Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18464 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. II, 04/09/2020, (ud. 09/01/2020, dep. 04/09/2020), n.18464

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARRATO Aldo – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. CARBONE Enrico – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5016-2016 proposto da:

IMMOBILIARE SAN GALDINO SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

E.DE CAVALIERI 11/7, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO PETRONI,

che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO DE

SANNA giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EUROCOMP & IND. SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

FLAMINIA 466, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO VACCARO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GABRIELLA MARIA SORDO

in virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3314/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 28/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/01/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie della ricorrente.

 

Fatto

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO

1. La Eurocomp & Ind. S.p.A. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Immobiliare San Galdino S.r.l. affinchè fosse accertato che il contratto preliminare del 14/12/2007 si era risolto, atteso l’avveramento della condizione risolutiva di cui all’art. 3, con la condanna della convenuta alla restituzione della somma versata a titolo di caparra confirmatoria.

Si costituiva la convenuta che concludeva per il rigetto della domanda ed in via riconvenzionale chiedeva il risarcimento del danno scaturente dalla condotta inadempiente e contraria a buona fede dell’attrice.

Chiedeva di essere autorizzata alla chiamata in causa della Pirelli & C. S.p.A., che in precedenza le aveva venduto il bene oggetto di causa, al fine di essere garantita per l’ipotesi di accoglimento della domanda attorea.

Si costituiva la terza chiamata che concludeva per il rigetto delle richieste della convenuta.

Il Tribunale adito con la sentenza n. 2856 del 1-marzo 2013, ha accertato l’avveramento della condizione risolutiva e stante l’inefficacia del contratto, ha condannato la San Galdino alla restituzione della caparra con gli interessi legali, disattendendo altresì la domanda di garanzia.

A seguito di appello della convenuta, la Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 3314 del 28 luglio 2015, ha rigettato il gravame, con la condanna alle spese del grado.

Rilevava che il preliminare di vendita immobiliare aveva ad oggetto un’area industriale con potenzialità edificatoria e che a fronte del prezzo di Euro 4.650.000,00 era stata concordata una caparra di Euro 200.000,00 contestualmente versata.

All’art. 3 si sottoponeva la vendita alla condizione risolutiva rappresentata dal mancato rilascio del permesso di costruire secondo la potenzialità edificatoria attesa, entro il termine del 30/3/2008, termine che era stato consensualmente prorogato al 30/7/2008.

La Corte d’Appello, condividendo la valutazione del Tribunale, reputava che le parti avessero previsto una condizione risolutiva di efficacia mista, atteso che il suo avveramento in parte dipendeva dal potere discrezionale della PA ed in parte dalla condotta della promittente venditrice, tenuta ad attivarsi presso il Comune per il rilascio del provvedimento edificatorio. In tal senso, alla luce dello specifico interesse della convenuta, l’evento condizionante era il conseguimento, nel termine pattuito, di un titolo abilitativo efficace ed idoneo a consentire l’inizio dei lavori di costruzione, evento che non poteva ritenersi soddisfatto per effetto della comunicazione del Comune di (OMISSIS) dell’11 settembre 2008.

Ad avviso della Corte territoriale non poteva accedersi alla tesi dell’appellante secondo cui tale comunicazione era idonea a far ritenere non avverata la condizione risolutiva, essendo frutto di un’erronea interpretazione della volontà dei contraenti quella di subordinare l’avveramento alla concreta possibilità di inizio dei lavori da parte della promissaria acquirente.

In tal senso rilevava che non poteva darsi rilievo alla formale denominazione del provvedimento condizionante come permesso di costruire, essendo altresì necessario considerare che il certificato di avvenuta bonifica del terreno, che ancora era mancante alla data dell’11 settembre 2008, non era imposto dalla legge quale condizione di efficacia del permesso di costruire.

