Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18428 del 09/07/2019

Cassazione civile sez. I, 09/07/2019, (ud. 30/05/2019, dep. 09/07/2019), n.18428

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10962-2018 proposto da:

E.R., domiciliato in ROMA, presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’Avvocato STEFANO

MANNIRONI giusta procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, presso l’Avvocatura Generale

dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza della CORTE DI APPELLO DI CAGLIARI, depositata il

31.1.2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30.5.2019 dal Consigliere Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Fatto

RILEVATO

CHE:

E.R. propone ricorso, affidato a sette motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Corte di Appello di Cagliari aveva respinto l’appello avverso l’ordinanza del Tribunale di Cagliari emessa in data 24.5.2016 in rigetto della sua domanda di riconoscimento di “protezione internazionale e/o umanitaria”;

la domanda del ricorrente era stata motivata in ragione dei rischi di rientro nel suo Paese d’origine (Nigeria) dovuti al suo vissuto personale, narrando di essere stato condotto da un trafficante di esseri umani in Libia, ove era stato ristretto dapprima in carcere, per poi svolgere attività lavorativa presso un connazionale, che da ultimo gli aveva fornito il denaro per trasferirsi in Italia al fine della ricerca di un nuovo lavoro, non avendo più alcun legame familiare con i parenti in Nigeria;

il Ministero dell’Interno resiste con controricorso;

il ricorrente ha depositato memoria difensiva.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1.1. con il primo motivo di ricorso si censura il rigetto delle contestazioni circa la ritualità del procedimento svoltosi davanti alla Commissione, ribadendo quelle rivolte all’omessa traduzione del provvedimento conclusivo in lingua a nota all’interessato;

1.2. la censura è infondata dal momento che, secondo il costante orientamento di questa Corte, la nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale, reso dalla Commissione territoriale, anche se derivante dall’omessa traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato o in una delle lingue veicolari, non ha autonoma rilevanza nel giudizio introdotto dal ricorso al tribunale avverso il predetto provvedimento poichè tale procedimento ha ad oggetto il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata, sicchè deve pervenire alla decisione sulla spettanza, o meno, del diritto stesso e non può limitarsi al mero annullamento del diniego amministrativo (cfr. Cass. nn. 23472/2017, 7385/2017, 18632/2014, 26480/2011);

1.3. ne consegue che è altresì manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4 (vigente “ratione temporis”), D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e art. 702 bis c.p.c.nonchè della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5 in relazione agli artt. 3,24 e 10 Cost. ed all’art. 6 Cedu, per le diverse conseguenze derivanti dalla mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale rispetto a quelle derivanti dalla mancata traduzione del decreto di espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, poichè, nel primo caso, il disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, oggi D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis – che richiede una statuizione di merito in ordine alla spettanza o meno del diritto alla protezione internazionale, senza prevedere una decisione di mero annullamento del provvedimento negativo della Commissione territoriale – si giustifica poichè la rimozione di tale atto non è idonea ad incidere sulla situazione giuridica sostanziale del richiedente protezione, mentre, nel secondo caso, l’annullamento del provvedimento di espulsione di per sè ripristina il diritto sostanziale dell’espellendo illegittimamente inciso, così realizzando il suo interesse protetto ponendo termine al processo;

1.4 è, inoltre, infondato il richiamo all’art. 24 Cost. e art. 6 Cedu poichè il diritto ad un equo processo risulta garantito pienamente, al pari di quello dell’espellendo, mediante la possibilità per il richiedente di adire il giudice e così dispiegare compiutamente ogni sua difesa nell’ambito del processo (Cass. 30105/2018);

2.1. con il secondo ed il quarto motivo è stata dedotta la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e) e art. 3 e della L. n. 39 del 1990, art. 1 quanto allo status di rifugiato, e, con riguardo al diniego di protezione sussidiaria, del D.Lgs. n. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a), b) e c), avendo la Corte d’Appello escluso la sussistenza dei presupposti per la concessione della protezione internazionale nonostante la minaccia di danno grave alla vita ed alla persona del ricorrente;

