Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18473 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. II, 04/09/2020, (ud. 15/01/2020, dep. 04/09/2020), n.18473

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20270-2019 proposto da:

T.A.N., rappresentato e difeso dall’Avvocato CRISTINA

TARCHINI ed elettivamente domiciliato a Roma, largo Somalia 53, per

procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO e PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO

LA CORTE D’APPELLO DI BRESCIA;

– intimati –

avverso la SENTENZA n. 1961/2018 della CORTE D’APPELLO DI BRESCIA,

depositata il 19/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 15/1/2020 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

T.A.N., nato in Gambia il 16/9/1987, ha impugnato il provvedimento con il quale, in data 31/8/2016, la commissione territoriale ha respinto la sua domanda di protezione internazionale.

Il tribunale di Brescia, con ordinanza del 16/12/2016, ha rigettato le domande proposte.

L’istante, con atto di citazione notificato il 20/1/2017, ha proposto appello al quale ha resistito il ministero dell’interno, chiedendone il rigetto.

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.

T.A.N., con ricorso notificato in data 17/6/2019, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza, dichiaratamente non notificata.

Il ministero dell’interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha erroneamente applicato la normativa in materia di status di rifugiato per quanto riguarda l’onere della prova.

1.2. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 infatti, ha osservato il ricorrente, fa carico al richiedente di presentare tutti gli elementi ed i documenti necessari a sorreggere la domanda di protezione, affidando, al contempo, all’autorità esaminante un ruolo attivo ed integrativo nell’istruzione della domanda stessa tramite l’assunzione di tutte le informazioni e la documentazione reperibile per verificare la sussistenza delle condizioni della protezione internazionale.

1.3. Nel caso in esame, il richiedente aveva posto alla base delle sue richieste di protezione internazionale il grave rischio di subire persecuzione a causa dei suoi comportamenti omosessuali, producendo, in grado d’appello, copia di un mandato d’arresto dal quale si evinceva la veridicità di quanto affermato.

1.4. La corte, invece, ha ritenuto del tutto apoditticamente e senza alcun riscontro che tale documento non era genuino e, comunque, in contrasto con quanto precedentemente dichiarato dall’interessato.

1.5. In realtà, ha osservato il ricorrente, v’è agli atti una dichiarazione scritta in lingua inglese con la quale l’interessato, dichiarando di averla scritta di suo pugno, precisava di essere riuscito a sfuggire ai poliziotti che l’avevano fermato.

1.6. Gli elementi di fatti cui il richiedente si è richiamato nelle proprie dichiarazioni e i documenti prodotti non sono stati, quindi, ha concluso il ricorrente, sufficientemente esaminati ed approfonditi dalla corte, che si è limitata ad affermazioni generiche ed apodittiche per escludere sostanzialmente la credibilità del racconto del ricorrente.

2.1. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha ritenuto applicabile alla fattispecie le disposizioni previste dall’art. 14 cit. in tema di protezione sussidiaria, giudicando che i fatti narrati dal richiedente siano di natura personale e non abbiano rilievo ai fini della protezione invocata.

2.2. Tale normativa, al contrario, ha osservato il ricorrente, risulta applicabile al caso in esame sotto almeno due aspetti che la corte d’appello ha mancato di esaminare, posto che il ricorrente, rientrando in Patria, rischierebbe di essere tratto in arresto o, comunque, di essere ucciso dai familiari dei due amici uccisi.

2.3. Innanzitutto, la vicenda del ricorrente sembra poter rientrare nella previsione di cui alla lett. b) della disposizione citata, secondo la quale sono da considerarsi danni gravi “la tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante a danni del richiedente nel suo Paese di origine”. La situazione giudiziaria e penitenziaria del Gambia all’epoca dei fatti era, ed è tutt’ora, molto grave e numerosissimi sono i casi di gravi maltrattamenti e vere e proprie torture subite dai detenuti nelle carceri, con la conseguenza che i fatti narrati dal ricorrente costituiscono chiaro indizio del pericolo che egli correrebbe qualora tornasse in Patria.

2.4. Sotto altro profilo, ha aggiunto il ricorrente, nella fattispecie trova applicazione anche la lett. c) della norma citata, che attiene al quadro generale del Paese d’origine e che la corte d’appello ha del tutto omesso di considerare. Anche se il Gambia non si trova più sottoposto alla durissima dittatura esistente al momento in cui il richiedente lasciò il Paese, persiste, comunque, un quadro di grave incertezza e pericolosità generale rappresentato dalla conservazione di molti poteri nelle mani degli uomini legati al deposto dittatore.

