Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18409 del 09/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/07/2019, (ud. 08/05/2019, dep. 09/07/2019), n.18409

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6320-2017 proposto da:

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA VALADIER

39, presso lo studio degli avvocati VINCENZO SABIA, LAURA MINOLI,

che lo rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, in persona del

Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA,

alla VIA DEI PORTOGHESI, 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2312/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 21/05/2016 R.G.N. 4336/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO PAOLA che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato VINCENZO SABIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso al Tribunale di Roma S.F., dirigente di prima fascia, conveniva in giudizio il Ministero delle Infrastrutture per sentire dichiarare l’illegittimità o illiceità dell’omesso conferimento di alcun incarico (dirigenziale o di altra natura) nel periodo intercorrente tra il suo rientro in ruolo – 21/7/1999 – presso l’allora Ministero dei Lavori pubblici (cui era succeduto il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti) e il 31 maggio 2001, data in cui era intervenuta la cessazione dal servizio del S. per raggiunti limiti di età, dopo il disposto trattenimento su domanda per un biennio (ai sensi del combinato disposto del D.P.R. n. 1092 del 1973, art. 4 e del D.Lgs. n. 503 del 1992, art. 16) oltre che la condanna del suindicato Ministero al risarcimento dei danni – derivanti dalla violazione delle regole di correttezza e buona fede, anche nella fase precontrattuale del procedimento diretto al conferimento del suindicato incarico – subiti in conseguenza della forzosa inattività cui era stato costretto a seguito del suddetto mancato conferimento di alcun incarico nell’indicato periodo.

1.1. Il Tribunale accoglieva la domanda riconoscendo l’inadempimento dell’Amministrazione e, ritenendo sussistente un obbligo in tal senso dell’allora Ministero dei Lavori pubblici, nel cui ruolo dirigenziale era inserito il S., condannava l’Amministrazione al risarcimento del danno da demansionamento nella misura di Euro 77.507,76.

1.2. La Corte d’appello di Roma, in accoglimento dell’appello principale proposto dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e in riforma della sentenza di primo grado, respingeva la domanda originaria proposta dal S..

Riteneva la Corte territoriale che l’esame complessivo della normativa riguardante la riforma della dirigenza pubblica portasse ad escludere l’esistenza di un diritto del dirigente di pretendere il conferimento di un incarico e di un correlativo obbligo dell’Amministrazione di attribuirlo. Ed infatti con l’istituzione del Ruolo unico, i dirigenti avevano cessato di appartenere ai singoli Ministeri ed era quindi possibile che non avessero l’affidamento di alcun incarico, senza che da ciò potesse automaticamente derivare un danno risarcibile. Di ciò si aveva conferma nel D.P.R. n. 150 del 1999, art. 6 che, nel disciplinare gli incarichi connessi a funzioni ispettive di consulenza, studio e ricerca, non solo presupponeva l’eventualità che al dirigente non fosse affidato un incarico di direzione di un ufficio di livello dirigenziale, ma stabiliva che i dirigenti che non avessero incarichi da parte delle singole Amministrazioni fossero temporaneamente posti a disposizione della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Secondo la Corte territoriale era, inoltre, destituito di fondamento l’assunto del S. in base al quale, alla data di entrata in vigore della nuova normativa citata, fosse già stata avviata la procedura per il conferimento dell’incarico presso l’allora Ministero dei Lavori pubblici, in quanto detto Dicastero non aveva titolo per avviare tale procedura, visto che all’epoca il ricorrente era ancora in servizio presso il Ministero dell’Ambiente, sicchè quelli richiamati potevano essere eventualmente considerati “contatti informali” con il Ministero dei Lavori pubblici.

Ad avviso della Corte capitolina, tale ultimo Ministero, preso atto del mancato conferimento dell’incarico dirigenziale da parte del Ministero dell’Ambiente, avrebbe potuto richiedere di utilizzare il S. per un incarico connesso a funzioni ispettive di consulenza, studio e ricerca, ai sensi del D.P.R. n. 150 del 1999, art. 6 ma la mancata applicazione di tale norma non comportava la configurabilità di un diritto soggettivo all’ottenimento dell’incarico, come sottolineato da Cass. 22 febbraio 2006, n. 3880 secondo cui “con la istituzione del ruolo unico dei dirigenti – previsto dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80 che ha sostituito il D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 23 e le cui modalità di costituzione e tenuta sono state disciplinate dal D.P.R. 26 febbraio 1999, n. 150 – il legislatore ha riconosciuto al datore di lavoro pubblico ampia potestà discrezionale sia nel ritenere di non avvalersi di un determinato dipendente mettendolo così a disposizione del ruolo unico, sia nella scelta dei soggetti ai quali conferire incarichi dirigenziali; rispetto a tale potestà discrezionale la posizione soggettiva del dirigente aspirante all’incarico non può atteggiarsi come diritto soggettivo pieno, bensì come interesse legittimo di diritto privato, da riportare, quanto alla tutela giudiziaria, nella più ampia categoria dei “diritti” di cui all’art. 2907 c.c.. La tutela di tale posizione giuridica soggettiva, affidata al giudice ordinario in funzione di giudice del lavoro, non è dissimile da quella già riconosciuta al partecipante ad una procedura di selezione concorsuale adottata dal datore di lavoro privato ed è estesa a tutte le garanzie procedimentali di selezione previste dalla legge e dai contratti collettivi”.

