Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18443 del 12/07/2018


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 18443 Anno 2018
Presidente: D’ASCOLA PASQUALE
Relatore: SCARPA ANTONIO

ORDINANZA
sul ricorso 21479-2017 proposto da:
PROIETTI ORLANDI ANTONIA, PROIETTI ORLANDI OSVALDO,
elettivamente domiciliati in ROMA, VIA EMILIO FAA’ DI BRUNO,
87, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO CIAFFI, che li
rappresenta e difende;
– ricorrenti contro
GULLO GIUSEPPE, FIORELLI ADRIANA, CHERUBINI ALFONSO;
– intimati avverso la sentenza n. 20038/2016 della CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE di ROMA, depositata il 06/10/2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio
del 15/05/2018 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

tL

Data pubblicazione: 12/07/2018

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Antonia Proietti Orlandi e Osvaldo Proietti Orlandi, anche quali
eredi di Renata Eusepi, hanno proposto ricorso articolato in
unico motivo per la revocazione della sentenza della Corte di
cassazione n. 20038/2016, depositata il 6 ottobre 2016.

Gullo, Adriana Fiorelli ed Alfonso Cherubini.
Su proposta del relatore, ai sensi degli artt. 391-bis, comma 4,
e 380-bis, commi 1 e 2, c.p.c., che ravvisava l’inammissibilità
del ricorso, il presidente fissava con decreto l’adunanza della
Corte perché la controversia venisse trattata in camera di
consiglio nell’osservanza delle citate disposizioni.
Il giudizio ebbe inizio con citazione del 3 febbraio 1990, con cui
Giuseppe Gullo e Adriana Fiorelli, comproprietari di un
appartamento e di un posto auto siti in Roma, in via Atimeto n.
48, convennero Renata Eusepi ed Alfonso Cherubini,
rispettivamente originaria unica proprietaria e costruttore
dell’edificio, chiedendo di accertare il loro diritto all’uso delle
parti comuni, e domandando altresì la redazione del
regolamento condominiale e delle tabelle millesimali. Integrato
il contraddittorio nei confronti di Antonia Proietti Orlandi e di
Osvaldo Proietti Orlandi, con sentenza del Tribunale di Roma
del 15 febbraio 2003 furono accolte le domande degli attori,
dichiarando condominiali le parti di edificio di cui all’art. 1117
c.c. – e segnatamente i locali sottotetto e quelli al piano
interrato -, con esclusione di quelle che la Eusepi si era
riservata in esclusiva la proprietà nel preliminare del 31
gennaio 1979. Proposero appello Renata Eusepi, Antonia
Proietti Orlandi e Osvaldo Proietti Orlandi, e la Corte d’Appello
di Roma, con sentenza del 18 maggio 2011, respinse il
gravame. Proposero allora ricorso per cassazione Renata
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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Rimangono intimati, senza svolgere attività difensive, Giuseppe

Eusepi, Antonia Proietti Orlandi e Osvaldo Proietti Orlandi, sulla
base di due motivi. Giuseppe Gullo e Adriana Fiorelli si difesero
con controricorso, col patrocinio degli avvocati Vincenzo
Montone e Roberto Laghi, mentre Alfonso Cherubini non svolse
attività difensive. Con sentenza n. 20038/2016 del 6 ottobre

condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità.
La sentenza n. 20038/2016 così argomentò la propria
decisione:
“1) Con il primo motivo í ricorrenti lamentano la violazione e
falsa applicazione degli artt. 1117, 1362, 1363, 1364, 1365,
1366, 2697 c.c., 115 c.p.c.
Deducono, in particolare:
a) che nel caso di sottotetto non opera la presunzione di
condominalità

prevista

dall’art.

