Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18433 del 26/07/2017


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Cassazione civile, sez. trib., 26/07/2017, (ud. 19/04/2017, dep.26/07/2017),  n. 18433

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BIELLI Stefano – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 28660/2014 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore Generale pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso

la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

TER s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa, per procura speciale conferita con scrittura

privata autenticata, dall’avv. Antonino Nocito, con domicilio eletto

nello studio legale dell’avv. Daniele Urbani, in Roma, via Cola di

Rienzo, n. 149;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Sicilia, n. 2747/03/2014, depositata in data 25 settembre 2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 19 aprile

2017 dal Cons. Lucio Luciotti.

Fatto

RILEVATO

– che con la sentenza in epigrafe la Commissione tributaria regionale della Sicilia accoglieva l’appello della TER s.r.l. e, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava dovuto il rimborso dell’IVA assolta sull’acquisto di beni ammortizzabili, richiesto dalla predetta società in relazione all’anno di imposta 2005 ma dall’amministrazione finanziaria negato sulla rilevata non operatività della società ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30;

– che l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui replica l’intimata.

Diritto

CONSIDERATO

– che con il primo motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 57, commi 1 e 2, (D.Lgs. n. 546 del 1992, per avere la CTR accolto il ricorso in appello della società ricorrente sulla base di due eccezioni da questa proposte solo in quel grado di giudizio, quali la mancata valutazione dei presupposti oggettivi richiesti dalla norma, ovvero dalla L. n. 724 del 1994, art. 30 che avrebbero dovuto evidenziare il mancato raggiungimento del reddito minimo e l’erronea effettuazione da parte dell’ufficio finanziario del test di operatività di cui alla citata disposizione;

– che, in relazione a tale mezzo di impugnazione, l’eccezione sollevata dalla controricorrente, di improcedibilità del ricorso ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, per non avere la difesa erariale prodotto in giudizio gli atti processuali (ricorso proposto in primo grado ed appello della società contribuente) sui quali è fondato il motivo in esame, dev’essere rigettata alla stregua del principio giurisprudenziale in base al quale l’onere che la citata disposizione pone a carico del ricorrente è soddisfatto, sulla base del principio di strumentalità delle forme processuali, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo di parte, anche mediante la produzione del fascicolo nel quale essi siano contenuti e, quanto agli atti e ai documenti contenuti nel fascicolo d’ufficio, mediante il deposito della richiesta di trasmissione presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, munita di visto ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 3, ferma, in ogni caso, l’esigenza di specifica indicazione, a pena di inammissibilità ex art. 366 c.p.c., n. 6, degli atti, dei documenti e dei dati necessari al reperimento degli stessi (Cass. n. 195 del 23016 e Cass., Sez. U. n. 25038 del 201; v. anche Cass. Sez. U. n. 25513 del 2016), nel caso di specie tale ultimo adempimento potendo ritenersi essere stato assolto dalla ricorrente mediante espresso richiamo nel motivo in esame al contenuto del primo ricorso;

– che, però, il motivo in esame non si sottrae al vizio di inammissibilità per difetto di autosufficienza, essendo stato prospettato in violazione della regola giurisprudenziale secondo cui la deduzione della violazione, nel giudizio di merito, dell’art. 112 c.p.c. che configura un’ipotesi di error in procedendo per il quale questa Corte è giudice anche del “fatto processuale” -, non essendo vizio rilevabile d’ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità d’esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato all’adempimento da parte del ricorrente, per il principio d’autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l’altro, il rinvio per relationem agli atti della fase di merito, dell’onere d’indicarli compiutamente, non essendo consentita al giudice stesso una loro autonoma ricerca ma solo una loro verifica (cfr. Cass. n. 6361 del 2007; conf. n. 21226 del 2010, n. 25299 del 2014; v. anche Cass. n. 17049 del 2015 in tema di omessa pronuncia su domanda introdotta in giudizio);