1.3. Proposto ricorso per cassazione da parte del S., questa Corte, con sentenza n. 21700/2013, confermava l’affermata insussistenza di un diritto soggettivo del dirigente pubblico al conferimento di un incarico dirigenziale di cui al principio richiamato dalla Corte territoriale e riteneva che, essendo gli atti inerenti al conferimento degli incarichi dirigenziali da ascrivere alla categoria degli atti negoziali (e non a quella degli atti amministrativi in senso proprio), ad essi dovessero applicarsi le norme del codice civile in tema di esercizio dei poteri del privato datore di lavoro, con la conseguenza che le situazioni soggettive del dipendente interessato potevano definirsi in termini di “interessi legittimi”, ma di diritto privato e, come tali, pur sempre rientranti nella categoria dei diritti di cui all’art. 2907 c.c..

Precisava che le suddette posizioni soggettive di interesse legittimo di diritto privato fossero configurabili anche rispetto agli atti preliminari al provvedimento di conferimento dell’incarico dirigenziale e ad ogni altro atto che precedeva la stipulazione del relativo contratto e fossero suscettibili di tutela giurisdizionale anche in forma risarcitoria, a condizione che l’interessato allegasse e provasse la lesione dell’interesse legittimo suddetto nonchè il danno subito, in dipendenza dell’inadempimento di obblighi gravanti sull’amministrazione.

In conseguenza cassava la sentenza impugnata e rinviava alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, perchè esaminasse il merito della controversia attenendosi al seguente principio di diritto: “il comportamento della P.A. – tenuto nella fase, informale, delle “trattative” volte all’attribuzione dell’incarico di funzione dirigenziale se non è conforme a correttezza e buona fede e neppure all’art. 97 Cost., in quanto fa sorgere nell’interessato l’affidamento nella attribuzione dell’incarico stesso – derivante anche dall’accoglimento della sua istanza di trattenimento in servizio per un biennio oltre il raggiungimento dell’età pensionabile – ma si conclude con un esito negativo, senza l’adozione da parte dell’amministrazione di adeguate forme di partecipazione dell’interessato al relativo processo decisionale e senza l’esternazione delle ragioni giustificatrici della scelta, non fornendo la P.A. alcun elemento circa i criteri e le motivazioni che l’hanno indotta a non conferire alcun incarico dirigenziale al ricorrente e a conferirne contemporaneamente invece altri analoghi a quello richiesto da quest’ultimo ad altri dirigenti, comporta il riconoscimento di una tutela giurisdizionale volta al risarcimento dell’interesse legittimo di diritto privato leso dall’inadempimento degli obblighi gravanti sull’amministrazione (in base agli artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost.), salvo restando che tale pretesa risarcitoria non può essere fondata sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico dirigenziale, che è insussistente in assenza del contratto stipulato con l’amministrazione”.

1.4. La Corte d’appello di Roma, decidendo in sede di rinvio, rigettava l’originario ricorso proposta dal S..

Riteneva la Corte territoriale che la domanda del dirigente difettasse di prova adeguata per il riconoscimento della tutela risarcitoria in relazione alla violazione delle regole di buona fede e correttezza nella fase precontrattuale.

Rilevava che il S. solo in sede di ricorso in riassunzione, e dunque tardivamente, avesse lamentato l’esistenza, in termini di interesse negativo, di “danni da occasioni trascurate” che si sarebbero verificati perchè in presenza del legittimo affidamento nell’attribuzione dell’incarico dirigenziale egli non aveva accettato prestigiosi incarichi che in quel frangente gli erano stati offerti e che anche l’allegazione, per la quale aveva chiesto la prova testimoniale, secondo cui il “mancato trattenimento in servizio attivo da parte della P.A.” aveva comportato che egli non potesse più aspirare alla nomina come Consigliere di Stato e della Corte dei Conti, fosse inammissibile in quanto tardiva.