1117

c.c.

e

che,

conseguentemente, è necessario uno specifico accertamento di
fatto delle caratteristiche oggettive del bene, per determinarne
la natura privata o comune. La Corte di Appello, al contrario,
ha affermato la comunione del sottotetto di cui si discute senza
verificare se, tenuto conto delle sue caratteristiche strutturali,
esso potesse considerarsi oggettivamente destinato, sia pure
potenzialmente, all’uso comune e all’esercizio di un servizio di
interesse condominiale;
b) che la Corte di Appello, nel ritenere insufficiente la prova
fornita dai convenuti (preliminare di vendita) per dimostrare la
proprietà esclusiva, non ha fatto corretta applicazione del
principio dell’onere della prova: gravava, infatti, sugli attori
l’onere della prova per titoli della condominialità del sottotetto,
e non sui convenuti l’onere di provarne la riserva di proprietà
esclusiva;
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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2016 la Corte di cassazione rigettò il ricorso, con conseguente

c) che, nell’interpretare il preliminare di vendita intercorso tra
le parti, il giudice del gravame è incorso nella violazione degli
artt. 1362 e 1363 c.c., essendo evidente che intenzione delle
parti era quella di escludere dalla vendita ogni altra porzione
del fabbricato diversa da quelle espressamente cedute,

2) Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono dell’omessa e
contraddittoria motivazione su un punto decisivo della
controversia, non avendo la Corte di Appello accertato se il
locale sottotetto, per le sue caratteristiche sostanziali e
strutturali, fosse oggettivamente destinato all’uso comune o
all’esercizio di un servizio di interesse condominiale. Deducono
che non solo tale indagine è mancata, ma che dalla relazione di
consulenza tecnica d’ufficio si evince che, all’atto dei
sopralluoghi, il locale in questione non era stato obiettivamente
destinato ad un uso comune, presentandosi privo “di qualsiasi
rifinitura (pavimentazione, intonaci, impianti) e tramezzatura”.
Sostengono che nessuna rilevanza può attribuirsi, ai fini che
qui interessano, né alla “previsione del progetto” né alla
intervenuta modifica di destinazione di cui all’atto d’obbligo
richiamato nella sentenza impugnata, non essendosi in
presenza di atti negoziali aventi effetti giuridici tra le parti e,
quindi, idonei a dimostrare la loro comune volontà di attribuire
al bene controverso natura di bene comune.
3) Il primo motivo è infondato.
Secondo

i

principi

affermati

dalla

giurisprudenza,

l’appartenenza del sottotetto di un edificio va determinata in
base al titolo, in mancanza o nel silenzio del quale, non
essendo esso compreso nel novero delle parti comuni
dell’edificio essenziali per la sua esistenza o necessarie all’uso
comune, la presunzione di comunione ex art. 1117 c. c. è, in
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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costituite dall’appartamento e dal posto auto.

ogni caso, applicabile nel caso in cui il vano, per le sue
caratteristiche strutturali e funzionati, risulti oggettivamente
destinato all’uso comune oppure all’esercizio di un servizio di
interesse condominiale, quando tale presunzione non sia
superata dalla prova della proprietà esclusiva (Cass. 11-1-2016

Cass. 19- 12-2002 n. 18091).
Più in particolare, è stato precisato che, in tema di condominio,
per accertare la natura condominiale o pertinenziale del
sottotetto di un edificio, in mancanza del titolo, deve farsi
riferimento alle sue caratteristiche strutturali e funzionali,
sicché, quando il sottotetto sia oggettivamente destinato
(anche solo potenzialmente) all’uso comune o all’esercizio di un
servizio di interesse comune, può applicarsi la presunzione di
comunione ex art. 1117, comma 1, c.c.; viceversa, allorché il
sottotetto assolva all’esclusiva funzione di isolare e proteggere
dal caldo, dal freddo e dall’umidità l’appartamento dell’ultimo
piano, e non abbia dimensioni e caratteristiche strutturali tali
da consentirne l’utilizzazione come vano autonomo, va
considerato pertinenza di tale appartamento (Cass. 30-3-2016
n. 6143; (Cass. 12-8-2011 n. 17249).
Nella specie, la Corte di Appello, nel ritenere applicabile ai
locali sottotetto in contestazione la presunzione di comunione
ex art. 1117 c.c., non si è discostata dagli enunciati principi,
avendo dato atto che i predetti locali erano originariamente
indicati nel progetto come “locali di sgombero”, che
successivamente la loro destinazione è stata modificata come
locali “destinati a stenditoio e ripostiglio” e che con tale
destinazione gli stessi sono stati fatti oggetto dell’atto d’obbligo
del 7-2-1984, con il quale la Eusepi si impegnava al
mantenimento della destinazione e della consistenza di tali
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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n. 233; Cass. 19-2-2013 n. 4083; Cass. 29-12-2004 n. 24147;

