Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18477 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. II, 04/09/2020, (ud. 20/01/2020, dep. 04/09/2020), n.18477

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3777-2016 proposto da:

A.A. e N.G., rappresentati e difesi

dall’Avvocato FRANCESCO LAROCCA ed elettivamente domiciliati presso

lo studio dell’Avv. Stefano Palma in ROMA, VIA AUGUSTO BEVIGNANI 12;

– ricorrenti –

contro

C.T.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 560/2015 della CORTE DI APPELLO di LECCE,

pubblicata il 25/08/2015.

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/01/2020 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione ritualmente notificato C.T. conveniva in giudizio N.G. e A.A. deducendo: che l’impresa di cui era titolare si era impegnata a realizzare opere edili di manutenzione dell’immobile sito in (OMISSIS) di proprietà del N. e destinato a uso abitativo dell’ A.; che tali opere, consistenti per lo più nel rifacimento degli intonaci delle mura esterne della casa e nella ricostruzione dei balconi già esistenti, erano state specificate e descritte nel preventivo, in cui era stato anche riportato il prezzo, concordato in Euro 10.850,00, oltre IVA al 10%; che in corso di esecuzione erano stati richiesti dai committenti ulteriori lavori sull’immobile, consistenti in interventi, con materiali a carico dell’impresa appaltatrice, per un importo di Euro 4.800,00; che i lavori erano stati ultimati alla fine di luglio del 2003 e, ciò nonostante, i committenti avevano eseguito solo pagamenti parziali per complessivi Euro 9.000,00 (IVA inclusa), essendo rimasta senza esito la raccomandata del 4.9.2003, con la quale l’esponente aveva chiesto il pagamento del residuo, pari a Euro 2.935,00 (IVA inclusa), nonchè quanto dovuto per le opere extra contratto; che con raccomandata del 15.9.2003, il committente aveva contestato la presenza di danni, vizi e difformità nell’esecuzione dei lavori eseguiti, per cui, all’esito della verifica delle opere effettuata in data 14.10.2003, l’attore si era dichiarato disponibile a eseguire alcune opere (risultando ogni altra realizzata a regola d’arte), attività rifiutata dai committenti con nota del 30.10.2003.

Ciò premesso, il C. chiedeva di ritenere i committenti obbligati al pagamento della differenza tra quanto pattuito e quanto versato, pari a Euro 2.935;00 (IVA inclusa); di liquidare il dovuto per le ulteriori opere commissionate in corso d’opera, pari a Euro 4.800,00 e di ritenere pretestuosa, intempestiva e infondata la contestazione dei vizi e difformità sollevata dai committenti solo dopo la richiesta del saldo.

Si costituivano in giudizio i convenuti, eccependo preliminarmente il difetto di legittimazione passiva del N. e chiedendo il rigetto delle domande; proponevano altresì domanda riconvenzionale al fine di sentire accertare e dichiarare la non corretta e l’incompleta esecuzione dei lavori da parte del C. e per sentirlo per l’effetto condannare al pagamento della somma di Euro 11.100,00, oltre al costo relativo alla riparazione dei danni all’intonaco esterno, nonchè per ottenere la risoluzione del contratto per grave inadempienza dell’attore, con condanna dello stesso alla restituzione della somma di Euro 9.000,00, versata in corso d’opera, oltre interessi dalla domanda al soddisfo.

Istruita la causa mediante acquisizione di documentazione ed espletamento di prova testimoniale e di CTU, con sentenza n. 246/2012, il Tribunale adito accoglieva l’eccezione di difetto di legittimazione passiva del N.; rigettava la pretesa azionata dall’attore in quanto non sufficientemente provata; accoglieva la domanda riconvenzionale promossa dalla convenuta e dichiarava la risoluzione del contratto di appalto per inadempimento del C., consistito nel non avere lo stesso completato l’opera commissionatagli e lo condannava al pagamento, in favore del convenuto, della somma di Euro 9.149,30, oltre interessi e spese di lite e di CTU. In particolare, il Tribunale riteneva che non potendo l’ A. restituire l’opera parzialmente eseguita, aveva diritto alla reintegrazione della riduzione patrimoniale con la restituzione delle somme versate rispetto alle opere effettivamente realizzate e la condanna dell’appaltatore al risarcimento del danno: la prima valutata in Euro 5.624,30, pari alla differenza tra acconti corrisposti (8.999,30) e valore delle opere eseguite dal C. (Euro 3.375,00); il secondo quantificato in Euro 3.525,00.

Avverso detta sentenza proponeva appello il C., riducendo la sua pretesa creditoria.