2.2. le censure, da esaminare congiuntamente, in parte infondate ed in parte inammissibili, vanno disattese perchè, quanto al rifugio politico e alla protezione sussidiaria sub art. 14, lett. a), b) citt., i presupposti di essi sono stati esclusi in fatto dalla Corte d’Appello non essendo stato allegato dal ricorrente “il pericolo di una sua condanna a morte, nè di tortura o altri trattamenti inumani nel suo Paese d’origine”, accertando in fatto – con adeguata e coerente motivazione – che dalle stesse dichiarazioni del ricorrente si evince che il medesimo ha abbandonato il suo Paese per cercare lavoro, “senza alcuna costrizione”, ovverosia per esigenze di carattere economico che nulla hanno a che vedere con il pericolo di persecuzioni, idoneo a consentire la concessione dello status di rifugiato, o con le ragioni che consentono il riconoscimento della protezione sussidiaria il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. a) e b);

2.3. quanto alla protezione sussidiaria di cui alla lett. c), va anzitutto osservato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale, va rappresentata dal ricorrente come minaccia grave e individuale alla sua vita, sia pure in rapporto alla situazione generale del paese di origine, ed il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità (Cass., 12/12/2018, n. 32064);

2.4. nel caso concreto, la Corte ha anzitutto osservato, anche in riferimento a tale forma di protezione, un difetto di allegazione da parte del richiedente, che si è limitato a dedurre ragioni di carattere personale, senza mai lasciar percepire il timore di un danno grave alla persona che possa derivare dalla situazione politica del Paese di provenienza;

2.5. quanto all’ipotesi di cui alla lett. c) la Corte ne ha quindi escluso la sussistenza sulla base delle informazioni acquisite sulla situazione del distretto di provenienza dell’appellante, (OMISSIS), nel (OMISSIS), dalle quali risultava l’assenza di conflitti in quella regione, facendo corretta applicazione del principio secondo cui, aì fini della concessione della protezione sussidiaria, in particolare, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione (Cass., 28/06/2018, n. 17075; Cass., 12/11/2018, n. 28990) ed al fine di ritenere adempiuto tale onere, tuttavia, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto (Cass., 26/04/2019, n. 11312);

2.6. a fronte di tali deduzioni il mezzo si traduce, pertanto, in una rivisitazione del merito, inammissibile in questa sede (cfr. Cass. n. 8758/2017);

3.1. con il terzo motivo si censura la statuizione di rigetto della domanda sotto il profilo della sussistenza del diritto di asilo quale previsto dall’art. 10 Cost., comma 3, criticando l’affermazione della Corte d’appello, mutuata dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il diritto di asilo previsto dalla Costituzione è interamente attuato mediante glì istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, ed affermando che l’art. 6, par. 4, della direttiva 115/2008/CE contempla la possibilità che gli stati membri prevedano il rilascio di permessi di soggiorno, oltre che per motivi umanitari, anche per motivi “caritatevoli… o di altra natura”;

3.2. il motivo è infondato perchè il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario (nel regime giuridico applicabile ratione temporis), ad opera dell’esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non v’è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, (cfr. Cass. nn. 11110/2019, 6362/2016) e quella contemplata dalla norma sovranazionale invocata è, inoltre, soltanto una possibilità – non un obbligo – per gli Stati membri, non avendo il legislatore italiano ritenuto di prevedere, oltre alle fattispecie di protezione internazionale, costituite, come si è detto, dallo status di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal permesso di soggiorno per motivi umanitari, anche il rilascio di permessi di soggiorno per motivi caritatevoli o di altra natura (cfr. Cass. n. 12357/2018 in motiv.);

4.1. sono inammissibili anche il quinto ed il sesto motivo, con cuì viene censurato il mancato riconoscimento della protezione umanitaria;