La sentenza, dopo avere richiamato il contenuto della previsione di cui all’art. 1358 c.c., escludeva che la comunicazione del Comune dell’11 settembre avesse valore di permesso di costruire, emergendo anzi che la mancata presentazione della documentazione ancora mancante comportava la decadenza dalla DIA, potendo i lavori iniziare solo dopo la produzione del certificato di bonifica.

Non rilevava che effettivamente tale documentazione fosse necessaria, ma importava che la PA si era espressa in tal senso, mancando quindi un valido titolo per l’inizio dei lavori.

In tal senso rilevava anche la condotta delle parti che, se avessero ritenuto soddisfatto il requisito di efficacia del contratto, avrebbero provveduto alla stipula del definitivo, laddove, invece, avevano concordato uno slittamento del termine, a conferma del comune convincimento della mancata definizione dell’iter amministrativo, al cui perfezionamento doveva obbligatoriamente concorrere la società appellante.

Peraltro la documentazione richiesta non era pervenuta al Comune anche dopo la data prorogata e sin anche alla data in cui la società attrice aveva comunicato la volontà di risolvere il rapporto.

Doveva invece escludersi la mala fede dell’appellata, posto che il mancato avveramento della condizione era frutto del comportamento omissivo della controparte, emergendo anzi che l’interesse della promissaria acquirente all’affare l’aveva indotta ad una proroga del termine, avendo quindi legittimamente manifestato il proprio interesse alla cessazione del vincolo, una volta decorso anche il termine prorogato, esercitando un proprio diritto.

Infine, disattendeva l’appello anche quanto al rigetto della domanda di garanzia, osservando che la P. nell’atto di vendita del 27 ottobre 2004 si era impegnata a bonificare a propria cura e spese l’area alienata solo se fossero stati riscontrati valori di inquinamento superiori ai limiti previsti per le aree industriali a seguito di test da eseguirsi entro e non oltre la data del 31/12/2004.

Entro tale data non era stato richiesto alcun controllo, nè era emersa una situazione tale da imporre interventi di bonifica.

Sebbene tale obbligo fosse ormai venuto meno per la decorrenza della data concordata, la P. aveva acconsentito nel dicembre del 2008 a chiedere lo stralcio dell’area alienata alla San Galdino dal procedimento di bonifica che riguardava altre sue proprietà in zona, ricevendo un parere favorevole dall’Arpa e dalla Provincia di Milano, mostrando in tal modo la propria volontà collaborativa.

L’assenza di fenomeni di inquinamento, se valorizzata dalla San Galdino avrebbe consentito di sbloccare la situazione relativa al rilascio del provvedimento edificatorio nei rapporti con la società attrice, ma alcun addebito poteva essere mosso nei confronti della terza chiamata.

Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Immobiliare San Galdino S.r.l. sulla base di cinque motivi.

La Eurocomp & Ind. S.p.A. ha resistito con controricorso.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 1358 c.c. nella parte in cui, qualificata la condizione di cui all’art. 3 del contratto come condizione potestativa mista, ha attribuito alla ricorrente la responsabilità del suo mancato avveramento, senza valutare la sussistenza dell’obbligo di comportarsi secondo buona fede ex art. 1358 c.c. anche da parte della promissaria acquirente.

Inoltre sarebbe stata omessa o erronea la valutazione di fatti pacifici rappresentati dalla circostanza che la San Galdino aveva affidato alla stessa Eurocomp il mandato per gestire ogni aspetto afferente alla DIA, come confermato dal fatto che tutta la corrispondenza al riguardo intercorsa con il Comune e la Provincia era indirizzata anche all’arch. Battaglia, professionista di fiducia della promissaria acquirente.

Il motivo è infondato.

Per dedurre la violazione del paradigma dell’art. 115 è necessario denunciare che il giudice non abbia posto a fondamento della decisione le prove dedotte dalle parti, cioè abbia giudicato in contraddizione con la prescrizione della norma, il che significa che per realizzare la violazione deve avere giudicato o contraddicendo espressamente la regola di cui alla norma, cioè dichiarando di non doverla osservare, o contraddicendola implicitamente, cioè giudicando sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte invece di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (fermo restando il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio, previsti dallo stesso art. 115 c.p.c.), mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato.atti “valutazione delle prove” (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. S.U. n. 16598/2016).