Rilevava che le ulteriori pretese risarcitorie in quanto fondate sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico dirigenziale incontrassero la preclusione posta dalla Cassazione per l’assenza di un diritto all’incarico e che neppure fosse possibile pervenire ad una tutela risarcitoria in termini di perdita di chance genericamente richiesta nel ricorso di primo grado.

2. Avverso tale sentenza S.F. ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

3. Il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti ha resistito, con controricorso.

4. Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 384 c.p.c., commi 1 e 2 e art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Lamenta che la Corte territoriale, in sede di rinvio, non si sarebbe conformata ai principi ed alla regola di diritto specificamente impartite da questa Corte Suprema ed avrebbe escluso la fondatezza della pretesa risarcitoria (laddove, viceversa, la pronuncia resa in fase rescindente aveva già riconosciuto la responsabilità per condotta colposa della P.A. e il diritto al risarcimento dell’interesse legittimo di diritto privato), in tal modo eccedendo nel riesame del merito della fattispecie dedotta.

Sostiene che la Corte territoriale avrebbe dovuto limitarsi, stante la ragione del disposto rinvio, a determinare il danno già evidenziato nella domanda originaria, provato per tabulas.

2. Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata non si è discostata dal principio di diritto di cui alla pronuncia di questa Corte di legittimità in sede rescindente.

La Corte territoriale, infatti, ha richiamato espressamente l’affermato principio di diritto e, sul presupposto della riconosciuta tutelabilità della posizione soggettiva in relazione al comportamento (violativo delle regole di buona fede e correttezza: v. punto 2.3. primo e secondo capoverso della sentenza n. 21700/2013) posto in essere dall’Amministrazione nella fase precontrattuale, ha verificato, ai fini della fondatezza della pretesa risarcitoria, se il relativo danno fosse stato allegato e provato.

Questo era, infatti, il compito devolutole (si vedano il punto 2.2. lett. g) della sentenza rescindente: “le suddette posizioni soggettive di interesse legittimo di diritto privato sono configurabili anche rispetto agli atti preliminari al provvedimento di conferimento dell’incarico dirigenziale e ad ogni altro atto che preceda la stipulazione del relativo contratto e sono suscettibili di tutela giurisdizionale anche in forma risarcitoria, a condizione che l’interessato alleghi e provi la lesione dell’interesse legittimo suddetto nonchè il danno subito, in dipendenza dell’inadempimento di obblighi gravanti sull’amministrazione, ma senza che la pretesa risarcitoria possa essere fondata sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico dirigenziale, che è insussistente in assenza del contratto stipulato con l’amministrazione” ed il conclusivo punto 3 recante l’affermazione del principio di diritto come sopra riportato nello storico di lite.

Con l’indicato principio era stata, dunque, esclusa ogni apodittica assunzione del danno, devolvendosi al giudice del rinvio la verifica della sussistenza dello stesso iuxta alligata e probata.

Ad avviso dei giudici del rinvio, nessuna allegazione necessaria per pervenire all’accertamento ed alla liquidazione del suddetto danno era presente nel ricorso ex art. 414 c.p.c. ove era stata solo prospettata la perdita delle retribuzioni connesse al mancato conferimento dell’incarico (che, però, come precisato da questa Corte, non poteva fondare la pretesa risarcitoria).

Troppo generica era stata la deduzione relativa alla perdita di chance ed in relazione alla stessa non erano stati offerti elementi presuntivi per poter determinare, anche in termini probabilistici, la quantificazione del danno.

Egualmente generiche erano state, ad avviso della Corte capitolina, le deduzioni circa la lesione alla personalità morale ed alla professionalità specie considerando che non si verteva in una ipotesi di demansionamento ma di interesse legittimo di diritto privato al rispetto di regole comportamentali della P.A., tanto più che, come pure evidenziato in sentenza, il S., il quale si trovava a due anni dal pensionamento (in virtù del prolungamento, a domanda, del rapporto di lavoro prima del collocamento a riposo), non aveva ragionevolmente aspettative di carriera nè possibilità di accrescimento professionale.

Del tutto nuova era stata, poi, la domanda per risarcimento dei danni alla vita di relazione “recisa irrimediabilmente con i vertici istituzionali e politici dello Stato” nonchè quella per il risarcimento del danno morale per la lesione all’immagine ed alla salute in quanto non oggetto del ricorso ex art. 414 c.p.c..

