Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18465 del 30/06/2021

Cassazione civile sez. trib., 30/06/2021, (ud. 11/05/2021, dep. 30/06/2021), n.18465

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello – Consigliere –

Dott. FRAULINI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5510/15 R.G. proposto da:

R.A., rappresentato e difeso, giusta procura rilasciata

in calce al ricorso, dall’avv. Marco Machetta, con domicilio eletto

presso il suo studio, in Roma, alla via degli Scipioni, n. 110;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è elettivamente

domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale del Lazio

n. 753/38/14 depositata in data 11 febbraio 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 11 maggio

2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con sentenza in epigrafe indicata, la Commissione tributaria regionale del Lazio accolse l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate e respinse quello di R.A. avverso la pronuncia n. 488/12/11, con la quale la Commissione tributaria provinciale di Roma aveva parzialmente accolto il ricorso spiegato dal contribuente avverso l’avviso di accertamento, relativo all’anno di imposta 2003, con il quale l’Amministrazione aveva accertato l’omessa dichiarazione di una plusvalenza da cessione di azienda perfezionatasi in data 4 agosto 2003, per un valore di Euro 62.300,00, nonchè avverso il correlato avviso di contestazione di sanzione, irrogata, ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 11, lett. c), in conseguenza della mancata risposta all’invito n. (OMISSIS) con cui era stata preventivamente richiesta la documentazione contabile relativa all’azienda ceduta.

Con atto di intervento in corso di causa, il contribuente impugnò anche la cartella di pagamento recante l’iscrizione provvisoria a ruolo delle somme dovute in pendenza di giudizio.

A sostegno del ricorso di primo grado il contribuente aveva svolto rilievi sia con riferimento al preteso difetto di motivazione dell’atto impositivo sia con riguardo alle modalità di calcolo della plusvalenza, per non avere l’Ufficio tenuto conto del prezzo di acquisto dell’azienda, procedendo al recupero a tassazione dell’intero corrispettivo conseguito; quanto all’atto di contestazione della sanzione, dedusse di non avere mai ricevuto il preventivo invito.

La Commissione tributaria provinciale, a seguito di costituzione in giudizio dell’Agenzia delle entrate – previa dichiarazione di inammissibilità dell’opposizione alla cartella di pagamento, siccome effettuata nella forma dell’intervento in giudizio, anzichè attraverso autonoma impugnazione ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19 – aveva ritenuto legittima la ripresa a tassazione della plusvalenza non dichiarata con il limite della determinazione del valore imponibile sulla base del prezzo d’acquisto dell’azienda riportato nell’atto di cessione.

2. I giudici d’appello, nel riformare la predetta sentenza, osservarono che in materia di tassazione delle plusvalenze da cessione d’azienda, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 16, aveva una portata innovativa rispetto al pregresso regime, perchè consentiva al contribuente persona fisica un’opzione tra tassazione ordinaria e tassazione separata, scelta che, qualora fosse caduta sulla tassazione separata, avrebbe dovuto essere espressa in modo univoco e concludente con una manifestazione di volontà tempestiva, trattandosi di beneficio per il contribuente, come tale consentito solo nei casi previsti ed alle condizioni stabilite dal legislatore, non potendo trovare applicazione, in tale ipotesi, il D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, art. 1, che, nell’attribuire rilevanza ai comportamenti concludenti del contribuente, si riferiva soltanto ai regimi di determinazione delle imposte o ai regimi contabili e non poteva trovare applicazione con riferimento alle modalità di pagamento delle imposte, quale era il beneficio della tassazione separata.

Ritennero, quindi, non assolto dal contribuente tale onere e non rilevante il costo di acquisto dell’azienda, riferibile, invece, al calcolo della plusvalenza da cessione di terreni edificabili.

4. Contro tale pronuncia R.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

In prossimità dell’adunanza camerale il contribuente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, il ricorrente deduce “omessa e/o insufficiente motivazione sui motivi di gravame decisivi per il giudizio: artt. 112,116 e 132 e ss. c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, e dell’art. 360 c.p.c., n. 5”.

Lamenta che con il ricorso in appello aveva chiesto la riforma della sentenza di primo grado nella parte in cui aveva omesso di valutare la questione relativa alla “remissione in termini in favore dell’amministrazione finanziaria”, atteso che i giudici provinciali si erano limitati a rilevare l’errore di calcolo della plusvalenza, autorizzando l’amministrazione finanziaria a procedere alla rideterminazione della plusvalenza, anzichè procedere all’annullamento dell’atto impositivo.

I giudici regionali avevano omesso ogni valutazione sia in ordine alla mancata considerazione del prezzo d’acquisto dell’azienda, dimostrato mediante l’allegazione e il deposito della scrittura privata del 28 settembre 1991, sia in ordine alla “illegittima rimessione in termini concessa dalla Commissione provinciale”, incorrendo nei vizi denunciati in rubrica.

