Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18452 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. I, 04/09/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 04/09/2020), n.18452

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – rel. Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 36237/2018 proposto da:

C.D., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Cavour,

presso la cancelleria della Corte di Cassazione e rappresentato e

difeso dall’avvocato Guido Ernesto Maria Savio, per procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., elettivamente

domiciliato ex lege presso l’Avvocatura dello Stato in Roma, Via dei

Portoghesi, 12;

– intimato –

avverso il decreto n. 5940/2018 del Tribunale di Torino, Nona sezione

civile, del 20/11/2018;

udita la relazione della causa svolta dal Cons. Dott. Laura Scalia,

nella Camera di consiglio del 09/07/2020.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Torino, Nona sezione civile, con il decreto in epigrafe indicato ha rigettato il ricorso proposto ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, da C.D. avverso il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale ne aveva respinto la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

Il tribunale ha ritenuto la non verosimiglianza del racconto reso dal ricorrente dinanzi alla Commissione territoriale – secondo il quale egli sarebbe fuggito dal proprio Paese, il Mali, dopo aver visto il fratello a terra, colpito dagli spari di taluni banditi che stavano rubando all’interno del suo negozio e portato da un arabo incontrato per strada in Algeria in cui era rimasto per circa un anno, sfruttato dal suo datore di lavoro per poi andare il Libia in cui era rimasto per sete mesi di cui tre in carcere.

I giudici di merito avevano valorizzato che, quanto all’episodio riferito, il richiedente nonostante fosse notte era riuscito a vedere il Fratello in terra per poi allontanarsi dai luoghi senza curarsi di verificare se il germano fosse ancora in vita ed incontrare, per caso, un arabo che lo avrebbe portato in Algeria senza chiedere nulla, Paese in cui sarebbe rimasto per circa un anno nonostante egli venisse malmenato e sfruttato.

2. C.D. ricorre per la cassazione dell’indicato decreto con tre motivi.

Il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente nato in (OMISSIS), nella regione di (OMISSIS), nel Sud del Paese, con il primo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 10 e 11.

Il tribunale aveva fornito una lettura superficiale della sentenza Moussa Sacko della Corte di Giustizia (C-348/16 resa il 26.07.2017), secondo la quale il giudice deve procedere all’audizione ogniqualvolta lo ritenga necessario al fine di garantire al richiedente “in rimedio “effettivo” ex art. 47 della cd. Carta di Nizza, non affermando, come invece ritenuto dai giudici torinesi, in via generale, che la rinnovazione non sia necessaria. L’audizione avrebbe consentito di integrare le ritenute lacune del racconto e l’accesso del ricorrente alle protezioni richieste.

1.1. Il motivo è infondato.

E’ necessario muovere dalle affermazioni di diritto che, chiare sul punto, ha reso questa Corte di legittimità con la sentenza del 05/07/2018 n. 17717.

In attuazione del principio del contraddittorio, e quindi del diritto del ricorrente ad una piena ed effettiva difesa, questa Corte di legittimità con l’indicata sentenza ha, per vero, rimarcato la necessità, per ragioni di stretta letteralità della norma in esame e di armoniosa ricostruzione del sistema, che in mancanza della videoregistrazione del colloquio il tribunale, chiamato a pronunciare sulla domanda di protezione internazionale, debba fissare l’udienza di comparizione delle parti, configurandosi altrimenti la nullità del decreto pronunciato per il mancato pieno spiegamento del principio del contraddittorio (Cass. n. 17717 cit. pp. 10, 11).

Tuttavia, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza, non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, alla quale può non farsi luogo se sia stata garantita al ricorrente la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni davanti alla commissione territoriale e il tribunale, cui siano stati resi disponibili il verbale dell’audizione ovvero la videoregistrazione e la trascrizione del colloquio, nonchè l’intera documentazione acquisita, di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis, comma 8, debba respingere la domanda, per essere la stessa manifestamente infondata sulla base delle circostanze risultanti dagli atti già acquisiti (Cass. 28/02/2019 n. 5973).

1.1.2. Il Tribunale di Torino, in applicazione degli indicati principi e richiamando la sentenza di questa Corte n. 17177/2018, ha appunto dato conto dell’intervenuta fissazione dell’udienza ed ha ritenuto “sulla scorta della documentazione depositata in atti e alla luce degli elementi già acquisiti” che “non risulta indispensabile richiedere alcun chiarimento alle parti ed, in particolare, al richiedente” (p. 2 decreto).

