Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18413 del 01/08/2013


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Civile Sent. Sez. L Num. 18413 Anno 2013
Presidente: VIDIRI GUIDO
Relatore: TRIA LUCIA

SENTENZA

sul ricorso 11385-2011 proposto da:
DI GIOVANNI CARMELO DGVCML60R31L271Z, domiciliato in
ROMA, VIA EZIO 4, presso lo studio dell’avvocato
GASSANI GIAN ETTORE, rappresentato e difeso
dall’avvocato GENOVESE FRANCESCO giusta delega in
atti;
– ricorrente –

2013
1276

contro

SSL HEALTHCARE ITALIA S.P.A. 04292300375, in persona
del legale rappresentante pro tempore, elettivamente
domiciliata in ROMA, VIA DI RIPETTA 22, presso lo

Data pubblicazione: 01/08/2013

studio dell’avvocato VESCI GERARDO, che la rappresenta
e difende unitamente agli avvocati NICOLI ANNALISA,
DONDI GERMANO, giusta procura notarile ad litem in
atti;
– contrari corrente –

di MESSINA, depositata il 19/04/2010 r.g.n. 1449/05;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 10/04/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA
TRIA;
udito l’Avvocato GENOVESE FRANCESCO;
udito l’Avvocato VESCI GERARDO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. GIULIO ROMANO, che ha concluso per
l’inammissibilità del ricorso.

avverso la sentenza n. 288/2010 della CORTE D’APPELLO

Udienza del 10 aprile 2013 — Aula A
n. 16 del ruolo —RG n. 11385/11
Presidente: Vidiri – Relatore: Tria

1.— La sentenza attualmente impugnata respinge l’appello di Carmelo Di Giovanni avverso la
sentenza del Tribunale di Messina del 20 settembre 2004, di rigetto della domanda del Di Giovanni
volta ad ottenere : 1) il riconoscimento del diritto alla liquidazione delle differenze di trattamento di
fine rapporto per il lavoro di agente della società HATU’ ICO s.p.a. — divenuta SSL
HEALTHCARE ITALIA s.p.a. — (svolto dal giugno 1987 al marzo 2000), derivanti dalla
applicazione della disciplina prevista dall’art. 1751 cod. civ.; 2) la conseguente condanna della
suddetta società al pagamento della somma di euro 15.672,38, determinata sottraendo dall’importo
dovuto in base alla menzionata disposizione codicistica quanto già ricevuto in forza dell’AEC
(Accordo Economico Collettivo) per gli agenti del settore commercio.
La Corte d’appello di Messina, per quel che qui interessa, precisa che:
a) la Corte di cassazione — nella sentenza 1° giugno 2009, n. 12724 — ha affermato che, per la
quantificazione dell’indennità di cessazione del rapporto spettante all’agente, il giudice è tenuto a
verificare se, nei limiti posti dall’art. 1751 cod. civ., terzo comma, detta quantificazione effettuata
sulla base dei criteri indicati dall’Accordo economico collettivo del 27 novembre 1992 “sia
corrispondente al canone di equità prescritto dal medesimo art. 1751 cod. civ., primo comma, tenuto
conto di tutte le circostanze del caso ed in particolare delle provvigioni che l’agente perde e che
risultano dagli affari con tali clienti, e, ove non la ritenga tale, deve — in mancanza di una specifica
disciplina collettiva — riconoscere all’agente il differenziale necessario per riportarla ad equità”;
b) in tal modo la giurisprudenza di legittimità, a seguito della sentenza della Corte di giustizia
delle Comunità Europee, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, interpretativa degli artt. 17 e 19 della
direttiva 86/653 (in materia di coordinamento dei diritti degli Stati membri concernenti gli agenti di
commercio indipendenti), ha modificato il proprio precedente orientamento, nel senso di ritenere
che la determinazione della indennità in oggetto deve essere effettuata non secondo una valutazione
complessiva ex ante dell’operato dell’agente, ma secondo un esame dei dati concreti ex post;
c) nella specie il Di Giovanni chiede proprio l’applicazione dell’indicato principio, tuttavia in
punto di fatto la sua domanda non può essere accolta perché il ricorrente non ha provato la
sussistenza delle condizioni previste dal secondo comma dell’invocato art. 1751 cod. civ.;
d) infatti, diversamente da quanto sostenuto dall’interessato, non è stata raggiunta la prova di
avere procurato nuovi clienti o di avere sensibilmente sviluppato gli affari con i clienti esistenti e
della sussistenza di persistenti sostanziali vantaggi per il preponente dagli affari con i clienti
acquisiti dall’agente;
1