locali con il Comune di Roma, al fine di ottenere la licenza di
abitabilità per gli appartamenti della palazzina. Orbene,
secondo il giudice del gravame, sia in forza della previsione del
progetto che dell’intervenuta modifica, la destinazione dei locali
in questione può essere ricondotta nella previsione dell’art.

convenuti dare prova di un titolo che ne riservasse loro la
proprietà. Secondo quanto accertato in sentenza, al contrario,
tale titolo non può essere individuato nella clausola del
contratto preliminare intercorso tra le parti, che prevedeva la
generica riserva in favore della Eusepi di tutte le parti non
condominiali, senza alcuna specifica indicazione del locali
controversi. Non sussiste, pertanto, la dedotta violazione
dell’art. 1117 c.c., avendo la Corte di Appello ritenuto la natura
condominiale del sottotetto dopo avere accertato, con
apprezzamento in fatto non sindacabile in questa sede, che
tale bene era destinato, anche solo potenzialmente, all’uso
comune o all’esercizio di un servizio di interesse comune.
Avendo accertato che i locali in oggetto erano destinati all’uso
comune e ricadevano, pertanto, nella presunzione di cui all’art.
1117 c.c., d’altro canto, correttamente il giudice del gravame
ha ritenuto che gravasse sui convenuti l’onere di provare
l’esistenza di un titolo idoneo al superamento della presunzione
di proprietà comune; sicché la pronuncia impugnata non ha
affatto violato i principi posti in materia di onere della prova
dall’art. 2697 c.c.
Quanto alla denunciata violazione degli artt. 1362 ss. c.c., si
osserva che la Corte di Appello, nell’escludere che con il
contratto preliminare la promittente venditrice abbia inteso
riservarsi la proprietà del sottotetto in questione, ha fornito

Ric. 2017 n, 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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1117 c.c.; con la conseguenza che sarebbe spettato ai

una interpretazione plausibile e ragionevole della volontà
negoziale.
Deve, allora, rammentarsi che, in tema di interpretazione del
contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in
relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di

che tale accertamento è censurabile in sede di legittimità
soltanto nel caso in cui la motivazione risulti talmente
inadeguata da non consentire di ricostruire l'”iter” logico
seguito dal giudice per attribuire all’atto negoziale un
determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle
norme ermeneutiche. La denuncia di quest’ultima violazione
esige una specifica indicazione dei canoni in concreto non
osservati e del modo attraverso il quale si è realizzata la
violazione, mentre la denunzia del vizio di motivazione implica
la puntualizzazione dell’obiettiva deficienza e contraddittorietà
del ragionamento svolto dal giudice di merito, non potendo
nessuna delle due censure risolversi in una critica del risultato
interpretativo raggiunto dal giudice, che si sostanzi nella mera
contrapposizione di una differente interpretazione (tra le tante
v. Cass. 13-12-2006 n. 26683; Cass. 23-8-2006 n. 18375;
Cass. 2-5-2006 n. 10131). Va ulteriormente puntualizzato che,
per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data del giudice
del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione
possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e
plausibili interpretazioni, si che quando di una clausola
contrattuale siano possibili due o più interpretazioni, non è
consentito, alla parte che aveva proposto la interpretazione poi
disattesa dal giudice del merito, dolersi in sede di legittimità
che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 12-7-2007 n. 15604;
Cass. 22-2- 2007 n. 4178; Cass. 14-11- 2003 n. 17248).
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud 15-05-2018
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fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito. Ne consegue

