passata in giudicato nei confronti del G.R. (e dei suoi aventi causa a qualsiasi titolo e, quindi, anche dei S.) a seguito della pronuncia di inammissibilita’ dell’appello proposto avverso la detta sentenza dal difensore del G.R. dopo la morte dello stesso.

Va altresi’ sottolineato che, come e’ noto, nel giudizio di cassazione la procura speciale non puo’ essere rilasciata a margine o in calce di atti diversi dal ricorso o dal controricorso, poiche’ l’art. 83 c.p.c., comma 3, nell’elencare gli atti in margine o in calce ai quali puo’ essere apposta la procura speciale, indica, con riferimento al giudizio di cassazione, soltanto quelli suindicati. Se la procura, pertanto, non e’ rilasciata in occasione di tali atti, e’ necessario il suo conferimento nella forma prevista dal citato art. 83, comma 2 cioe’ con atto pubblico o con scrittura privata autenticata, facenti riferimento agli elementi essenziali del giudizio, quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata.

Nella specie i S. si sono costituiti con un atto denominato “comparsa di intervento” sul quale non puo’ essere apposta la procura speciale.

Il detto atto di costituzione deve pertanto essere ritenuto nullo e quindi inidoneo a comportare l’assunzione della qualita’ di parte dei soggetti che su di esso hanno basato tale loro qualita’.

Nessun provvedimento in ordine alle spese tra C.A. ed i S. da una parte e la ricorrente C. dall’altra posto che quest’ultima nessuna difesa ha svolto con riferimento alle posizioni assunte dalla C.A. e dai S..

Con il primo motivo di ricorso C.R. denuncia violazione dell’art. 299 c.p.c. deducendo che G.R. e’ deceduto dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado per cui lo stesso illegittimamente si e’ costituito alla prima udienza del procedimento di appello. Il processo doveva pertanto essere dichiarato estinto posto che la morte della parte prima della sua costituzione in giudizio produce ex art. 299 c.p.c. l’automatica interruzione del processo. Di conseguenza tutti gli atti del processo di secondo grado, compresa la sentenza, vanno considerati e dichiarati nulli.

Il motivo e’ infondato in quanto – come puntualmente posto in evidenza nel controricorso – l’art. 299 c.p.c. si applica (anche nel giudizio di appello a norma dell’articolo 359 c.p.c.) nell’ipotesi di decesso o di perdita della capacita’ di stare in giudizio della parte prima della costituzione in cancelleria ma dopo la proposizione dell’appello o della notifica dell’atto di appello. Pertanto, ove prima della costituzione in appello sopravvenga la morte o la perdita della capacita’ di stare in giudizio della parte che ha proposto impugnazione o della parte cui sia stata notificata l’impugnazione, il processo e’ automaticamente interrotto ai sensi dell’art. 299 c.p.c., applicabile anche in appello ex art. 359 dello stesso codice;

ne’ il procuratore della medesima parte e’ abilitato a costituirsi per rendere la dichiarazione di cui all’art. 300 c.p.c., atteso che detta perdita di capacita’ produce altresi’ l’estinzione del mandato, ancorche’ originariamente conferito per entrambi i gradi. L’evento deve avvenire nelle more tra la notifica della citazione (anche d’appello) e la prima udienza di comparizione.

Nella specie, come e’ pacifico e documentalmente accertato dal giudice di secondo grado, l’appello di G.R. e’ stato proposto dal difensore dell’appellante – nominato in primo grado – dopo la morte del G.R. avvenuta in data successiva alla pubblicazione della impugnata sentenza di primo grado e prima della notifica dell’atto di gravame.

Correttamente, quindi, la corte di appello ha dichiarato non l’interruzione del processo ma l’inammissibilita’ dell’atto di appello proposto dal difensore di G.R. dopo la morte di questi.

La detta pronuncia e’ conforme al principio giurisprudenziale di questa Corte secondo cui la regola dettata dall’art. 300 c.p.c., commi 1 e 2, che attribuisce al procuratore la facolta’ di continuare a rappresentare in giudizio la parte che gli abbia conferito il mandato ancorche’ defunta dopo la costituzione in giudizio, trova applicazione solo all’interno della fase processuale in cui l’evento si e’ verificato e non nelle fasi successive. Pertanto, nel caso di morte della parte dopo la sentenza di primo grado e prima della proposizione del gravame, il difensore della parte defunta non puo’ proporre l’appello in base alla procura rilasciata da quest’ultima, ma abbisogna di un nuovo mandato da parte degli eredi (sentenza 10/5/2006 n. 10706).