– che il motivo in esame è formulato in maniera assolutamente generica, non contenendo alcuna specificazione nè indicazione delle domande formulate dalla società in primo grado e di quelle, asseritamente diverse e nuove, proposte in secondo grado, essendosi la ricorrente limitata alla riproduzione in corsivo di una frase, verosimilmente contenuta nell’originario ricorso proposto dalla società contribuente, inidonea a chiarire il contenuto del motivo di opposizione formulato avverso l’atto impositivo impugnato; esigenza di specificità nella specie assolutamente imprescindibile alla stregua della considerazione che, vertendosi nella fattispecie in un caso di impugnazione di un provvedimento di rigetto di un’istanza di rimborso emesso dall’amministrazione finanziaria sul presupposto che la ricorrente fosse una società di comodo, oggetto del giudizio non potesse che essere la questione relativa alla sussistenza sub specie dei presupposti oggettivi per l’applicabilità alla società contribuente della normativa sulle società di comodo, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30 che presuppone altresì la correttezza del c.d. test di operatività;

– che la correttezza di tale test fosse posto dall’amministrazione finanziaria a fondamento del proprio provvedimento – con conseguente infondatezza del primo motivo – lo si desume anche dal secondo mezzo di impugnazione, con cui l’Agenzia delle entrate censura la statuizione della CTR, sotto un primo profilo, per violazione della L. n. 724 del 1994, art. 30 ratione temporis vigente, avendo ritenuto operativa la società contribuente nonostante dal calcolo effettuato dall’ufficio finanziario risultasse aver conseguito ricavi inferiori a quelli ricavabili applicando le percentuali indicate nella citata disposizione;

– che il motivo è inammissibile in quanto con esso la ricorrente, pur denunciando un error in iudicando, fa valere un difetto di motivazione della sentenza impugnata (v. Cass. n. 195 del 2016; id. n. 26110 del 2015, nonchè Cass. n. 21165 del 2013 e n. 1615 del 2015, sull’inammissibilità del motivo per erronea sussunzione del vizio denunciato), evidenziando la correttezza del test di operatività effettuato con riferimento alla società contribuente e la mancata dimostrazione da parte di quest’ultima del fatto di trovarsi in un periodo di non normale svolgimento dell’attività – che, ai sensi delle modifiche apportate alla L. n. 724 del 1994, art. 30 dalla L. n. 662 del 1996, art. 3, comma 37, esclude, come anche si ammette nella circolare ministeriale n. 48/E del 26/02/1997, l’applicazione della disciplina in esame – giacchè i fatti e le circostanze invocate dalla TER s.r.l. non apparivano tali da determinare nell’azione amministrativa il convincimento della reale esistenza di cause oggettive di esclusione non superabili e in quanto tali costituenti reali impedimenti, dalla volontà dell’imprenditore;

– che con il secondo profilo del mezzo di impugnazione in esame la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere i giudici di appello rilevato la nullità dell’accertamento della non operatività della società contribuente in quanto effettuata dall’amministrazione finanziaria senza la preventiva richiesta di chiarimenti;

– che la censura è inammissibile in quanto priva di decisività, trattandosi di argomentazione che la CTR ha addotto a mero supporto della contraddittorietà della procedura seguita dall’Ufficio nel rigetto del chiesto rimborso;

-che con il terzo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. sostenendo che la CTR non aveva tenuto conto del nutrito corredo probatorio addotto dall’Ufficio, nonchè, in maniera specularmente opposta, della significativa carenza in tal senso ascrivibile all’originario ricorrente;

– che il motivo, oltre a porsi in palese violazione del principio di autosufficienza del ricorso, non avendo la ricorrente specificamente indicato quali elementi probatori aveva dedotto in giudizio e quanti di essi erano stati pretermessi o non correttamente valutati, si pone in insanabile contrasto con i principi giurisprudenziali secondo cui una questione di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 solo allorchè si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016, n. 11892 del 2016, n. 13960 del 2014) mentre, ove si deduca – come nel caso di specie – che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. n. 13960/2014 cit.; v. anche Cass. n. 14267 del 2006; conf. n. 24434 del 2016, secondo cui la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità); censura di vizio motivazionale nella specie non dedotta e comunque inammissibile, essendo applicabile alla sentenza impugnata, pubblicata in 25/09/2014, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella nuova formulazione restrittiva introdotta del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. n. 7 agosto 2012, n. 134, ponendosi il motivo in esame in contrasto con il principio affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 8053 del 2014;

– che, in estrema sintesi, i motivi di ricorso vanno dichiarati inammissibili e la ricorrente, in applicazione della regola della soccombenza, condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo;

– che, risultando soccombente la parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

 

dichiara inammissibili i motivi di ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compenso, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 aprile 2017.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2017

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