2.5. Una situazione, quindi, ha concluso il ricorrente, che dovrebbe portare a riconoscere al richiedente la protezione sussidiaria.

3.1. Il primo motivo ed il secondo motivo, da trattare congiuntamente, non sono fondati.

3.2. In tema di protezione internazionale, infatti, l’accertamento del giudice del merito deve avere, anzitutto, ad oggetto la credibilità soggettiva del richiedente, che ha l’onere di compiere ogni ragionevole sforzo per circostanziare la domanda D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. a) essendo possibile solo in tal caso considerare “veritieri” i fatti narrati (cfr. Cass. n. 27503 del 2018). Nel caso di specie, il giudice di merito ha ritenuto, sulla scorta degli esposti principi, che il racconto svolto dal richiedente non fosse credibile: ed è noto che la relativa valutazione di inattendibilità costituisca un apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimità se non per omesso esame di fatti decisivi, nella specie neppure dedotti. Nè può in senso contrario rilevare la copia del mandato d’arresto, che la corte ha ritenuto non genuino e del quale, invece, il ricorrente ribadisce la veridicità in quanto dimostrativo di un circostanza, e cioè l’arresto, già riferita con una dichiarazione in lingua inglese resa al momento della presentazione della richiesta di protezione. Il ricorrente, infatti, che pure ne lamenta il mancato esame, non ne riproduce, nella misura idonea, il contenuto: ed è, invece, noto che il ricorrente, il quale denunci in sede di legittimità l’omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, anche ove intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, è onerato, a pena d’inammissibilità del ricorso, non solo della specifica indicazione del documento e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti e dei documenti così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (Cass. n. 14107 del 2017; Cass. n. 20914 del 2019).

3.3. Nessuna violazione del principio di attenuazione dell’onere probatorio è stata, inoltre, compiuta dalla corte d’appello, tenuto conto che, in presenza di dichiarazioni che siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri probatori: in effetti, in materia di protezione internazionale, l’accertamento del giudice di merito deve innanzi tutto avere ad oggetto la credibilità soggettiva della versione del richiedente circa l’esposizione a rischio grave alla vita o alla persona: qualora le dichiarazioni siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 non occorre procedere ad un approfondimento istruttorio officioso circa la prospettata situazione persecutoria nel Paese di origine, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. n. 16925 del 2018).

3.4. La corte d’appello, del resto, ha provveduto a svolgere accertamenti sul punto rilevando che “la situazione del Gambia” “è nel frattempo mutata” e che “i potenziali rischi di persecuzione appaiono superati dagli eventi e non rilevanti nel caso”: in particolare, venuta meno la dittatura di Jammeh – che durava da oltre ventidue anni e che aveva determinato una situazione di violazione dei diritti umani con sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, tortura, attacchi alla libertà di espressione, imposizione della sharia, in un clima di impunità la corte ha ritenuto che la situazione fosse radicalmente cambiata con l’intervento dell’esercito senegalese il 20 gennaio del 2017, che rimetteva al potere il presidente eletto A.B., “che ha fondato il suo programma elettorale sulla immediata reintroduzione delle libertà civili e democratiche negate dal predecessore”. Il radicale mutamento della situazione interna, quindi, ha aggiunto la corte d’appello, non può non assumere diretta rilevanza ai fini della decisione sulla domanda di protezione avanzata dal richiedente: a fronte di dichiarazioni ed impegni pubblici e formali da parte della nuova dirigenza di quel paese, infatti, ha osservato la corte, “è… ragionevole ritenere che, progressivamente, le condizioni di repressione e violazione dei diritti civili ed umani verrà meno”, e segnali in tal senso sono desumibili dalla consultazione del rapporto annuale 2017-2018 di Amnesty International per il Gambia nel quale, tra l’altro, si legge che i poteri di detenzione precedentemente attribuiti all’agenzia di intelligence nazionale sono stati revocati con un’apposita direttiva del Governo e che il Governo ha varato un programma sull’educazione sessuale, impegnandosi ad una campagna di informazione per contrastare il fenomeno della mutilazione genitale femminile. Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto, non censurato dal ricorrente per omesso esame di uno o più fatti decisivi, a fronte del quale la decisione assunta dal giudice di merito si sottrae alle censure svolte in ricorso. In effetti, il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, comma 1, lett. g) ed h), e, in termini identici, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2, comma 1, lett. f) e g), definiscono “persona ammissibile alla protezione sussidiaria” il cittadino straniero che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato, ma nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese di origine, correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno e non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto Paese. Il D.Lgs. n. 251 cit., art. 14, comma 1, a sua volta, dispone che il “danno grave” sussiste, tra l’altro, nell’ipotesi di “b)… tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine” e di “c)… minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. Nel caso di specie, non è risultato, in punto di fatto, nè che il ricorrente corra il rischio effettivo di essere assoggettato, in caso di arresto, a tortura o ad altra forma di pena o trattamento inumano o degradante, che non ha neppure dedotto, nè che lo stesso, in caso di rientro in patria, possa ricevere una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona in ragione della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale. Ed è, invece, noto, che, in materia di riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero, al fine d’integrare i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), pur non essendo necessario che lo straniero fornisca la prova di essere esposto ad una persecuzione diretta, grave e personale, poichè tale requisito è richiesto solo ai fini del conseguimento dello status di rifugiato politico, è necessario (e sufficiente) che risulti provato, con un certo grado di individualizzazione, che il richiedente, ove la tutela gli fosse negata, rimarrebbe esposto a rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti (Cass. n. 16275 del 2018). In particolare, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), dev’essere interpretata nel senso che il conflitto armato interno rileva solo se, eccezionalmente, possa ritenersi che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, per cui il grado di violenza indiscriminata deve aver raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Cass. n. 18306 del 2019; Cass. n. 9090 del 2019; Cass. n. 14006 del 2018): ciò che, nel caso di specie, non è emerso in fatto. D’altra parte, in tema di protezione internazionale, ai fini della dimostrazione della violazione del dovere di collaborazione istruttoria gravante sul giudice di merito, non può procedersi alla mera prospettazione, in termini generici, di una situazione complessiva del Paese di origine del richiedente diversa da quella ricostruita dal giudice, sia pure sulla base del riferimento a fonti internazionali alternative o successive a quelle utilizzate dal giudice e risultanti dal provvedimento decisorio: il ricorrente, piuttosto, ha l’onere (rimasto, nella specie, inadempiuto) di formulare la censura dando atto, in modo specifico, degli elementi di fatto idonei a dimostrare che il giudice di merito abbia deciso sulla base di informazioni non più attuali, dovendo la censura contenere precisi richiami, anche testuali, alle fonti alternative o successive proposte, in modo da consentire alla S.C. l’effettiva verifica circa la violazione del dovere di collaborazione istruttoria (Cass. n. 26728 del 2019).