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 331 c.p.c. sostenendo che la corte di appello non poteva limitarsi a dichiarare l’inammissibilita’ dell’appello proposto dal G.R., ma doveva dichiarare l’estinzione del processo o, in subordine, ordinare quanto meno l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi del G.R.. Peraltro, come affermato nella giurisprudenza di legittimita’, nell’azione di accertamento tutte le parti del giudizio di primo grado sono litisconsorzi necessari nel giudizio di appello. Nella specie le azioni proposte dagli appellanti rientrano tra quelle di accertamento in quanto tendenti ad accertare costruzioni qualificate come abusive ed illegittime.

Il motivo non e’ fondato ed al riguardo e’ sufficiente il richiamo al principio giurisprudenziale pacifico secondo cui ciascun comproprietario, in quanto titolare di un diritto che, sia pure nei limiti segnati dalla concorrenza dei diritti degli altri partecipanti, investe l’intera cosa comune (e non una frazione della stessa), e’ legittimato ad agire o resistere in giudizio, anche senza il consenso degli altri, per la tutela della cosa comune, nei confronti dei terzi o di un singolo condomino. Le azioni a difesa o a vantaggio della cosa comune possono essere esperite dai singoli condomini senza che sia necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri partecipanti alla comunione. In particolare in tema di rapporti condominiali, nel giudizio instaurato (come appunto nella specie) a tutela della proprieta’ comune per l’eliminazione di opere abusive compiute da alcuni condomini (e non per l’accertamento della natura condominiale di alcune specifici beni), non e’ necessaria l’integrazione del contraddittorio nei confronti di tutti gli altri comproprietari, dovendo i singoli convenuti rispondere autonomamente dell’addebitato abuso e potendo ciascuno dei condomini agire individualmente a tutela del bene comune (in tali sensi, tra le tante, sentenze 7/9/2009 n. 19329: 7/4/2000 n. 4345; 10/5/1996 n. 4388).

Con il terzo motivo la C. denuncia violazione dell’art. 116 c.p.c. nonche’ vizi di motivazione, deducendo che la corte di appello, dopo una sommaria lettura della c.t.u. e distorcendo il contenuto e le conclusioni della relazione peritale, ha riportato in sentenza circostanze – nel dettaglio riportate – inesistenti nella detta relazione nella quale sono descritte le opere realizzate da essa ricorrente e che non costituiscono elementi utili e sufficiente ad integrare un provvedimento di demolizione.

Il motivo e’ manifestamente infondato risolvendosi essenzialmente nella prospettazione di una diversa analisi del merito della causa ed in una critica dell’apprezzamento delle risultanze istruttorie (in particolare relazione del c.t.u.) operata dal giudice del merito incensurabile in questa sede di legittimita’ perche’ sorretto da adeguata motivazione immune da vizi logici e giuridici.

Inammissibilmente la ricorrente prospetta una diversa lettura del quadro probatorio dimenticando che l’interpretazione e la valutazione delle risultanze probatorie sono affidate al giudice del merito e costituiscono insindacabile accertamento di fatto: la sentenza impugnata non e’ suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice del merito siano, secondo l’opinione di parte ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione conforme alla tesi da essa sostenuta.

Sono quindi insussistenti gli asseriti vizi di motivazione che presuppongono una ricostruzione dei fatti diversa da quella ineccepibilmente effettuata dal giudice del merito.

Per quanto poi riguarda le doglianze relative alla valutazione della relazione del c.t.u. deve affermarsi che le stesse non sono meritevoli di accoglimento anche per la loro genericita’, oltre che per la loro incidenza in ambito di apprezzamenti riservati al giudice del merito.

Nel giudizio di legittimita’ il ricorrente che deduce l’omessa o l’erronea valutazione delle risultanze probatorie ha l’onere (in considerazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) di specificare il contenuto delle prove mal (o non) esaminate, indicando le ragioni del carattere decisivo del lamentato errore di valutazione: solo cosi’ e’ consentito alla corte di cassazione accertare – sulla base esclusivamente delle deduzioni esposte in ricorso e senza la necessita’ di indagini integrative – l’incidenza causale del difetto di motivazione (in quanto omessa, insufficiente o contraddittoria) e la decisivita’ delle prove erroneamente valutate perche’ relative a circostanze tali da poter indurre ad una soluzione della controversia diversa da quella adottata. Il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronuncia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non o mal esaminate siano tali da invalidare l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento si e’ formato, onde la “ratio decidendi” venga a trovarsi priva di base.