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

e) non ricorrendo le condizioni per la fruizione del trattamento previsto dall’art. 1751 cod.
civ., si deve ritenere che in concreto il trattamento di miglior favore per l’agente sia quello che gli è
stato corrisposto a norma della contrattazione collettiva.
2.— Il ricorso di Carmelo Di Giovanni domanda la cassazione della sentenza per un unico
motivo; resiste, con controricorso, la SSL HEALTHCARE ITALIA s.p.a.
MOTIVI DELLA DECISIONE

1.— Con il motivo di ricorso si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ.,
violazione dell’art. 2697 e 1751 cod. civ. nonché degli artt. 115, 116 e 437 cod. proc. civ.; b) in
relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., travisamento dei fatti, omessa e/o contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia.
Si sostiene che — a fronte di una “sia pur generica” deduzione del Di Giovanni in ordine alla
sussistenza delle condizioni previste dall’art. 1751 cod. civ., basata su documenti e prove
testimoniali — la Corte d’appello, omettendo di pronunciarsi sulle richieste istruttorie ulteriori
avanzate fin dal ricorso introduttivo e richiamando soltanto una delle testimonianze assunte, ha
ritenuto non raggiunta la prova relativa alla sussistenza delle condizioni stesse, giustificando tale
statuizione con motivazione illogica, contraddittoria e insufficiente.
Si aggiunge che la Corte messinese, senza tenere conto dei documenti allegati al ricorso
introduttivo del giudizio e senza indicare la fonte del proprio convincimento, avrebbe erroneamente
affermato che si è riscontrata una diminuzione del fatturato degli ultimi anni del rapporto, così non
solo travisando il senso dell’unica deposizione testimoniale presa in considerazione ma anche
tradendo lo spirito meritocratico posto a base dell’art. 1751 cod. civ.
Tale normativa, infatti, lungi dal dare rilievo di per sé ad eventuali diminuzioni di fatturato è
ispirata alla ratio di riconoscere il diritto all’indennità ivi prevista sulla sola base della verifica di un
incremento del fatturato apportato dall’agente rispetto a quello iniziale, considerando ininfluenti
eventuali diminuzioni di fatturato che possano registrarsi nell’ultimo o negli ultimi anni del
rapporto, magari anche per circostanze del tutto indipendenti dall’impegno e dalla capacità
dell’agente.
Un chiaro travisamento dei fatti (a partire dalle dichiarazioni dello stesso ricorrente in ordine
al comportamento della clientela dopo la cessazione del suo mandato di agenzia) derivante da un
esame superficiale delle prove testimoniali e documentali acquisite al processo avrebbe anche
indotto la Corte messinese ad escludere la sussistenza della prevista condizione della persistenza di
vantaggi in capo alla preponente derivanti dagli affari procurati dall’agente.
II — Esame delle censure

2.- Il motivo di ricorso non è da accogliere, per le ragioni di seguito precisate.

2

I — Sintesi dei motivi di ricorso

Al riguardo va ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di
motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di
riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza
giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo
consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze
probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel
sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito
(vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio
2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n.
18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).
Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al
processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza
impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli
elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al
principio del libero convincimento del giudice, sicché la violazione degli ant. 115 e 116 cod. proc.
civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui
all’art. 360, primo comma, numero 5, cod. proc. civ., e deve emergere direttamente dalla lettura
della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26
marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12
febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18
settembre 2009, n. 20112).
2.2.- Nella specie le valutazioni delle risultanze probatorie operate dal Giudice di appello sono
congruamente motivate e l’iter logico—argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente
individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione.
In particolare, va sottolineato che la Corte messinese è pervenuta alla conclusione — che,
peraltro, si risolve in un apprezzamento di fatto riservato al giudice di merito ed incensurabile in
sede di legittimità, se congruamente motivato — di escludere che, nella specie, fossero emerse le
condizioni per la fruizione da parte dell’agente del trattamento previsto dall’art. 1751 cod. civ.,
effettuando una valutazione in concreto e a posteriori dell’operato dell’agente stesso, che l’ha
portata a ritenere che il trattamento di miglior favore per il Di Giovanni sia quello che gli è stato
corrisposto a norma della contrattazione collettiva.
Ne consegue che la Corte territoriale si è del tutto unifonnata all’orientamento espresso dalla
giurisprudenza di questa Corte a seguito della sentenza della Corte di giustizia delle Comunità
Europee, 23 marzo 2006, in causa C-465/04, interpretativa degli ara. 17 e 19 della direttiva 86/653,
come, del resto risulta dall’espresso richiamo nella sentenza impugnata di Cass. 1° giugno 2009, n.
12724.
3