1.1.3. Il motivo è pertanto infondato poichè l’audizione del richiedente protezione non è in ogni caso obbligatoria avendo il tribunale valutato la domanda come manifestamente infondata e tanto in ragione degli elementi di prova desumibili dal fascicolo e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa (Cass. 5973 cit.), e tale violazione non è fatta oggetto di specifica censura da parte del ricorrente.

2. Con il secondo motivo il ricorrente fa valere la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c).

La situazione di gravissima instabilità, insicurezza ed conflittualità relativa all’intero territorio del Mali e comunque delle zone a sud, da cui proveniva il richiedente, integravano gli estremi della violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale di cui all’art. 14, lett. c) D.Lgs. cit.

Lo Stato italiano non si era avvalso della facoltà di cui all’art. 8 della direttiva 2004/83/Ce non trasponendola nel D.Lgs. n. 251 del 2007, ed il riconoscimento della protezione sussidiaria non poteva essere escluso per la possibilità del ricorrente di trasferirsi in altra zona del proprio Paese dove egli non correva rischi effettivi di subire “danni gravi” ex art. 14 cit..

2.1. Il motivo è inammissibile.

La contestazione portata in ricorso all’impugnato decreto là dove il tribunale non ha riconosciuto l’esistenza in Mali di una violenza ndiscriminata in situazioni di conflitto armato determinativa di minaccia grave alla vita o alla persona (D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c)), è generica e manca di autosufficienza.

Il ricorrente invoca l’esistenza in Mali di una situazione di forte instabilità in tal modo neppure confrontandosi con la motivazione sul punto resa dal tribunale per richiamo a specifiche fonti e contenuti in ordine all’esistenza dell’estremo della violenza generalizzata nei termini di cui all’art. 14, lett. c) cit..

Il rilievo assorbe ogni ulteriore profilo di censura contenuto in ricorso (violazione direttiva 2004/83/Ce art. 8), ferma restando l’unicità della provenienza del ricorrente (per i margini di scrutinio della fattispecie di cui all’art. 8 cit., da ultimo: Cass. 28/04/2020 n. 8230).

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 e del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5.

Premesso che una interpretazione costituzionalmente orientata del D.L. n. 113 del 2018, art. 1, comma 9, debba condurre ad applicare i previgenti criteri di legge per il riconoscimento della protezione umanitaria, il ricorrente dedotta ancora la necessità di una valutazione comparativa tra la situazione di integrazione raggiunta in Italia e quella goduta nel Paese di provenienza e, per la sussistenza di una condizione di vulnerabilità, l’esistenza di una effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali, lamenta l’omesso svolgimento da parte del tribunale di un adeguato giudizio comparativo. Il tribunale aveva separatamente considerato come elementi a sè stanti ed isolati dal contesto la giovane età del C. e lo svolgimento di attività lavorativa in Italia.

Saldi i principi affermati da questa Corte a SU con la sentenza n. 29459 del 13/11/2019 sul regime intertemporale delle modifiche introdotte con il D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e disposizioni consequenziali, che non trova applicazione in relazione a domande di riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5 ottobre 2018) della nuova legge; tali domande saranno, pertanto, scrutinate sulla base delle norme in vigore al momento della loro presentazione, ma in tale ipotesi l’accertamento della sussistenza dei presupposti per il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari, valutata in base alle norme esistenti prima dell’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. 132 del 2018, comporterà il rilascio del permesso di soggiorno “per casi speciali” previsto dall’art. 1, comma 9, del suddetto Decreto Legge, nel resto il motivo è inammissibile.

Si tratta per vero di una sostanziale contrapposizione al provvedimento impugnato rispetto alle cui conclusioni il ricorso prospetta in modo inammissibile una generica reiterazione delle deduzioni portate nel giudizio di merito senza confrontarsi con la ratio dell’adottata decisione e quindi con la verificata, in quella fase, omessa allegazione di una situazione di vulnerabilità tale da integrare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale (Cass. n. 4455 del 2018), nella insufficienza ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, del vaglio, in via isolata ed astratta, del suo livello di integrazione in Italia (Cass. 28/06/2018 n. 17072).

4. Il ricorso deve essere pertanto, e conclusivamente, rigettato. Nulla sulle spese, essendo il Ministero rimasto intimato.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, si dà atto (secondo la formula da ultimo indicata in Cass. SU n. 23535 del 2019) della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2020

 

 

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