Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18425 del 04/09/2020

Cassazione civile sez. I, 04/09/2020, (ud. 13/02/2020, dep. 04/09/2020), n.18425

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 9633/2019 proposto da:

G.E., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppina Marciano,

ed elettivamente domiciliato presso il suo studio, in virtù di

mandato in calce al ricorso per cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica,

domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli

uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di MILANO n. 5575/2018,

pubblicata in data 11 dicembre 2018.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. G.E., cittadino della (OMISSIS), ha formulato domanda di protezione internazionale, sussidiaria ed umanitaria alla Commissione Territoriale competente, che veniva rigettata.

2. Il richiedente, cittadino proveniente da (OMISSIS), ha riferito di avere avuto timore che il proprio orientamento omosessuale lo discriminasse dal punto di vista familiare e sociale, esponendolo a conseguenze anche di natura penale, essendo la condotta omosessuale prevista come reato in Nigeria e che, privo di sostegno familiare, aveva deciso di emigrare nel 2016, per raggiungere la Libia e poi l’Italia.

3. Il Tribunale di Milano, adito con ricorso ex art. 702 bis c.p.c., non ha riconosciuto la chiesta protezione internazionale nelle forme richieste e, con ordinanza del 10 gennaio 2018, ha confermato il provvedimento di diniego della Commissione.

4. Avverso tale provvedimento G.E. ha proposto appello e la Corte di appello di Milano lo ha rigettato, compensando tra le parti le spese del grado.

5. G.E. ricorre in cassazione con due motivi.

6. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo G.E. lamenta la violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame circa un fatto decisivo della controversia, in merito all’attuale situazione sociale, politica ed economica e sulla pericolosità sociale in tutto il territorio della Nigeria.

1.1 Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla lettura della sentenza, la Corte territoriale non ha omesso di acquisire le informazioni aggiornate sul Paese di origine, ma, tenendo conto di fonti ufficiali, ha esaminato la situazione attuale della zona di provenienza del richiedente, escludendo la sussistenza di un’ipotesi di conflitto armato generatore di una situazione di violenza tanto diffusa e indiscriminata da interessare qualsiasi persona ivi abitualmente dimorante.

In particolare la Corte di appello ha affermato che dalle consultazioni delle fonti ufficiali, in Edo State, così come in altre aree del sud della Nigeria, non si registrava attualmente una situazione di violenza generalizzata (che correttamente il primo giudice aveva limitato alle aree del centro-nord e del nord-est) e che Uromi non risultava oggetto di specifiche direttive da parte dell’UNHCR.

Non si può, quindi, dire omessa alcuna attività da parte del giudice di merito, che ha compiuto un accertamento in fatto non più censurabile in sede di legittimità.

Invero, la censura del ricorrente si risolve in una generica critica del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, che richiede che il giudice di merito abbia esaminato la questione oggetto di doglianza, ma abbia totalmente pretermesso uno specifico fatto storico, e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa e obiettivamente incomprensibile”, mentre resta irrilevante il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass., 13 agosto 2018, n. 20721).

2. Violazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32 e D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5; art. 1 della Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951; D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2,3,5,7,14,17,16; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8; art. 10 Cost., per omesso esame circa un fatto decisivo della controversia in relazione ai presupposti del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2.1 Il motivo è inammissibile.

I giudici di secondo grado hanno evidenziato che, a prescindere dallo spessore della vicenda narrata dall’appellante, non era stata dimostrata l’esistenza di una peculiare situazione di vulnerabilità del soggetto ricorrente e che anche la riferita paternità, di un figlio nato il 30 gennaio 2018, non convivente, a cui lo stesso non provvedeva, non forniva elementi utili ai fini della chiesta protezione umanitari.

Sul punto, deve rammentarsi che il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari presuppone l’esistenza di situazioni non tipizzate di vulnerabilità dello straniero, risultanti da obblighi internazionali o costituzionali, conseguenti al rischio del richiedente di essere immesso, in esito al rimpatrio, in un contesto sociale, politico ed ambientale idoneo a costituire una significativa ed effettiva compromissione dei suoi diritti fondamentali (Cass., 22 febbraio 2019, n. 5358).

La condizione di “vulnerabilità” del richiedente deve essere verificata caso per caso, all’esito di una valutazione individuale della sua vita privata in Italia, comparata con la situazione personale vissuta prima della partenza ed alla quale si troverebbe esposto in caso di rimpatrio (Cass. 15 maggio 2019, n. 13079).

Con particolare riferimento al parametro dell’inserimento sociale e lavorativo dello straniero in Italia, questo, tuttavia, può assumere rilevanza non quale fattore esclusivo, bensì quale circostanza che può concorrere a determinare una situazione di vulnerabilità personale da tutelare mediante il riconoscimento di un titolo di soggiorno (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Ed infatti, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza e, tuttavia, non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al Paese di provenienza atteso che il rispetto del diritto alla vita privata di cui all’art. 8 CEDU può soffrire ingerenze legittime da parte di pubblici poteri finalizzate al raggiungimento d’interessi pubblici contrapposti quali quelli relativi al rispetto delle leggi sull’immigrazione, particolarmente nel caso in cui lo straniero non possieda uno stabile titolo di soggiorno nello Stato di accoglienza, ma vi risieda in attesa che sia definita la sua domanda di riconoscimento della protezione internazionale (Cass., 28 giugno 2018, n. 17072; Cass., Sez. U., 13 novembre 2019, n. 29459).

Nel caso di specie, il ricorrente non ha mai assolto, nell’intero ricorso, l’onere di allegare e descrivere le circostanze di fatto, personali e peculiari, anche diverse da quelle poste a fondamento delle altre ed infondate domande di protezione, che costituiscono riscontro della sussistenza della condizione di grave violazione dei diritti umani e, per ciò solo, giustificative della richiesta di protezione umanitaria.

3. Il ricorso va, conclusivamente, dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese per la mancata attività difensiva da parte dell’Amministrazione intimata.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 4 settembre 2020

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