2.1.- Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge, contenuto
nell’intestazione della prima parte del motivo, tutte le censure si risolvono nella denuncia di vizi di
motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito ai
fini della ricostruzione dei fatti.

A fronte di questa situazione, le doglianze mosse dalla ricorrente si risolvono sostanzialmente
nella prospettazione di un diverso apprezzamento delle stesse prove e delle stesse circostanze di
fatto già valutate dal Giudice di merito in senso contrario alle aspettative del medesimo ricorrente e
si traducono nella richiesta di una nuova valutazione del materiale probatorio, del tutto
inammissibile in sede di legittimità.
2.3.- Né va omesso di rilevare che, il ricorso non risulta neppure conforme al principio di
specificità dei motivi del ricorso per cassazione — da intendere alla luce del canone generale “della
strumentalità delle forme processuali” — in base al quale il ricorrente che denunci il difetto di
motivazione su un’istanza di ammissione di un mezzo istruttorio o sulla valutazione di un
documento o di risultanze probatorie o processuali, ha l’onere di indicare nel ricorso specificamente
le circostanze oggetto della prova o il contenuto del documento trascurato od erroneamente
interpretato dal giudice di merito (trascrivendone il contenuto essenziale), fornendo al contempo
alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali,
potendosi così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366, primo comma,
n. 6, cod. proc. civ. (a pena di inammissibilità) e dall’art. 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ.
(a pena di improcedibilità del ricorso), nel rispetto del relativo scopo, che è quello di porre il
Giudice di legittimità in condizione di verificare la sussistenza del vizio denunciato senza compiere
generali verifiche degli atti e soprattutto sulla base di un ricorso che sia chiaro e sintetico (vedi, per
tutte: Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726).
In fatti„ nelle argomentazioni delle censure, il Di Giovanni fa riferimento a numerose
risultanze istruttorie — specialmente documentali — senza riportarne nel ricorso il contenuto, neppure
in sintesi, senza provvedere alla relativa allegazione al ricorso e senza fornire elementi sicuri per
consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali.
III — Conclusioni
3.- In sintesi, il ricorso deve essere respinto. Le spese del presente giudizio di cassazione —
liquidate nella misura indicata in dispositivo — seguono la soccombenza.
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Infatti, secondo tale orientamento — che si è ormai consolidato e al quale il Collegio intende
dare continuità — per effetto dell’indicata sentenza della Corte di giustizia delle Comunità Europee,
23 marzo 2006, causa C-465/04, “ai fini della quantificazione dell’indennità di cessazione del
rapporto spettante all’agente nel regime precedente all’aecordo collettivo del 26 febbraio 2002 che
ha introdotto la ‘indennità meritocratica’, ove l’agente provi di aver procurato nuovi clienti al
preponente o di aver sviluppato gli affari con i clienti esistenti (ed il preponente riceva ancora
vantaggi derivanti dagli affari con tali clienti) ai sensi dell’art. 1751, primo comma, cod. civ., è
necessario verificare se — fermi i limiti posti dall’art. 1751, terzo comma, cod. civ. — l’indennità
determinata secondo l’Accordo economico collettivo del 27 novembre 1992, tenuto conto di tutte le
circostanze del caso e, in particolare, delle provvigioni che l’agente perde, sia equa e compensativa
del particolare merito dimostrato, dovendosi, in difetto, riconoscere la differenza necessaria per
ricondurla ad equità” (Cass. 19 febbraio 2008, n. 4956; Cass. 1° giugno 2009, n. 12724; Cass. 15
marzo 2012, n. 4149).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente
giudizio di cassazione, liquidate in euro 50,00 (cinquanta/00) per esborsi, euro 1500,00
(millecinquecento/00) per compensi professionali, oltre accessori come per legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione lavoro, il 10 aprile 2013.

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