Compiuta tale premessa, che consente di affermare che nella fattispecie non ricorre la dedotta violazione delle norme indicate, quanto invece alla censura che investe l’erronea applicazione dell’art. 1358 c.c., non può che partirsi dall’esito ermeneutico al quale è approdata la Corte distrettale, che ha ritenuto, conformemente al Tribunale, che la previsione di cui all’art. 3 del preliminare aveva dato vita ad una condizione risolutiva mista, rappresentata dal rilascio di un titolo abilitativo dell’edificazione (la cui esatta individuazione è oggetto invece dei motivi che seguono), ed il cui avveramento in parte dipendeva dall’esercizio della discrezionalità della PA ed in parte, per il segmento potestativo, dalla condotta doverosa della promittente venditrice, che doveva attivarsi al fine di avviare il relativo procedimento amministrativo ed a compiere tutti gli atti necessari per il rilascio del provvedimento, che nel contratto era indicato come permesso di costruire.

La sentenza, inoltre, pur dando atto che il rilascio del permesso rispondeva all’interesse dell’acquirente allo sfruttamento delle potenzialità edificatorie dell’area promessa in vendita, ha ritenuto, per la parte rimessa all’attività della ricorrente, che la stessa dovesse improntare la propria condotta al rispetto del principio della buona fede ex art. 1358 c.c., attesa anche l’esistenza di un obbligo giuridico sulla stessa gravante di far sì che il procedimento amministrativo avesse un buon esito.

Trattasi di affermazione di principio che trova corrispondenza nella giurisprudenza di questa Corte che (Cass. n. 3207/2014) ha affermato che la parte che si è obbligata o ha alienato un bene sotto la condizione del rilascio delle autorizzazioni amministrative necessarie alle finalità economiche dell’altra parte deve compiere, secondo buona fede, tutte le attività che da lei dipendono per l’avveramento della condizione, senza impedire che la P.A. provveda sul rilascio delle autorizzazioni, potendo l’altra parte, in caso contrario, chiedere la risoluzione del contratto e il risarcimento dei danni, da accertare con il criterio della regolarità causale, ove risulti, in base alla situazione esistente nel momento in cui si è verificato l’inadempimento, che la condizione avrebbe potuto avverarsi, mediante il legittimo rilascio delle autorizzazioni (conf. Cass. n. 6676/1992).

Tale regola, relativa all’ipotesi di alienazione sottoposta alla condizione sospensiva del rilascio del provvedimento amministrativo, ed in relazione alla posizione dell’alienante, deve però fare i conti con la ricostruzione della volontà delle parti operata in sentenza, che ha, come detto, ritenuto che fosse la stessa ricorrente tenuta doverosamente a prestare la propria fattiva collaborazione in tutta la fase procedimentale, adempiendo con sollecitudine alle richieste provenienti dalla PA.

Appare, quindi, pertinente il richiamo a quanto affermato da questa Corte (Cass. n. 4110/2001), secondo cui colui che si è obbligato sotto la condizione sospensiva del rilascio di una determinata autorizzazione amministrativa, necessaria perchè si realizzi la finalità economica del contratto, ha il dovere di compiere tutte le attività che da lui dipendono perchè la P.A. sia posta in grado di provvedere positivamente sul rilascio dell’autorizzazione stessa (nella specie, una compagnia petrolifera aveva concesso ad una società distributrice di carburante il comodato di un’area di servizio, sottoponendo il contratto alla condizione che fosse rinnovata la concessione demaniale marittima per il mantenimento dell’impianto di distribuzione del carburante. La S.C., sulla base dell’enunciato principio, ha confermato la sentenza che aveva dichiarato risolto il contratto in oggetto sul presupposto che l’efficacia di quest’ultimo non s’era verificata per colpa della compagnia petrolifera, in dipendenza della sua imputabile inerzia nel curare gli adempimenti necessari al compimento del procedimento amministrativo).