Resistevano A. e N..

Con sentenza n. 560/2015, depositata in data 25.8.2015, la Corte d’Appello di Lecce condannava A.A. al pagamento della somma di Euro 2.785,00, oltre interessi dalla domanda; revocava la statuizione di risoluzione del contratto; condannava l’ A. al pagamento di due terzi delle spese di lite del doppio grado del giudizio e delle spese di CTU; dava atto del difetto di impugnazione della sentenza nel rapporto C.- N. e compensava tra dette parti le spese di lite di appello.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione A.A. sulla base di due motivi; l’intimato C.T. non ha svolto difese. N.G. afferma di avere partecipato al presente giudizio solo per consentire la regolare costituzione del contraddittorio, non avendo alcun altro interesse giacchè è intervenuta definitivamente declaratoria del proprio difetto di legittimazione passiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, i ricorrente A.A. lamenta la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1455 c.c.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5). Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1218 c.c.”, in quanto la valutazione della Corte di merito in ordine alla non gravità dell’inadempimento di controparte non sarebbe sorretta da motivazione congrua e immune da vizi giuridici, con violazione degli artt. 1455 e 1218 c.c.. Il ricorrente osserva come fosse stato dimostrato documentalmente (racc. a.r. 8.10.2003 e 30.10.3003), a mezzo di testimoni e sulla scorta della consulenza tecnica in sede di ATP e della CTU che non sia esatto affermare (come ha fatto la Corte territoriale) che il C. si fosse offerto di effettuare la verifica e di completare l’intonacatura della canna fumaria e che A. non avesse raccolto l’invito. In particolare, con la racc. 8.10.2003, il difensore del ricorrente, nel confermare la contestazione della consegna dei avori (già effettuata il 15.9.2003), affermava che la ditta C. non potesse, dopo aver detto che c’era stata consegna, richiedere una verifica; in ogni caso vi era disponibilità del ricorrente ad incontrarsi anche se per una data diversa rispetto a quella fissata del 9.10.2003. Con la successiva racc. 30.10.2003 il medesimo difensore di A., in risposta alla missiva del C. del 20.10.2003, si meravigliava che il ricorrente avesse potuto affermare che in data 14.10.2003 ci fosse stata la verifica delle opere appaltate nonostante egli non fosse presente. Il ricorrente sottolinea, inoltre, che il fatto stesso che i lavori non fossero stati ancora conclusi nell’ottobre 2003 costituisse di per sè grave inadempimento ai sensi e per gli effetti dell’art. 1218 c.c., norma che si assume violata dalla Corte d’Appello, la quale non avrebbe considerato il mancato assolvimento dell’onere probatorio a carico del C., il quale avrebbe dovuto dimostrare che l’inadempimento o il ritardo fosse stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile. A tale grave inadempimento di mancata consegna si aggiungerebbe l’altro grave inadempimento costituito dal mancato completamento dei lavori, e non solo quello relativo alla mancata intonacatura della torretta della canna fumaria.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – In tema di ricorso per cassazione, non è infatti consentita la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione tra oro eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, non essendo permessa la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quello della violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o quale l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, e l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro. Infatti, l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n. 26874 del 2018).

1.3. – Il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Pertanto, il motivo con cui si denunzia il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 3 deve essere dedotto, a pena di inammissibilità, non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche mediante specifiche e intelligibili argomentazioni intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie; diversamente impedendosi alla Corte di cassazione di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto individuati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate (artt. 1455 e 1218 c.c.), ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza Impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.4. – Quanto poi alle censure riferite alla violazione del parametro di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (peraltro erroneamente evocato con riferimento alla non più vigente ipotesi di “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione”), va posto in rilievo che costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella nuova formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze impugnate dinanzi alla Corte di cassazione ove le stesse siano state pubblicate in epoca successiva al 12 settembre 2012, e quindi ratione temporis anche a quella oggetto de ricorso in esame, pubblicata il 25 agosto 2015) consente (Cass. sez. un. 8053 del 2014) di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, e cioè, in definitiva, quando tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017).

Nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente avrebbe dunque dovuto specificamente e contestualmente indicare oltre al “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. n. 14014 e n. 9253 del 2017). Viceversa, nel motivo in esame, della enucleazione e della configurazione della sussistenza (e compresenza) di siffatti presupposti (sostanziali e non meramente formali), onde potersi ritualmente riferire al parametro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non v’è alcuna idonea e specifica indicazione.