1.1. Giova rammentare che costituisce ius receptum di questa Corte l’affermazione per cui il processo tributario va declinato non già come impugnazione di annullamento, bensì come impugnazione di merito, in quanto non circoscritta alla eliminazione dell’atto impugnato, ma diretta ad una pronuncia di merito sostitutiva dell’accertamento dell’amministrazione finanziaria. Pertanto, il giudice tributario che ravvisi la parziale infondatezza – non anche, evidentemente, l’assoluta nullità – della pretesa fiscale dell’amministrazione, non può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma è tenuto a quantificare la corretta pretesa tributaria, sia pure entro i confini tracciati dai patita delle parti (Cass., sez. 5, 13/07/2012, n. 11949; cfr. Cass., sez. 5, 2/07/2014, n. 15038; Cass., sez. 5, 20/10/2011, n. 21759; Cass., sez. 5, 9/06/2010, n. 13868; Cass., sez. 5, 17/10/2008, n. 25376; Cass., sez. 5, 16/05/2007, n. 11212; Cass., sez. 5, 18/09/2003, n. 13816).

In particolare, si è anche di recente chiarito (Cass. sez. 5, 9/02/2021, n. 3080), che il processo tributario non ha natura esclusivamente impugnatoria e di legalità formale, ma di “impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio (Cass., sez. 5, 19/09/2014, n. 19750; Cass., sez. 5, 28/06/2016, n. 13294; Cass., sez. 6-5, 15/10/2018, n. 25629; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27560; Cass., sez. 5, 10/09/2020, n. 18777; Cass., sez. 5, 6/04/2020, n. 7695), sicchè spetta al giudice il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva in modo da adottare una pronuncia sostitutiva sulla sussistenza ed entità dei presupposti della pretesa fiscale. Qualora, pertanto, il giudice ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, restando, peraltro, esclusa dall’art. 35, comma 3, ultimo periodo, del D.Lgs. n. 546 del 1992, la pronuncia di una sentenza parziale solo sull’an o di una condanna generica (Cass., sez. 6-5, 15/10/2018, n. 25629; Cass., sez. 5, 24/01/2018, n. 1728, in motivazione).

1.2. Invero, i giudici di appello, avendo accolto il gravame di merito dell’Agenzia delle entrate, hanno integralmente confermato l’atto impositivo, in tal modo implicitamente rigettando la doglianza rivolta dal contribuente alla sentenza di primo grado riguardo alla “rimodulazione” della pretesa tributaria, cosicchè non è ravvisabile un vizio di omessa pronuncia di cui all’art. 112 c.p.c..

1.3. Deve pure escludersi il denunciato difetto assoluto di motivazione – che ricorre quando il giudice omette di esporre i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire al dictum reso – in quanto, seppure sintetiche, le argomentazioni della C.T.R. per addivenire all’accoglimento dell’appello dell’Ufficio, richiamando i principi disciplinanti la vicenda, sono articolate ed esaustive e non sono affette dalle lamentate anomalie motivazionali.

2. Con il secondo motivo si denuncia “erronea e/o falsa applicazione del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, art. 1 e del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 17, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”.

Sostiene il ricorrente che la Commissione regionale, ritenendo la necessità di un’espressa dichiarazione da parte del contribuente che intenda imputare la tassazione al regime delle imposte separate, avrebbe disconosciuto il principio fissato dal D.P.R. n. 422 del 1997, cit. art. 1, che prevede che l’opzione e la revoca dei regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili si desumono da comportamenti concludenti, e non avrebbe fatto buon governo dell’art. 17 t.u.i.r., che non richiede una dichiarazione esplicita, bensì la compilazione univoca della dichiarazione dei redditi. Assume che tale onere era stato pienamente assolto mediante imputazione del ricavo conseguente alla cessione di azienda nel reddito complessivo della persona fisica, essendo l’impresa venuta meno in seguito alla cessione.

2.1. Parimenti infondato è il secondo motivo.

2.2. Come emerge dalla sentenza impugnata, l’avviso di accertamento oggetto di impugnazione trae origine dalla omessa indicazione, da parte del contribuente, della plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda.

Vertendosi, nel caso in esame, in ipotesi di plusvalenza conseguita da imprenditore individuale, l’art. 86 t.u.i.r., a cui rimanda lo stesso t.u.i.r., art. 58, comma 1, in alternativa al regime di tassazione ordinario ovvero alla rateizzazione, prevede la possibilità di assoggettamento della plusvalenza a tassazione separata, che comporta che il presupposto imponibile non confluisce nel reddito complessivo, assoggettato a reddito Irpef con le ordinarie aliquote progressive, bensì viene tassato “a parte”, sulla base di un’aliquota fiscale determinata ai sensi dell’art. 21 t.u.i.r., comma 1.