Nella specie, i ricorrenti sostengono l’erroneità della
ricostruzione della volontà delle parti operata dal giudice del
gravarne; ma, al di là del generico riferimento alle norme
codicistiche indicate in rubrica, non specificano, in concreto, in
quale modo la Corte di Appello si sia discostata dai canoni

che le censure mosse, attraverso lo schermo delle dedotte
violazioni di legge, finiscono con l’investire sostanzialmente il
risultato dell’operazione interpretativa compiuta dal giudice di
merito, non sindacabile in sede di legittimità, in quanto
sorretto da una motivazione immune da vizi logici e giuridici.
4) Anche il secondo motivo di ricorso deve essere disatteso.
La valutazione espressa nella sentenza impugnata riguardo alla
destinazione ad uso comune del sottotetto di cui si discute,
costituisce espressione di un apprezzamento in fatto riservato
al giudice di merito, che, in quanto sorretto da argomentazioni
esenti da vizi logici, si sottrae al sindacato di questa Corte.
E. in realtà, le censure mosse con il motivo in esame,
attraverso la formale denuncia di vizi di motivazione, si
risolvono, in buona sostanza, nella richiesta di un rinnovato
esame delle emergenze processuali, di cui i ricorrenti
suggeriscono una lettura diversa rispetto a quella compiuta dai
giudice di appello.
Ma, come è noto, i vizi di motivazione denunciabili in
Cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c. non possono
consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle
prove dato dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla
parte, perché spetta solo a detto giudice individuare le fonti del
proprio convincimento, valutare le prove, controllarne
l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze
istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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ermeneutici di cui lamentano la violazione. E’ evidente, allora,

discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova
(tra le tante v. Cass. 14-10-2010 n. 21224; Cass. 5-3-2007 n.
5066; Cass. 21-4-2006 n. 9368; Cass. 20-4-2006 n. 9234;
Cass. 16-2-2006 n. 3436; Cass. 20-10- 2005 n. 20322).
L’onere di adeguatezza della motivazione, inoltre, non

allegazioni delle parti, ne’ che egli debba prendere in esame, al
fine di confutarle o condividerle, tutte le argomentazioni da
queste svolte. È. infatti, sufficiente che il giudice esponga,
anche in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto
posti a fondamento della sua decisione, dovendo ritenersi per
implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che,
seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con
la soluzione adottata e con l’iter argomentativo seguito (tra le
tante v. Cass. 20-11-2009 n. 24542; Cass. 12-1-2006 n. 407;
Cass. 2 agosto 2001, n. 10569).
Nel caso in esame, il giudice del gravarne ha selezionato gli
elementi che lo inducevano a ritenere che il sottotetto avesse
una destinazione ad uso comune, e in base ad essi ha
argomentato la propria decisione, con ciò mostrando di
attribuire a quelle risultanze valore preminente rispetto ad
altre che, sebbene non esplicitamente confutate, sono state
implicitamente considerate non probanti”.
L’unico motivo del ricorso per revocazione di Antonia Proietti
Orlandi e Osvaldo Proietti Orlandi deduce l’inammissibilità del
controricorso notificato da Giuseppe Gullo e di Adriana Fiorelli
nel giudizio definito con la sentenza n. 20038/2016 di questa
Corte, in quanto i difensori dei controricorrenti avvocati
Vincenzo Montone e Roberto Laghi non sono mai stati iscritti
all’albo speciale per il patrocinio davanti alla Corte di
cassazione, sicché non doveva tenersi conto delle ragioni
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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comporta che il giudice del merito debba occuparsi di tutte le

esposte nel controricorso per pervenire alla decisione
dell’impugnazione né statuirsi sulle spese del giudizio di
legittimità.
La censura è inammissibile. L’errore di fatto che legittima la
revocazione delle sentenze della Corte di cassazione consiste in

