Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18419 del 20/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 20/09/2016, (ud. 21/06/2016, dep. 20/09/2016), n.18419

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10268/2015 proposto da:

A.M., C.F. (OMISSIS), M.E. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo

studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, rappresentati e difesi dagli

avvocati NICOLETTA STAUDER, SARA DE MICCO, giusta deleghe in atti;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI CARDANO AL CAMPO, C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco e

legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA VIRGILIO, 8, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MUSTI,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SERGIO

PASSERINI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 86/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 21/01/2015 R.G.N. 1416/14;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

21/06/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato NICOLETTA STAUDER;

udito l’Avvocato ANDREA MUSTI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’inammissibilità del

ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1 – La Corte di Appello di Milano ha respinto il reclamo, della L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, proposto da A.M. e M.E. avverso la sentenza del Tribunale di Busto Arsizio che aveva confermato l’ordinanza dello stesso Tribunale, con la quale era stata rigettata la domanda formulata dai reclamanti nei confronti del comune di Cardano al Campo, volta ad ottenere la dichiarazione di nullità o illegittimità del licenziamento intimato il (OMISSIS) e la condanna della amministrazione convenuta a reintegrare i ricorrenti nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondere agli stessi le retribuzioni maturate dalla data del recesso sino alla effettiva riammissione in servizio, oltre al risarcimento del danno da quantificarsi in separata sede.

2 – La Corte territoriale ha premesso che il procedimento disciplinare era stato avviato, e contestualmente sospeso, a seguito dell’esercizio dell’azione penale nei confronti dell’ A., del M. e di altri appartenenti al Corpo di Polizia Municipale, accusati tutti di avere fatto un uso irregolare del sistema di rilevazione delle presenze; di avere utilizzato a fini privati la autovettura di servizio; di avere posto in essere reiterati atti ostili, aggressivi e denigratori nei confronti di altri appartenenti al medesimo Corpo. All’esito del dibattimento di primo grado il Tribunale di Busto Arsizio aveva ritenuto provata la responsabilità penale in relazione ad alcuni dei reati ascritti ed aveva condannato l’ A. alla pena di anni 2 e mesi 6 di reclusione ed il M. alla pena di anni 4 di reclusione ed Euro 3.000,00 di multa. Il comune di Cardano al Campo, avuta conoscenza della motivazione della sentenza, depositata il 7 dicembre 2012, il 22 febbraio 2013 aveva riattivato il procedimento disciplinare, ritenendo non necessario attendere il passaggio in giudicato della pronuncia di condanna.

3 – In diritto la Corte ha osservato che:

a) i motivi di gravame inerenti alla asserita violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, erano inammissibili perchè nel ricorso introduttivo i reclamanti avevano lamentato solo la violazione dei termini di cui all’art. 55 bis, del richiamato decreto legislativo e nulla avevano dedotto sulla tardività della riattivazione del procedimento e sulla necessità di attendere il passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna;

b) gli addebiti contestati giustificavano senz’altro la sanzione espulsiva inflitta, in quanto i ricorrenti avevano tenuto condotte riconducibili alla previsione dell’art. 25, lettera i), del CCNL di Comparto, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto;

c) non rilevava l’assenza di danno patrimoniale per il Comune, poichè i fatti avevano comunque leso l’immagine dell’ente locale;

d) la responsabilità dei reclamanti era stata dimostrata attraverso la acquisizione del materiale probatorio raccolto in sede penale, che consentiva di ritenere provate anche le condotte descritte nei capi di imputazione ai quali si riferiva la pronuncia assolutoria;

e) la circostanza che alcuni comportamenti non integrassero gli elementi costitutivi dei delitti ascritti non escludeva, infatti, che quegli stessi comportamenti avessero rilievo in sede disciplinare, perchè tenuti in violazione degli obblighi di servizio.