Una volta quindi ritenuta legittima, alla luce dell’opzione ermeneutica prescelta, la necessità di verificare la correttezza della condotta della ricorrente durante l’iter volto al conseguimento del provvedimento abilitativo della ricostruzione, deve però escludersi che sia stata violata la prescrizione di cui all’art. 1358 c.c., in relazione al dovere di buona fede cui pure è sottoposto colui che abbia acquistato diritti sotto condizione risolutiva, come nel caso della Eurocomp.

In tal senso depone la logica e coerente motivazione del giudice di appello che a pag. 9, dopo aver dato atto che il mancato conseguimento del provvedimento amministrativo era riconducibile alla colposa omissione della San Galdino, ha valutato anche la condotta della società attrice, rilevando, con giudizio in fatto, non suscettibile di censura in questa sede, che la stessa, a fronte delle iniziali difficoltà aveva acconsentito (termine questo che lungi dal far riferimento ad un atto unilaterale denota invece il consenso alla conclusione di un patto modificativo dell’originario termine previsto per la stipula del definitivo) ad un differimento del termine, salvo poi esercitare il proprio diritto a far accertare l’avveramento della condizione risolutiva una volta decorso anche il termine prorogato, e concludendo nel senso che, non essendo la stessa tenuta ad attivarsi nella procedura amministrativa, il suo comportamento era conforme a buona fede, avendo mostrato comprensione e tolleranza nei confronti della controparte, salvo poi avvalersi del proprio diritto una volta ritenuto il ritardo nell’attuazione del programma negoziale non più tollerabile.

La censura relativa all’art. 1358 c.c. quindi non si avvede che la Corte distrettuale, lungi dal reputare necessario dover improntare la condotta a buona fede solo per la ricorrente, ha in realtà valutato il comportamento di entrambi i contraenti, pervenendo ad un giudizio favorevole per la Eurocomp, tenuto soprattutto conto di quello che era il progetto contrattuale delineato consensualmente.

Nè infine può ritenersi che vi sia stato l’omesso esame di fatti pacifici, come individuati a pag. 4 del ricorso, atteso che, senza peritarsi di chiarire da quali atti processuali dovrebbe ricavarsi la non contestazione delle circostanze ad opera della società attrice, non costituisce fatto decisivo il rilievo che la corrispondenza intercorsa con gli enti locali in vista del rilascio del provvedimento edificatorio fosse indirizzata anche ad un tecnico di fiducia della società attrice, essendo frutto di un’unilaterale deduzione quella secondo cui tale partecipazione anche a delle riunioni equivalesse alla volontà della Eurocomp di assumere il mandato per conto della ricorrente per il conseguimento del provvedimento amministrativo.

3. Il secondo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 1362 c.c., del D.P.R. n. 380 del 2001, artt. 15 e 22 e della L.R. Lombardia n. 12 del 2005, art. 42.

Si deduce che la sentenza ha erroneamente escluso che la comunicazione del Comune di (OMISSIS) dell’11 settembre 2008 fosse idonea a far ritenere avverato l’evento condizionante.

In tal senso deve ritenersi che le parti avessero condizionato l’efficacia del contratto ad un provvedimento abilitativo di carattere amministrativo, ma si è trascurato che, sebbene nel contratto le parti facessero riferimento al permesso di costruire, l’iter procedimentale intrapreso era quello della DIA, e cioè di una comunicazione unilaterale, che dà luogo ad un meccanismo di silenzio-assenso.

A seguito della presentazione della DIA, la PA non subordina l’inizio dei lavori alla produzione di determinati documenti, ma può vietarlo ovvero consentirlo.

Nella specie non vi era stato alcun divieto, a differenza di quanto opinato dal giudice di appello, sicchè i lavori ben potevano essere intrapresi.

