Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18452 del 08/09/2011

Cassazione civile sez. I, 08/09/2011, (ud. 15/06/2011, dep. 08/09/2011), n.18452

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. RORDORF Renato – rel. Consigliere –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16734-2005 proposto da:

B.A. (C.F. (OMISSIS)), B.M., B.

F., B.C., elettivamente domiciliati in ROMA,

PIAZZA G. MAZZINI 27, presso l’avvocato NICOLAIS LUCIO, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CECCHELLA CLAUDIO,

giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

B.G. (C.F. (OMISSIS)), B.M.L.

(C.F. (OMISSIS)), P.M.G. (C.F.

(OMISSIS)), nella qualità di eredi di B.S.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEL BABUINO 51, presso

l’avvocato RIDOLA MARIO GIUSEPPE, che li rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MENCHINI SERGIO, giusta procura in calce al

controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 348/2005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 09/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/06/2011 dal Consigliere Dott. RENATO RORDORF;

uditi, per i ricorrenti, l’Avvocato CECCHELLA e SASSANI BRUNO, per

delega, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per i controricorrenti, l’Avvocato RIDOLA che ha chiesto il

rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

I sigg.ri B.A., M., F., C. e S., essendo sorta tra loro una controversia riguardante sopravvenienze passive della società F.lli Bartoli s.r.l., le cui quote erano state vendute al sig. B.S. dagli altri fratelli, deferirono la vertenza ad un collegio arbitrale, come previsto da una clausola compromissoria contenuta nel contratto di vendita.

Gli arbitri provvidero, con lodo emesso il 6 dicembre 2001, ravvisando una sopravvenienza passiva in debiti d’imposta della società, accertati dalla competente commissione tributaria in data successiva alla cessione delle quote, e perciò condannando i venditori a corrispondere all’acquirente la somma di L. 39.961.187, oltre agli interessi.

Il lodo fu impugnato per nullità dai soccombenti, ma l’impugnazione fu rigettata dalla Corte d’appello di Firenze, con sentenza depositata il 9 febbraio 2005.

La corte fiorentina reputò infondata, anzitutto, l’eccezione di nullità del lodo per mancata indicazione della sede dell’arbitrato.

Secondo la corte, infatti, non sussistevano dubbi sulla circostanza che la sede in cui l’arbitrato si era svolto fosse ubicata in Lucca, quello essendo il luogo indicato sia nella clausola | compromissoria sia nella dicitura che figurava in calce al lodo; ed aggiunse che la pretesa nullità sarebbe stata comunque sanata avendo gli impugnanti correttamente individuato il giudice territorialmente competente dinanzi al quale proporre l’impugnazione.

Per il resto, la corte d’appello disattese sia l’eccezione di nullità del lodo per avere gli arbitri giudicato secondo diritto, in presenza di una clausola compromissoria che li aveva invece investiti del compito di decidere in equità, sia quella secondo la quale gli arbitri avrebbero interpretato il concetto di “sopravvenienza” in modo difforme dall’effettiva volontà delle parti. Pur riferendosi a norme di legge, nel decidere gli arbitri – secondo la corte – avevano fatto applicazione di regole ispirate ad equità, il che escludeva la possibilità di dedurre pretesi errori di diritto.

Per la cassazione di tale sentenza i sigg.ri B.A., M., F. e C. hanno proposto ricorso, formulando tre motivi di doglianza.

Il sig. B.S. ha resistito con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso ripropone il tema dell’eccepita nullità del lodo arbitrale per mancata indicazione della sede dell’arbitrato.

Secondo i ricorrenti la decisione assunta in proposito dalla corte d’appello sarebbe errata, perchè, facendo discendere l’individuazione della sede arbitrale dall’indicazione del luogo ove il lodo è stato sottoscritto, confonderebbe due profili ben distinti nella formulazione dell’art. 823, n. 5, richiamato dal successivo art. 829 c.p.c., n. 5 (norme alle quali, ovviamente, si fa riferimento avendo riguardo alla loro formulazione alla data della proposta impugnazione del lodo). Del tutto incongrua sarebbe poi l’affermazione secondo la quale basterebbe aver individuato una corte d’appello dinanzi alla quale impugnare il lodo, in ipotesi nullo per difetto d’indicazione della sede arbitrale, per sanare ipso facto tale causa di nullità.

2. La riferita censura non appare meritevole di accoglimento.

Questa corte ha già avuto modo di affermare che la mancata indicazione nel lodo della sede dell’arbitrato non ne determina la nullità, allorchè la sede stessa possa desumersi in via interpretativa, tenuto conto, da una parte, della natura sostanziale del requisito in esame, che non richiede necessariamente, per la sua esplicazione, formule sacramentali e, dall’altra, della natura di atto di autonomia privata ascrivibile alla pronuncia arbitrale e della conseguente applicabilità delle disposizioni in materia d’interpretazione negoziale dettate nel codice civile all’art. 1362 e segg. (Cass. 23 aprile 2008, n. 10576; e Cass. 8 aprile 2004, n. 6951).

