Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18431 del 20/09/2016


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Cassazione civile sez. VI, 20/09/2016, (ud. 24/06/2016, dep. 20/09/2016), n.18431

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – rel. Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16815/2015 proposto da:

R.S.L., P.R., P.G., quali eredi

di P.N., rappresentati e difesi, per procura speciale a

margine del ricorso, dall’Avvocato Giorgio Cannata;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,

domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– resistente –

avverso il decreto n. 157/2015 della Corte d’appello di Catania,

depositato in data 28 gennaio 2015.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24

giugno 2016 dal Presidente relatore Dott. Stefano Petitti;

udito, per i ricorrenti, l’Avvocato Giorgio Cannata.

Fatto

RITENUTO IN FATTO

che, con ricorso depositato presso la Corte d’appello di Catania in data 5 gennaio 2012, R.S.L., P.R., P.G., quali eredi di P.N., chiedevano la condanna del Ministero della Giustizia al pagamento dell’indennizzo per la irragionevole durata di una procedura fallimentare, al passivo della quale il loro dante causa era stato ammesso il (OMISSIS); procedura ancora pendente alla data della domanda;

che l’adita Corte d’appello rigettava il ricorso;

che il ricorso per cassazione proposto dai ricorrenti veniva accolto da questa Corte con sentenza n. 26998 del 2013;

che, riassunto il giudizio con atto del 7 gennaio 2014, la Corte d’appello di Catania, dato atto che la procedura fallimentare era ancora pendente, riteneva che la procedura stessa avrebbe dovuto essere conclusa in cinque anni, accertava un ritardo di circa dieci anni e otto mesi, in relazione al quale liquidava un indennizzo di Euro 5.500,00, facendo applicazione in via analogica dei parametri di indennizzo introdotti dal legislatore del 2012;

che per la cassazione di questo decreto R.S.L., P.R., P.G., nella qualità, hanno proposto ricorso sulla base di un unico motivo;

che l’intimato Ministero non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione;

che i ricorrenti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza;

che con l’unico motivo di ricorso i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 2 e 3 e dell’art. 6 della CEDU, in relazione alla L. n. 134 del 2012 e all’art. 11 preleggi, comma 1 e art. 12 preleggi, dolendosi che la Corte d’appello abbia liquidato l’indennizzo secondo il criterio introdotto dal legislatore del 2012, ritenuto applicabile in via analogica;

che il ricorso è infondato;

che questa Corte ha già avuto modo di chiarire che, se è vero che il giudice nazionale deve, in linea di principio, uniformarsi ai criteri di liquidazione elaborati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo (secondo cui, data l’esigenza di garantire che la liquidazione sia satisfattiva di un danno e non indebitamente lucrativa, la quantificazione del danno non patrimoniale dev’essere, di regola, non inferiore ad Euro 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a Euro 1.000,00 per quelli successivi), permane, in capo allo stesso giudice, il potere di discostarsene, in misura ragionevole, qualora, avuto riguardo alle peculiarità della singola fattispecie, ravvisi elementi concreti di positiva smentita di detti criteri, dei quali deve dar conto in motivazione (Cass. n. 18617 del 2010; Cass. n. 12461 del 2015);

che, d’altra parte, la presente controversia non è soggetta, ratione temporis, all’applicazione delle disposizioni introdotte dal D.L. n. 83 del 2012, convertito, con modificazione, dalla L. n. 134 del 2012, applicabili ai ricorsi depositati a decorrere dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione;

che alle disposizioni introdotte nel 2012 non può neanche riconoscersi natura di norme di interpretazione autentica, atteso che, se è vero che per alcuni aspetti vengono recepiti orientamenti della giurisprudenza di questa Corte mutuati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, non vi è nulla nel D.L. n. 83 del 2012, che possa indurre a ritenere che il legislatore abbia inteso attribuire alle nuove disposizioni efficacia retroattiva, avendo anzi espressamente dettato una specifica previsione per la entrata in vigore della nuova disciplina (Cass. n. 12665 del 2015);

che, come di recente ribadito e chiarito (Cass. n. 10056 del 2015), il ricorso all’analogia è consentito dall’art. 12 preleggi, solo quando manchi nell’ordinamento una specifica disposizione regolante la fattispecie concreta e si renda, quindi, necessario porre rimedio ad un vuoto normativo altrimenti incolmabile in sede giudiziaria (Cass. n. 2656 del 2015; Cass. n. 9852 del 2002);

che nel caso in esame non ricorre alcun vuoto normativo, atteso che la L. n. 89 del 2001, nella formulazione precedente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, convertito nella L. n. 134 del 2012, per come costantemente interpretata ed applicata non pone all’equa riparazione alcun limite fisso derivante dalla posta in gioco nel processo presupposto;

che, tuttavia, non può non rilevarsi come questa Corte, nella vigenza della disciplina della L. n. 89 del 2001, anteriore alle modifiche introdotte nel 2012, abbia ritenuto che il criterio di 500,00 Euro per anno possa costituire un adeguato ristoro, segnatamente nelle procedure fallimentari (Cass. n. 16311 del 2014);

che, dunque, il decreto impugnato, pur facendo erroneo riferimento ad una applicazione analogica di una normativa in realtà non applicabile, è pervenuto ad una liquidazione dell’indennizzo che non può di per sè essere ritenuta irragionevole e inidonea ad assicurare un adeguato ristoro;

che, dunque, corretta la motivazione del decreto impugnato nei termini ora indicati, il ricorso va rigettato;

che non vi è luogo a provvedere sulle spese del giudizio di cassazione, atteso che la difesa erariale non ha resistito con controricorso e non ha partecipato all’udienza di discussione;

che, risultando dagli atti del giudizio che il procedimento in esame è considerato esente dal pagamento del contributo unificato, non si deve far luogo alla dichiarazione di cui al T.U. approvato con il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta Civile – 2 della Corte Suprema di Cassazione, il 24 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2016

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