Il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia in merito ai motivi di appello con i quali era stata contestata la corretta applicazione da parte del Tribunale dell’art. 1362 c.c. e ss..

I due motivi, che possono essere congiuntamente esaminati per la loro connessione, sono infondati.

Va, in primo luogo, ribadito che l’interpretazione di un atto negoziale è tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nell’ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 c.c., e segg., o di motivazione inadeguata (ovverosia, non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito per giungere alla decisione). Sicchè, per far valere una violazione sotto il primo profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritamente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26 ottobre 2007, n. 22536). D’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12 luglio 2007, n. 15604; Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178). Ne consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 7500/2007; 24539/2009).

Inoltre per costante giurisprudenza (Sez. 2, 4 ottobre 2011, n. 20311; Sez. 1, 20 settembre 2013, n. 21612), ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.

Infatti, non ricorre il vizio di omesso esame di un punto decisivo della controversia se l’omissione riguarda una tesi difensiva o un’eccezione che, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto della tesi o dell’eccezione, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e come difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto (Cass. n. 14486/2004).

Poste tali premesse, si rileva che la sentenza impugnata, partendo proprio dal tenore letterale del contratto, il cui art. 3 poneva come evento condizionante la sua efficacia il rilascio di un permesso di costruire, secondo la potenzialità edificatoria auspicata dalla promissaria acquirente, ha ritenuto che, avendo la ricorrente ritenuto di avvalersi della DIA, la comunicazione dell’11 settembre del 2008, con la quale il Comune comunicava l’efficacia della DIA, a seguito della precedente richiesta di integrazione documentale, non potesse equivalere al permesso previsto in contratto, posto che lo stesso Comune aveva segnalato che risultava ancora mancante il certificato di avvenuta bonifica dell’area.

La differenza che la stessa normativa urbanistica richiamata dalla ricorrente pone tra la disciplina del permesso di costruire e quella della DIA rende evidente che mentre il primo esprime una valutazione positiva della PA ed abilita l’inizio dei lavori, la DIA, proprio perchè fondata sul meccanismo del silenzio assenso, offre minori garanzie di stabilità, soprattutto nel caso in cui, come nella fattispecie si segnali la permanente carenza di un documento, che rientrava tra quelli richiesti ai fini del completamento della pratica procedimentale.

Attesa l’esigenza, manifestata dai contraenti, di correlare l’efficacia del contratto ad un provvedimento, quale il permesso di costruire, dotato di maggiore stabilità, in quanto espressivo di una valutazione positiva dell’amministrazione, l’interpretazione cui è pervenuto il giudice di merito, secondo cui allo stesso non poteva equipararsi una comunicazione di efficacia della DIA, in quanto accompagnata dalla indicazione della necessità di provvedere ad un’integrazione documentale, non si connota come palesemente erronea o implausibile, tale da contravvenire quindi alle regole di ermeneutica contrattuale, non essendosi arrestata la Corte distrettuale al riscontro del mancato rilascio del provvedimento formalmente richiamato dall’art. 3, ma avendo indagato la comune intenzione dei contraenti, senza quindi arrestarsi al senso letterale delle parole.

Tale indagine ha, però, indotto la sentenza gravata a ritenere non satisfattiva dell’interesse perseguito dalla Eurocomp, e che la San Galdino intendeva assecondare con la previsione della condizione risolutiva, la comunicazione sopra richiamata, avvalorando tale esito interpretativo con il riferimento alla condotta dei contraenti anche posteriore alla conclusione del contratto, avendo rilevato, con motivazione logica, che la stessa previsione di una proroga consensuale del termine entro cui doveva avverarsi la condizione, lasciava intendere che la detta comunicazione per entrambi i contraenti non corrispondesse all’evento contemplato nell’art. 3, essendo quindi necessario procrastinare la data per la verifica.