4.1. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha correttamente esaminato la ricorrenza dei requisiti per la protezione umanitaria.

4.2. Il ricorrente, infatti, aveva evidenziato, durante la sua audizione in commissione, tutti i gravissimi motivi che l’avevano indotto a fuggire dal suo Paese e persistono ancora, tanto che non gli consentono di tornare.

4.3. Nell’attuale situazione del Gambia, infatti, caratterizzata da ripetute violazione dei diritti umani, il ricorrente, ove dovesse fare ritorno nel proprio Paese d’origine, correrebbe il serio rischio, per la condizione di particolare fragilità e vulnerabilità nella quale versa, di non poter realizzare i fondamentali diritti alla casa, al lavoro, alla salute e alla vita stessa, tanto più a fronte del suo radicamento sul territorio nazionale, dove risiede da molti anni e lavora regolarmente.

4.4. Il nuovo giudizio di merito, ha concluso il ricorrente, deve, quindi, procedere ad una più approfondita comparazione delle diverse motivazioni a sostegno della domanda di protezione umanitaria.

5. Il motivo è infondato. La corte d’appello, infatti, ha accertato che nessun elemento concreto è stato addotto dal richiedente a sostegno della sua situazione di vulnerabilità, aggiungendo, peraltro, che lo stesso “è persona di 31 anni, non ha problemi di salute, nè particolari problemi di sradicamento”. Si tratta, com’è evidente, di un accertamento in fatto che può essere denunciato, in sede di legittimità, solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, e cioè per omesso esame di una o più di circostanze la cui considerazione avrebbe consentito, secondo parametri di elevata probabilità logica, una ricostruzione dell’accaduto idonea ad integrare gli estremi della fattispecie rivendicata: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto, non avendo il ricorrente, nel rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, specificamente indicato i fatti, principali ovvero secondari, il cui esame sia stato omesso dal giudice di merito nonchè il “dato”, testuale o extratestuale, da cui gli stessi risultino esistenti, il “come” e il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti ed, infine, la loro “decisività” (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 20188 del 2017, in motiv.).

6. Il ricorso, per l’infondatezza di tutti i motivi nei quali risulta articolato, dev’essere, quindi, rigettato.

7. Nulla per le spese di lite, non avendo il ministero resistente svolto alcuna attività difensiva.

8. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Seconda Sezione Civile, il 15 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2020

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