1.5. – Riguardo infine alla valutazione da parte del giudice d’appello circa la non gravità dell’inadempimento dell’appaltatore ed alla affermazione della conseguente revoca della risoluzione del contratto, le doglianze del ricorrente attengono alla contestazione della valutazione delle prove operata, in parte qua, dalla Corte distrettuale (senza una diretta rilevanza della ripartizione dell’onere della prova inter partes), nella parte in cui la Corte stessa ha affermato che la censura dell’appellante relativa alla violazione da parte del Tribunale dell’art. 1668 c.c. fosse fondata, in quanto una valutazione comparativa della condotta di ciascuna delle parti induceva a ritenere non grave l’inadempimento del C. (sentenza impugnata, pag. 7).

E’ principio consolidato che l’apprezzamento del giudice di merito, nel porre a fondamento della propria decisione una argomentazione, tratta dalla analisi di fonti di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis, Cass. n. 9275 del 2018; Cass. n. 5939 del 2018; Cass. n. 16056 del 2016; Cass. n. 15927 del 2016).

Ne consegue che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità unicamente nel caso in cui (contrariamente a quanto risulta nella presente fattispecie, che appare congrua e coerentemente supportata) la motivazione stessa risulti talmente inadeguata da non consentire di ricostruire l’iter logico seguito dal giudice per attribuire al rapporto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche; con la precisazione che nessuna di tali censure può risolversi in una critica del risultato interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante, Cass. n. 26683 del 2006; Cass. n. 18375 del 2006; Cass., n. 1754 del 2006).

1.6. – Invero, il controllo affidato a questa Corte non equivale alla revisione del ragionamento decisorio, ossia alla opinione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata, posto che ciò si tradurrebbe in una nuova formulazione del giudizio di fatto, in contrasto con la funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità (Cass. n. 20012 del 2014; richiamata anche dal Cass. n. 25332 del 2014). Sicchè, in ultima analisi, tale motivo si connota quale riproposizione, notoriamente inammissibile in sede di legittimità, di doglianze di merito che attengono all’apprezzamento motivatamente svolto dalla Corte di merito (Cass. n. 24817 del 2018).

Viceversa, il ricorrente mostra di anelare ad una impropria trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, giudizio di merito, ne quale ridiscutere tanto il contenuto di fatti e le vicende processuali, quanto gli apprezzamenti espressi dalla Corte di merito non condivisi, e per ciò solo censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni ai propri desiderata; quasi che nuove istanze di fungibilità nella ricostruzione dei fatti di causa possano ancora legittimamente porsi dinanzi al giudice di legittimità (Cass. n. 5939 del 2018).

Compito della Cassazione non è, infatti, quello di condividere o non condividere a ricostruzione degli accadimenti contenuti nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dal giudice del merito (cfr. Cass. n. 3267 del 2008); dovendo invece il giudice di legittimità limitarsi a controllare se costui abbia dato conto delle ragioni della sua decisione e se il ragionamento probatorio, da esso reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto entro i limiti del ragionevole e del plausibile; ciò che appunto, nel caso di specie, è dato riscontrare (cfr. Cass. n. 9275 del 2018).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Improcedibilità e inammissibilità dell’appello per violazione dell’art. 345 c.p.c.. Illogicità e contraddittorietà della motivazione (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)”, in quanto, nell’atto di appello, le conclusioni erano diverse rispetto a quelle dell’atto di citazione di primo grado, avendo l’appellante detratto dalle proprie pretese creditorie il costo per l’eliminazione dei vizi stimati in Euro 2.950,00; così formulando una richiesta di pagamento di ipotetico giusto indennizzo per i lavori effettuati, che costituirebbe domanda nuova, con violazione del divieto imposto dall’art. 345 c.p.c..

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – La Corte d’appello ha, correttamente, rilevato che la pretesa, fatta valere in detto grado dall’appellante, fosse riduttiva rispetto a quella azionata in primo grado, non ricomprendendo alcune voci. Infatti, secondo l’orientamento di questa Corte, non costituisce domanda nuova in appello la mera precisazione quantitativa del petitum (in senso riduttivo) che si collega necessariamente all’evento iniziale di cui rappresenta il naturale sviluppo, atteso che il divieto di domande nuove in appello si riferisce a quelle che potevano essere proposte e non pure alle domande che traggono origine da una normativa o da un evento sopravvenuti (Cass. n. 11470 del 2014; Cass. n. 8978 del 2003; v. anche Cass. n. 15792 del 2002).

3. – Il ricorso va, quindi, rigettato. Nulla per le spese in ragione del fatto che l’intimato C.T. non ha svolto alcuna difesa. Va emessa altresì la dichiarazione ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Ex D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2020

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