In proposito va ribadito che per poter configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia e’ necessario un rapporto di causalita’ logica tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla vertenza, si’ da far ritenere che quella circostanza se fosse stata considerata avrebbe portato ad una decisione diversa.

Nella specie le censure mosse dalla C. con il motivo in esame sono carenti sotto l’indicato aspetto in quanto non riportano il contenuto specifico e completo della relazione del consulente di ufficio genericamente indicata in ricorso e non forniscono alcun dato valido per ricostruire, sia pur approssimativamente, il senso complessivo di detta relazione. Tale omissione non consente di verificare l’incidenza causale e la decisivita’ dei rilievi al riguardo mossi dalla ricorrente.

Sotto altro aspetto le censure concernenti gli asseriti errori che sarebbero stati commessi dal giudice di pace nel ricostruire i fatti di causa sono inammissibili risolvendosi nella tesi secondo cui l’impugnata sentenza sarebbe basata su affermazioni contrastanti con gli atti del processo e frutto di errore di percezione o di una svista materiale degli atti di causa. Trattasi all’evidenza della denuncia di travisamento dei fatti contro cui e’ esperibile il rimedio della revocazione. Secondo quanto piu’ volte affermato da questa Corte, la denuncia di un travisamento di fatto, quando attiene al fatto che sarebbe stato affermato in contrasto con la prova acquisita, costituisce motivo di revocazione e non di ricorso per cassazione importando essa un accertamento di merito non consentito in sede di legittimita’.

Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c. sostenendo che la corte di appello ha posto in essere un madornale errore facendo riferimento ad un secondo motivo di appello inesistente perche’ mai proposto. Infatti nell’atto di appello non si riscontra alcuna impugnazione al capo della sentenza concernente la sentenza pretorile 1255/74 “che aveva coperto di giudicato quasi tutte le opere costruite negli anni 72/74”. L’atto di appello riguardava un altro procedimento proposto dal G.R. nel 1988 conclusosi con conciliazione.

La censura e’ inammissibile per carenza di interesse attesa la sua irrilevanza posto che – come ineccepibilmente rilevato dalla corte di appello -qualsiasi pronuncia emessa in controversie tra la C. ed il solo G.R. non puo’ avere alcuna influenza ai fini della soluzione della vertenza in esame – pendente tra la ricorrente e altri condomini diversi dal G.R. – avente ad oggetto l’azione reale proposta dai detti condomini a tutela e difesa della proprieta’ comune ed ai quali non e’ opponibile qualsiasi giudicato o accordo transattivo eventualmente intervenuto tra il G.R. e la ricorrente con riferimento a beni comuni.

Con il quinto motivo il ricorrente denuncia violazione dell’art. 91 c.p.c. deducendo che la corte di appello non ha tenuto conto che nella specie vi era stata reciproca soccombenza essendo stata rigettata la domanda di risarcimento danni per cui le spese andavano quanto meno compensate.

Anche questo motivo, al pari degli altri, non e’ meritevole di accoglimento posto che, come e’ ben noto e pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, la decisione del giudice di merito relativa al pagamento delle spese processuali e’ censurabile in sede di legittimita’, sotto il profilo della violazione di legge, soltanto quando le spese siano state poste, interamente o parzialmente, a carico della parte totalmente vittoriosa mentre non e’ assolutamente censurabile, neppure sotto il profilo della motivazione, l’esercizio del potere discrezionale del giudice di merito sull’opportunita’ di compensare, in tutto o in parte, le spese di lite. Il giudice del merito puo’, nell’esercizio del suo potere, escludere la compensazione delle spese stesse – non ravvisando la ricorrenza di giusti motivi – senza obbligo di esporre le ragioni per le quali si e’ avvalso di tale facolta’.

In definitiva il ricorso deve essere rigettato con la conseguente condanna della ricorrente al pagamento – in favore dei resistenti – delle spese del giudizio di cassazione liquidate nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento – in favore dei resistenti – delle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi Euro 200,00, oltre Euro 2.000,00 a titolo di onorari ed oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 agosto 2010

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