rivestire i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice
rilevabilità sulla base del mero raffronto tra la sentenza
impugnata e gli atti e i documenti di causa, nonché riguardare
gli atti interni al giudizio di legittimità (e cioè quegli atti che la
Corte deve e può esaminare direttamente con propria indagine
di fatto all’interno dei motivi di ricorso), deve incidere
unicamente sulla sentenza di legittimità, rivelando caratteri di
essenzialità e decisività ai fini della decisione. In particolare, il
nesso causale tra errore di fatto e decisione, nel cui
accertamento si sostanzia la valutazione di essenzialità e
decisività dell’errore revocatorio, non è un nesso di causalità
storica, ma di carattere logico-giuridico, nel senso che non si
tratta di stabilire se il giudice autore del provvedimento da
revocare si sarebbe, in concreto, determinato in maniera
diversa ove non avesse commesso l’errore di fatto, bensì di
stabilire se la decisione della causa sarebbe dovuta essere
diversa, in mancanza di quell’errore, per necessità logicogiuridica.
Ora, è certo che al controricorso si applica la disposizione
dell’articolo 365 c.p.c., in base alla quale si richiede a pena di
inammissibilità la sottoscrizione dell’atto da parte di avvocato
iscritto nell’apposito albo e munito di procura speciale.
Tuttavia, la revocazione delle sentenze della Corte di
cassazione, ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c., può ammettersi
per vizi in procedendo, di cui non si sia tenuto conto per un
Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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un’erronea percezione dei fatti di causa, che, oltre a dover

errore meramente percettivo (svista o puro equivoco) nel
controllo degli atti del procedimento pregresso ovvero
nell’esame degli atti dello stesso processo di legittimità, ma è
esclusa la revocabilità delle sentenze suddette per le quali si
deduca un errore riguardante un atto difensivo della parte e

poteri cognitori e decisori della Corte di cassazione, quale
quello, nella specie, di assunta inammissibilità del controricorso
a fronte di un rigetto del ricorso per infondatezza delle censure
proposte. L’art. 395, n. 4, c.p.c. segna, invero, i confini
dell’errore di fatto influente ai fini in esame: esso è presente
quando la decisione sia fondata sulla supposizione
dell’esistenza o dell’inesistenza di un fatto, la cui verità le
risultanze della causa rispettivamente, escludano ovvero
evidenzino in modo inequivoco. L’errore, quindi, come già
premesso, deve essere determinante sul decisum, e, inoltre
deve inerire al verificarsi o meno di un accadimento
nell’obiettiva realtà fenomenica, non ad apprezzamenti relativi
alla consistenza od agli effetti giuridici del medesimo.
L’inammissibilità – che si denuncia non rilevata – del
controricorso potrebbe perciò profilare il motivo di revocazione,
di cui all’art. 395, n. 4, c.p.c., solo se si assumesse l’erroneità
del contenuto della sentenza impugnata, che avrebbe potuto
essere diverso (in ordine all’accoglimento dell’impugnazione,
invece respinta, e non alla semplice conseguente statuizione
sulle spese di lite) ove si fosse evitata la percettibilità di fatti
derivati dalla lettura delle allegazioni difensive contenute in
detto controricorso (arg. da Cass. Sez. 6 – 2, 07/11/2016, n.
22561; Cass. Sez. L, 25/10/2000, n. 14073; Cass. Sez. L,
24/08/2000, n. 11061; Cass. Sez. U, 02/08/1993, n. 8528).

Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
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che risulti radicalmente inidoneo ad incidere direttamente sui

I ricorrenti neppure indicano specificamente, come imposto
dall’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., quale atto o documento
fonderebbe la risultanza fattuale – che si assume pretermessa
nella sentenza n. 20038/2016 – della mancata iscrizione degli
avvocati Vincenzo Montone e Roberto Laghi nelll’albo speciale

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile. Non
occorre regolare le spese del giudizio di revocazione, in quanto
gli intimati non hanno svolto attività difensive.
Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1,
comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha
aggiunto il comma 1-quater all’art. 13 del d.P.R. 30 maggio
2002, n. 115 – dell’obbligo di versamento, da parte dei
ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato
pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente
rigettata.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del
2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del
2012, dichiara la sussistenza dei presupposti per il
versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a
titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso,
a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Ric. 2017 n. 21479 sez. M2 – ud. 15-05-2018
-12-

per il patrocinio davanti alla Corte di cassazione.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 6 – 2
Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 15 maggio

2018.

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