4 – Per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso A.M. e M.E. sulla base di quattro motivi. Il comune di Cardano al Campo ha resistito con tempestivo controricorso, illustrato da memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo i ricorrenti denunciano “violazione art. 7, comma 2, Statuto dei Lavoratori in riferimento alla previsione di immutabilità dei capi di incolpazione nel procedimento disciplinare”. Sostengono che il principio indicato in rubrica sarebbe stato violato dal comune di Cardano sul Campo perchè l’ente non avrebbe tenuto conto della pronuncia di assoluzione da alcuni dei reati ascritti. Aggiungono che il datore di lavoro, nel sospendere il procedimento disciplinare, avrebbe deciso “di non spendere il proprio potere istruttorio nell’indipendenza, ma di abdicarne in favore dell’attività pubblica del PM”, sicchè non poteva poi ignorare la sentenza di assoluzione, vincolante anche per il disposto dell’art. 653 c.p.p..

1.2 – La violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, è denunciata anche nel secondo motivo, con il quale i ricorrenti si dolgono della asserita assenza di specificità della contestazione nonchè della errata applicazione degli artt. 24 e 25 del CCNL 1995, come modificato il 22.1.2004. Asseriscono che la contestazione ricalcava esattamente “i capitoli di imputazione del decreto di rinvio a giudizio penale” sicchè era generica “in quanto ai dipendenti cui veniva contestata ciascuna condotta non era chiaro se tale contestazione attenesse al contesto penale, oppure fosse autonoma da esso e meritasse una diversa difesa”.

1.3 – Con il terzo motivo, rubricato “violazione art. 7, comma 2 Statuto dei Lavoratori in riferimento alla previsione tempestività della contestazione e al D.Lgs. n. 165 del 2001 art. 55 bis, commi 3 e 4 e segg. modifiche”, i ricorrenti assumono che la genericità della contestazione degli addebiti, ed in particolare il mancato richiamo agli artt. 24 e 25 del CCNL, avrebbe creato confusione fra “capi di contestazione, apertura e sospensione del procedimento disciplinare, chiusura in primo grado penale, riapertura del disciplinare e licenziamento disciplinare”. Sostengono che l’Amministrazione avrebbe “cambiato in corso di procedimento le regole della disciplina, mutando il motivo per il quale i dipendenti erano sottoposti a disciplina”, rendendo in tal modo impossibile una compiuta difesa. Aggiungono che, in ogni caso, la L. n. 92 del 2012, art. 1, fa divieto di proporre domande diverse da quelle di cui al comma 47 “salvo che siano fondate sugli identici fatti costitutivi”, sicchè la Corte di Appello avrebbe dovuto ritenere ammissibili i motivi di reclamo.

1.4 – Il quarto motivo denuncia “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5” perchè la Corte territoriale avrebbe “sorvolato sulle conseguenze della mutazione delle contestazioni e sulla genericità delle motivazioni addotte dal datore di lavoro a sostegno dei comminati licenziamenti disciplinari” e non avrebbe “motivato a sufficienza il potere del datore di lavoro nel discostarsi dalla sentenza penale di primo grado non definitiva”. Si sostiene, inoltre, che la applicabilità dell’art. 55 ter, anzichè dell’art. 55 bis, sarebbe in contrasto con la riapertura del procedimento avvenuta sulla base di sentenza penale non definitiva nonchè con la asserita autonomia dell’azione disciplinare rispetto a quella penale.

2 – Il ricorso è inammissibile in tutte le sue articolazioni, sia perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., nn. 3, 4 e 6 e art. 369 c.p.c., n. 4, sia perchè le doglianze, di non facile comprensione, risultano avulse dai principi di immutabilità, specificità e tempestività richiamati nelle rubriche dei motivi.

La giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare che il ricorso per cassazione deve contenere tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto, di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle specifiche argomentazioni della sentenza impugnata, senza la necessità di accedere ad altre fonti ed atti del processo (Cass. 3.2.2015 n. 1926).

Il ricorrente ha, quindi, l’onere di indicare specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato, mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la indicazione indiretta, accompagnata dalla specificazione della parte del documento alla quale corrisponde l’indiretta riproduzione.