4.2. ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria è invero evidente che l’attendibilità, in termini di violazione dei diritti umani, della narrazione dei fatti che hanno indotto lo straniero a lasciare il proprio Paese svolge un ruolo rilevante, atteso che ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine un’effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, la situazione oggettiva del paese d’origine deve essere necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza, secondo le allegazioni del richiedente, la cui attendibilità e congruenza soltanto consente l’attivazione dei poteri officiosi (cfr. Cass. n. 4455/2018);

4.3. nel caso di specie, la narrazione dei fatti è stata ritenuta sostanzialmente inattendibile, avendo la Corte d’appello accertato, in fatto, che le ragioni allegate dal ricorrente a sostegno di tale forma di protezione sono limitate ad un generico riferimento al proprio vissuto ed all’assenza di familiari in patria, dopo la morte della madre adottiva, mentre il medesimo non ha allegato alcun elemento – nel giudizio di merito – dal quale possa desumersi che il rientro in patria possa determinare per l’immigrato una grave compromissione dei propri diritti fondamentali;

4.4. i motivi si traducono, per contro in una sostanziale, richiesta di rivisitazione del merito inammissibile in questa sede (cfr. Cass. nn. 29404/2017, 19547/2017, 16056/2016);

4.5. va osservato, infine, che l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi una violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, in quanto tale profilo può essere valutato solo ai fini della ricostruzione della vicenda individuale e, di conseguenza della credibilità del dichiarante, peraltro esclusa dalla Corte territoriale (cfr. Cass. n. 2861/2018);

4.6. nel caso di specie il motivo sul punto è del tutto generico;

5.1. con il settimo motivo si censura la mancata compensazione delle spese processuali, sottolineando la natura della causa, le ragioni che avevano indotto il ricorrente a presentare domanda di protezione internazionale, la complessità della materia;

5.2. il motivo è inammissibile perchè contiene censure di merito dell’esercizio del potere discrezionale di compensazione delle spese processuali;

6. il ricorso va in conclusione rigettato, con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio, oltre che al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, statuizione che la Corte è tenuta ad emettere in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (cfr. Cass., n. 9661/2019);

7. non vi è luogo, infine, per provvedere sull’istanza di revoca dell’ammissione provvisoria al patrocinio a spese dello Stato avanzata dall’Amministrazione controricorrente per avere l’interessato “agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave” (da intendersi, in realtà, quale mera sollecitazione della Corte a provvedere d’ufficio ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 136, comma 2, seconda parte), atteso che, come già affermato da questa Corte (cfr. Cass. n. 8896/2019 in moti.), a prescindere dalla questione sulla competenza della Corte di Cassazione a provvedere sulla revoca – questione rimessa alle Sezioni Unite con la recente ordinanza n. 1664/2019, – il Collegio non ravvisa in ogni caso la sussistenza dei presupposti richiesti dall’art. 136, comma 2 cit. di mala fede o colpa grave, non essendo riscontrabile nella specie, in carenza peraltro di elementi dimostrativi dell’assunto, un abuso del diritto all’impugnazione in sè (come chiarito da Cass. nn. 19285/2016, 7726/2016 e 3376/2016 in termini di “ingiustificato aggravamento del sistema giurisdizionale”, di “pretestuosità” del contenzioso e di “spreco di energie giurisdizionali”) e non essendo sufficiente la mera infondatezza, anche manifesta, delle tesi prospettate (cfr. Cass. nn. 21570/2012, 15629/2010 e 654/2010);

9. per tutte le ragioni esposte, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente alle spese del presente giudizio, oltre che al pagamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, statuizione che la Corte è tenuta ad emettere in base al solo elemento oggettivo, costituito dal tenore della pronuncia (di inammissibilità, improcedibilità o rigetto del ricorso, principale o incidentale), senza alcuna rilevanza delle condizioni soggettive della parte, come l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (cfr. Cass. n. 9661/2019).

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al rimborso, in favore del Ministero controricorrente, delle spese sostenute per questo giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.100,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di Cassazione Sezione Prima Civile, il 30 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2019

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