Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18420 del 20/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 20/09/2016, (ud. 23/06/2016, dep. 20/09/2016), n.18420

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 28110/2013 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del Presidente e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIALE EUROPA 175, presso la Direzione Affari Legali di Poste

Italiane, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNA MANTELLI,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.P., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA C. POMA 2, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO AMODEO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSIO IOP, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 333/2013 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 12/06/2013 R.G.N. 246/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

23/06/2016 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

udito l’Avvocato DE ROSE DORA per delega verbale Avvocato MANTELLI

GIOVANNA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto.

Fatto

Con sentenza depositata il 12.6.2013, la Corte d’appello di Genova confermava la statuizione di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato da Poste Italiane s.p.a. a P.P. per superamento del periodo di comporto, ordinandone la reintegrazione nel posto di lavoro e condannando l’azienda a risarcirle i danni.

La Corte, per quanto qui interessa, riteneva che l’art. 41, comma 4 CCNL 14.4.2011, prevedendo che la società potesse recedere dal rapporto di lavoro solo al termine dei periodi di assenza di cui ai commi precedenti, intendesse riferirsi non solo ai periodi di comporto disciplinati dai primi due commi, ma altresì a quello di aspettativa di cui al comma 3, per modo che, avendo la lavoratrice richiesto solo poco meno di un mese di aspettativa invece dei dodici consentiti dalla norma contrattuale, il recesso doveva considerarsi illegittimo.

Contro queste statuizioni ricorre Poste Italiane s.p.a. con due motivi. Resiste P.P. con controricorso.

Diritto

Con il primo motivo di censura, la società ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 41 CCNL per i dipendenti dell’azienda Poste Italiane s.p.a. stipulato il 14.4.2011, per avere la Corte di merito ritenuto che il comma 4 di esso, nel prevedere che la società potesse recedere dal rapporto al termine dei periodi di assenza di cui ai commi precedenti, intendesse riferirsi non solo ai termini di comporto di cui ai commi 1 e 2, ma altresì a quello di aspettativa di 12 mesi di cui al comma 3, per modo che, avendo viceversa la lavoratrice richiesto, al compimento del comporto, soltanto poco meno di un mese di aspettativa, non potesse in specie intimarsi alcun licenziamento.

Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt. 1362 c.c. e segg., per non avere la Corte territoriale, prospettando l’anzidetta interpretazione della clausola negoziale, adeguatamente indagato la volontà delle parti.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente stante l’intima connessione delle censure svolte, sono fondati.

Nell’interpretare l’analoga disciplina contenuta nell’art. 40, CCNL 11.7.2003, e nel fissare il principio secondo cui, in caso di concessione di un periodo di aspettativa successivo a quello di malattia, i limiti temporali per poter procedere al licenziamento per superamento del periodo di comporto devono essere ulteriormente dilatati in modo da comprendere anche la durata dell’aspettativa, questa Corte ha ricordato che scopo delle regole dettate dall’art. 2110 c.c., per l’ipotesi di assenza determinata da malattia del lavoratore è quello di contemperare gli interessi confliggenti del datore di lavoro a mantenere alle proprie dipendenze solo chi lavora e del lavoratore a disporre di un congruo periodo di tempo per curarsi senza perdere i mezzi di sostentamento, riversando sull’imprenditore, in parte e per un determinato tempo, il rischio della malattia del dipendente, per modo che il superamento del dato temporale è condizione sufficiente a legittimare il recesso, non essendo necessaria alcuna prova di giustificato motivo oggettivo nè di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa o di adibire il lavoratore a mansioni diverse (Cass. n. 12233 del 2013).

Tale principio, unitamente all’altro secondo cui l’aspettativa opera nel rapporto di lavoro alla stregua di una parentesi che, determinando la sospensione di tutte le obbligazioni sinallagmatiche tra le parti (“senza decorrenza dell’anzianità e senza corresponsione della retribuzione”, ribadisce infatti l’art. 41, comma 3, CCNL 14.4.2011), non può essere considerata utilmente al fine di ampliare il periodo di comporto (così Cass. n. 2794 del 2015, sulla scorta di Cass. n. 12233 del 2013, cit.), induce a ritenere che, benchè la concessione di un periodo di aspettativa inibisca certamente al datore di lavoro di poter recedere prima della sua scadenza, sia errata un’interpretazione della norma contrattuale che, come quella fatta propria dalla Corte di merito, giunga a legittimare la risoluzione del rapporto solo al compimento dell’intero periodo di dodici mesi previsto dall’art. 41 comma 3: la disposizione negoziale, infatti, si limita piuttosto a fissare un limite massimo alla durata dell’aspettativa, ma lascia intatta sia la facoltà del lavoratore di richiederne un periodo inferiore, sia la potestà datoriale di recedere dal rapporto una volta che il periodo di aspettativa concretamente concesso sia spirato. Argomentare diversamente equivarrebbe invero a stravolgere l’assetto di interessi codificato, ai fini del comporto, dai primi due commi dell’art. 41 CCNL cit. e a snaturare la funzione propria della concessione dell’aspettativa, la quale, presupponendo il perdurare della malattia, assolve piuttosto allo scopo di consentire al lavoratore di poter continuare a fruire della tutela previdenziale prevista per il caso di malattia, che verrebbe ovviamente meno nel caso di risoluzione del rapporto, e a beneficiare della connessa contribuzione figurativa.

Non essendosi la Corte di merito attenuta al superiore principio di diritto, la sentenza impugnata va cassata e, non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito con il rigetto della domanda proposta da P.P..

Data l’oggettiva ambiguità della disposizione contrattuale, la cui corretta lettura si è resa possibile soltanto alla stregua dei principi di diritto enunciati da questa Corte posteriormente all’introduzione della lite, si ravvisano gravi ed eccezionali ragioni per compensare le spese dell’intero processo. Tenuto conto dell’accoglimento del ricorso, non sussistono invece i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda proposta da P.P.. Compensa le spese dell’intero processo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre

2016

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