Non rilevar quindi, verificare se alla luce della normativa urbanistica vigente la DIA fosse equiparabile al permesso di costruire quanto ai rapporti con la PA, ma la censura deve essere valutata alla luce dell’intento dei contraenti quale ricavabile dall’interpretazione del contratto, interpretazione che secondo la logica e coerente valutazione del giudice di merito deponeva per l’impossibilità di tale equiparazione a fronte della permanente assenza di un documento (il certificato di avvenuta bonifica) che, sebbene non condizionante l’efficacia della DIA, avrebbe comunque potuto influire, nel caso di sua mancata presentazione da parte della ricorrente, a tanto tenuta per contratto, alla scadenza di un anno dalla comunicazione, sul consolidamento della potenzialità edificatoria attesa dalla promissaria acquirente.

Una volta disattesa la censura che investe la corretta interpretazione della volontà contrattuale, e ciò alla luce delle considerazioni spese dal giudice di appello, si palesa anche l’infondatezza della doglianza che investe la violazione dell’art. 112 c.p.c., posto che la motivazione della sentenza impugnata consente di ritenere, quanto meno in maniera implicita, disattesi i motivi di appello che investivano la correttezza dell’attività interpretativa del giudice di primo grado, senza che rilevi, come sopra detto, che ogni singola argomentazione difensiva abbia trovato puntuale risposta nella motivazione, dovendo per converso ravvisarsi un’incompatibilità tra l’esito della sentenza di appello e le tesi difensive della ricorrente spese in quella sede.

4. Il quarto motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L.R. Lombardia n. 12 del 2005, artt. 41 e 42, laddove la sentenza impugnata ha affermato che non era necessario verificare se il certificato di avvenuta bonifica fosse o meno effettivamente necessario, alla luce della normativa edilizia vigente.

Il motivo è infondato.

Nella fattispecie non si verte in una controversia che contrappone il privato alla PA, e volta a verificare la legittimità dell’agire di quest’ultima secondo le regole che devono improntare l’esercizio della discrezionalità, ma si dibatte in ordine all’efficacia di un contratto che, facendo ricorso ad una condizione risolutiva mista, presupponeva per la sua permanenza in vita che fosse stato rilasciato entro un dato termine un provvedimento idoneo ad assicurare con determinati requisiti di certezza, l’interesse della promissaria acquirente a poter sfruttare le potenzialità edificatorie dell’area promessa in vendita. Nei rapporti tra i privati contraenti rileva, per quanto detto in occasione della disamina dei motivi che precedono, che anche alla data concordata (e prorogata), non era stato perfezionato l’iter per assicurare il conseguimento di un provvedimento avente le caratteristiche auspicate, ciò a prescindere dalla legittimità della condotta della PA, la cui verifica esula dall’oggetto del presente giudizio.

5. Il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè dell’art. 1175,1358 e 1375 c.c..

Assume parte ricorrente che con l’appello aveva lamentato che la controparte avesse violato l’affidamento ingenerato nella ricorrente a seguito di varie proroghe del termine entro il quale si sarebbe dovuta avverare la condizione.

Si lamenta che erroneamente era stato addebitato alla ricorrente il mancato rilascio del permesso di costruire, essendo altrettanto erronee le affermazioni secondo cui alla scadenza del secondo termine prorogato fosse venuto meno l’interesse di Eurocomp all’affare, essendo quindi esercizio di un suo legittimo diritto chiedere la declaratoria di inefficacia del contratto.

Il motivo che ripercorre tesi difensive già interessate dalla proposizione dei precedenti motivi di ricorso, si risolve nella sollecitazione a questa Corte a pervenire ad una complessiva rivalutazione dei fatti di causa, in contrasto con la logica e coerente ricostruzione operata dal giudice di appello, ritenendosi non soddisfacente quanto da quest’ultimo affermato.

Ne deriva che la censura non può avere spazio in sede di legittimità.

Il ricorso è, pertanto, rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

7. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dal L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara che ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dell’art. 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2020

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