I ricorrenti non hanno portato argomenti decisivi per discostarsi dal suindicato orientamento: nè per quel che riguarda la non necessità di elementi formali predeterminati nell’ individuazione della sede dell’arbitrato, nè per quanto riguarda la possibilità di avvalersi nell’interpretazione del lodo dei criteri ermeneutici dettati dal codice civile nella materia negoziale. Pertanto, si rivela ininfluente la circostanza, particolarmente sottolineata dalla difese dei medesimi ricorrenti, che nel caso in esame (a differenza di quanto accaduto nei due precedenti ai quali si riferiscono le pronunce di questa corte dianzi citate), la clausole compromissoria indicante la sede dell’arbitrato non sarebbe stata riportata nel testo del lodo. Anche se le cose stessero così (ma dall’impugnata sentenza non è dato desumerlo), resterebbe che gli arbitri incontestabilmente hanno operato in base a quella clausola compromissoria, onde il loro comportamento (rilevante a norma dell’art. 1362 c.c., comma 2) segnala la loro intenzione di adeguarsi ai dettami di quella clausola, evidentemente anche ai fini dell’individuazione della sede dell’arbitrato. Individuazione che, d’altronde, se è vero non necessariamente deve coincidere con quella del luogo in cui il lodo è stato deliberato, è tuttavia logico presumere vi corrisponda, quando non vi siano elementi idonei a suggerire un’indicazione diversa. E, nel presente caso, i ricorrenti, non adducono di aver segnalato nel giudizio di merito l’esistenza di circostanze tali da far supporre che la sede dell’arbitrato fosse altra da quella in cui il lodo è stato deciso e sottoscritto dagli arbitri.

Risulta perciò giuridicamente corretta – e per il resto è espressione di una valutazione di merito non censurabile in cassazione – la decisione in base alla quale la corte territoriale ha ritenuto di poter ravvisare nella clausola compromissoria, richiamata nel lodo, e nell’indicazione del luogo di sottoscrizione dello stesso, elementi idonei ad identificare, in difetto di elementi di segno contrario, anche la sede stessa dell’arbitrato. Il che assorbe ogni altra considerazione sul punto.

3. Col secondo motivo, i ricorrenti sostengono che erroneamente la corte fiorentina ha ravvisato nel lodo di cui si tratta una decisione assunta secondo equità, come la clausola compromissoria richiedeva, avendo gli arbitri sempre fatto riferimento a nozioni di diritto e mai motivato in ordine ad eventuali ragioni equitative poste a base della loro pronuncia. Tale pronuncia, del resto, è in larga parte fondata su un ricostruzione in fatto della volontà espressa dalle parti nel negozio di cessione delle quote societarie circa il modo d’intendere la nozione di “sopravvenienza”: ricostruzione cui sarebbe naturalmente estranea qualsiasi componente di equità.

4. Nemmeno questa doglianza appare fondata.

Questa corte ha già in passato chiarito che legittimamente gli arbitri rituali autorizzati a pronunciare secondo equità risolvono la controversia ad essi devoluta applicando le norme di diritto, ritenute coincidenti con l’equità, senza indicare le ragioni dell’evocata coincidenza, giacchè il potere di decidere secondo equità non esclude affatto la possibilità di decidere secondo diritto allorchè gli arbitri ritengano che nella fattispecie al loro esame diritto ed equità coincidono, senza dover affermare e dimostrare tale coincidenza, desumibile anche implicitamente dal complesso delle argomentazioni svolte a sostegno della decisione, potendo configurarsi l’esistenza di un vizio riconducibile alla violazione dei limiti del compromesso solo quando gli arbitri neghino a priori la possibilità di avvalersi dei poteri equitativi loro conferiti (Cass. 25 maggio 2007, n. 12319; Cass. 7 maggio 2003, n. 6933; ed altre conformi).

Nel caso in esame, pertanto, il mero fatto che gli arbitri – come i ricorrenti denunciano – non abbiano fatto cenno espressamente al carattere equitativo del loro giudizio, ed abbiano invece fatto riferimento a norme di diritto, non basta a dimostrare che essi abbiano ecceduto dai limiti del mandato loro conferito; nè appare logicamente sostenibile l’intrinseca incompatibilità delle ragioni di equità con l’utilizzo di criteri interpretativi del contenuto negoziale di atti giuridici.

La corte d’appello, peraltro, ha motivatamente indicato il sostanziale fondamento equitativo da essa ravvisato nella deliberazione arbitrale, e tale valutazione di merito, esente da errori giuridici, non potrebbe certo essere ribaltata da un diverso apprezzamento di questa corte sul punto.

5. Ne consegue il rigetto anche del terzo motivo di ricorso, che denuncia pretesi errori di diritto, ma lo fa muovendo dal presupposto – infondato, per quanto appena detto – che il lodo sia stato pronunciato in diritto e non in equità.

6. Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.500,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle – spese generali ed agli accessori di legge.

P.Q.M.

La corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.500,00 per onorari e 200,00 per esborsi, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 giugno 2011.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2011

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