In base al combinato disposto di quest’ultima norma con il medesimo testo unico, art. 17, comma 1, lett. g), tuttavia, la possibilità di optare per la tassazione separata è esercitabile solo in presenza di determinati presupposti: a) dal punto di vista soggettivo, che il cedente che realizza la plusvalenza sia una persona fisica (poichè l’opzione non è esercitabile da soggetti societari); b) dal punto di vista oggettivo, che l’azienda ceduta risulti posseduta da più di cinque anni dal cedente; c) in caso di imprenditore individuale, come nella specie, all’ulteriore condizione che ne sia fatta richiesta nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo di imposta nel quale la plusvalenza sarebbe imputabile come componente di reddito di impresa.

Dal contesto normativo sopra delineato si evince che il regime naturale della tassazione risulta quello ordinario, salvo che l’imprenditore, attraverso una manifestazione di volontà da esprimere nella dichiarazione, opti per la tassazione separata.

A tale riguardo, come affermato da questa Corte (cfr., sul punto, Cass., sez. 5, 20/01/2011, n. 1214; Cass., sez. 5, 30/11/2018, n. 31061), in materia di tassazione delle plusvalenze da cessione d’azienda, il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16 (ora art. 17), ha una portata innovativa rispetto al pregresso regime poichè consente al contribuente persona fisica un’opzione tra tassazione ordinaria e tassazione separata, scelta però che, qualora cada sulla tassazione separata, deve essere espressa in modo univoco e concludente “con una manifestazione di volontà tempestiva”, trattandosi di un beneficio per il contribuente che, come tale, è consentito solo nei casi previsti dal legislatore. E ciò in quanto l’opzione per la tassazione separata si configura quale dichiarazione di volontà, c.d. opzione negoziale, per un regime fiscale alternativo.

2.3. Nel caso di specie, non solo è pacifico, in fatto, ed è stato anche accertato dai giudici di appello, che non è intervenuta una espressa e tempestiva opzione per la tassazione separata, ma neppure può trovare applicazione la norma del D.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, art. 1, invocata dal contribuente.

Tale ultima disposizione stabilisce che: “L’opzione e la revoca di regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili si desumono da comportamenti concludenti del contribuente o dalle modalità di tenuta delle scritture contabili”; contemplando solo i regimi di determinazione dell’imposta o di regimi contabili, essa non può trovare applicazione con riferimento alle modalità di pagamento dell’imposta, quale è il beneficio della tassazione separata.

La sentenza impugnata si sottrae, pertanto, alla censura svolta con il mezzo in esame, avendo correttamente il giudice d’appello rilevato che, a norma del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 17, la plusvalenza realizzata mediante cessione a titolo oneroso di azienda può essere assoggettata a tassazione separata a condizione che ne sia fatta richiesta, condizione nel caso in esame mancante.

3. Con il terzo motivo censura la decisione impugnata per falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 86, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, facendo rilevare, in primo luogo, l’inapplicabilità di tale disposizione al caso in esame e, in secondo luogo, che la norma, indicando espressamente il costo non ammortizzato dei beni, intende includere anche gli acquisti a titolo oneroso, quali quelli relativi all’acquisto dell’azienda, il cui prezzo non risulta ammortizzato nel corso del tempo.

3.1. Anche tale censura è infondata.

Ai fini della quantificazione della plusvalenza occorre fare riferimento ai criteri generali dettati dall’art. 86 t.u.i.r., cit. comma 2, primo periodo, in base al quale la plusvalenza è data dalla differenza tra il corrispettivo pattuito, al netto degli oneri accessori di diretta imputazione, ed il costo non ammortizzato dei beni costituenti l’azienda stessa.

Ciò che rileva ai fini del calcolo sopra evidenziato è, quindi, l’ultimo valore fiscalmente riconosciuto dei beni facenti parte dell’azienda, e non quello contabile, con la conseguenza che, qualora i valori civili e fiscali dei beni aziendali al momento della cessione non fossero tra loro allineati, la plusvalenza rilevata in sede civilistica potrebbe non coincidere con quella determinata ai fini fiscali, che costituisce la base su cui determinare le imposte dovute.

Ne discende la piena legittimità del recupero fiscale, non assumendo rilievo, come rilevato dalla C.T.R., ai fini del calcolo della plusvalenza il costo di acquisto dell’azienda – nel caso di specie documentato dal contribuente – al quale si deve avere riguardo con riferimento al calcolo della plusvalenza da cessione di terreni edificabili a titolo oneroso.

4. Conclusivamente, il ricorso va integralmente rigettato, con condanna del ricorrente al rimborso, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

PQM

rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2021

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