Nel caso di specie i ricorrenti, pur lamentando nei motivi di ricorso la violazione dei principi di specificità, immutabilità e tempestività della contestazione, non hanno riportato, neppure per estratto, il contenuto degli atti rilevanti (contestazione, nota di riavvio del procedimento disciplinare, atto di irrogazione della sanzione, sentenza penale) nè hanno indicato in quale sede e da chi ne sarebbe stata effettuata la produzione.

2.1 – Il ricorso, inoltre, pur richiamando nella rubrica dei motivi i principi della necessaria specificità, immutabilità e tempestività della contestazione, sviluppa, poi, argomenti che nulla hanno a che vedere con i principi richiamati.

E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte l’orientamento secondo cui il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito disciplinare, assolve esclusivamente alla funzione di consentire al lavoratore incolpato di esercitare il proprio diritto di difesa, con la conseguenza che è ammissibile il rinvio per relationem alle accuse formulate in sede penale, quando detto rinvio consenta all’incolpato di individuare i fatti ritenuti di rilevanza disciplinare (fra le più recenti in tal senso Cass. 15.5.2014 n. 10662).

I ricorrenti riconoscono nel ricorso che “i capi di contestazione erano articolati, distinti, specifici, perchè ricopiavano tali e quali i capitoli di imputazione del decreto di rinvio a giudizio”, sicchè non è dato cogliere il senso della censura con la quale, poi, si sostiene che l’avere valutato “genericamente la condotta” “indipendentemente dall’esito del processo penale di primo grado, rende la contestazione essa pure generica”.

2.2 – Analoghe considerazioni vanno espresse quanto al principio della immutabilità della contestazione, principio strettamente connesso all’esercizio del diritto di difesa e, quindi, violato solo qualora il licenziamento venga intimato in relazione a condotte diverse da quelle contestate, rispetto alle quali il dipendente non sia stato posto in condizione di difendersi.

Non si comprende, pertanto, la ragione per la quale l’avere utilizzato “gli stessi atti penali di assoluzione per condannare disciplinarmente i dipendenti” sarebbe contrario al principio della immutabilità, una volta che gli stessi ricorrenti riconoscono la totale coincidenza fra i fatti addebitati in sede penale e quelli oggetto del procedimento disciplinare.

La censura, poi, non è idonea a contrastare gli argomenti utilizzati, per affermare la infondatezza del reclamo, dalla Corte territoriale, la quale ha giustamente osservato che tutte le condotte erano state provate attraverso il materiale probatorio acquisito (riprese attuate con telecamere installate in prossimità del rilevatore di presenze, intercettazioni ambientali, verbali della Guardia di Finanza, deposizioni testimoniali, rilievi dei GPS satellitari relativi alle vetture) e che la responsabilità disciplinare presuppone valutazioni autonome rispetto a quella penale, con la conseguenza che ben può un comportamento, ritenuto non idoneo ad integrare gli estremi del delitto contestato, essere apprezzato sul piano disciplinare, perchè comportante la violazione degli obblighi che scaturiscono dal rapporto di lavoro.

2.3 – Infine non si comprende il tenore della censura relativa alla pretesa violazione delle regole del rito, poichè il giudice del reclamo, nel ritenere inammissibili le censure formulate mediante il richiamo al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter, ha correttamente applicato il principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui la deduzione, nel corso del giudizio di primo grado ovvero con i motivi di appello, di nuovi profili di illegittimità del licenziamento integra la proposizione di domande nuove, fondate su diverse causae petendi ed implicanti l’esigenza di specifici accertamenti, idonei a modificare il fatto costitutivo dedotto in giudizio (Cass. 12.6.2008 n. 15795 e negli stessi termini Cass. 16.1.2015 n. 655).

Detti principi risultano applicabili anche al rito disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, perchè il reclamo ha natura sostanziale di appello per il quale valgono, ove non diversamente disposto, le medesime regole dettate per il giudizio ordinario (Cass. 29.10.2015 n. 22142 e Cass. 29.10.2014 n. 23021).

3 – In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre rimborso spese generali del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 giugno 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2016

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