Ed allora non vi è dubbio che la Corte territoriale non si sia discostata dal dictum della pronuncia di legittimità, laddove ha ritenuto che non vi fossero state allegazioni e prove tempestivamente introdotte in causa idonee a dare conto della sussistenza di un danno derivato al S. dal comportamento della P.A. che, pure, in sede rescindente era stato ritenuto illegittimo e come tale ipoteticamente causativo di danni.

Non sussiste perciò violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, perchè, come si è detto, la sentenza di cassazione ha proprio demandato a giudice di rinvio di verificare se tale danno (non identificabile con il mancato conferimento dell’incarico e con le conseguenze patrimoniali a questo riconducibili) vi fosse stato.

3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la falsa applicazione degli artt. 1175, 1375 e 97 Cost. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente considerato la richiesta di liquidazione del danno ingiusto subito dal ricorrente fondata sulla lesione del solo diritto soggettivo all’incarico conferito anzichè fondata sul comportamento scorretto e contrario al dovere generale di buona fede in senso oggettivo dell’amministrazione e sulla violazione di precisi obblighi gravanti sull’amministrazione quale quello di correttezza ed imparzialità nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali generali sussidiari, donde l’inadempimento contrattuale e l’ineludibile integrale risarcibilità dei danni conseguenza, secondo i criteri ordinari. In particolare la Corte capitolina avrebbe errato nell’esaminare la pretesa risarcitoria solo sotto il profilo del diritto soggettivo leso per il mancato conferimento dell’incarico dirigenziale escludendo dalla valutazione che il danno ingiusto subito fosse altresì riconducibile alla violazione del dovere di buona fede in senso oggettivo in cui era incorsa l’amministrazione venendo meno al dovere di correttezza ed imparzialità nell’attribuzione degli incarichi dirigenziali sussidiari L. n. 150 del 1999, ex art. 6 dopo aver generato colposamente nello stesso un falso affidamento nel conferimento di un incarico dirigenziale generale minore.

4. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale, escluso che la pretesa risarcitoria potesse essere fondata sulla base del diritto (insussistente) al conferimento dell’incarico dirigenziale (ciò sulla base di quanto affermato da questa Corte di legittimità nella pronuncia che ha disposto il rinvio), ha ritenuto, nell’ambito del giudizio che le era stato devoluto, priva di prova la domanda volta al risarcimento del danno precontrattuale.

Nè d’altra parte il danno da lesione dell’affidamento può identificarsi con le retribuzioni perse proprio perchè, come stigmatizzato dalla stessa pronuncia rescindente, la pretesa risarcitoria non può fondarsi sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico, che non sussiste prima della stipula del contratto con la P.A. (si vedano anche Cass. 14 aprile 2015, n. 7495; Cass. 20 giugno 2016, n. 12678).

Per tale danno evidentemente si intendeva, sia in termini di allegazione sia di prova, qualcosa di diverso rispetto alla perdita della retribuzione riconducibile al mancato conferimento dell’incarico dirigenziale e specificamente collegato al pregiudizio derivato al S. dal comportamento inadempiente dell’Amministrazione nella fase preliminare al conferimento dell’incarico (c.d. fase delle trattative) ed in ragione dell’affidamento ingenerato nel predetto circa l’attribuzione dello stesso (poteva, ad esempio, trattarsi tanto di un danno per perdita patrimoniale per le spese inutilmente sostenute in relazione alle trattative, quanto di un danno per il pregiudizio derivato alla parte per non aver usufruito di altre occasioni professionali presentatesi nel corso delle trattative, restando, invece escluso quanto sarebbe stato dovuto in forza del contratto non concluso).

Ed allora la Corte territoriale, correttamente svolgendo il compito affidatole, ha verificato che il S. si fosse limitato a prospettare danni risarcibili solo sotto il profilo della perdita della retribuzione che avrebbe potuto conseguire con la suddetta attribuzione e ritenuto che ciò non potesse fondatamente supportare la relativa pretesa che in tale modo finiva con l’essere basata sulla lesione del diritto al conferimento dell’incarico dirigenziale (nella specie insussistente, giusta quanto affermato nella pronuncia rescindente) ed altresì accertato, come già evidenziato punto sub 2. che precede, che, per il resto, l’appellante avesse formulato domande risarcitorie o troppo generiche o nuove, come tali inidonee a consentire di pervenire ad una pronuncia di riconoscimento del danno.

5. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto non proposta la domanda risarcitoria dei danni conseguenti all’accertata violazione degli obblighi di buona fede e correttezza di cui si era resa responsabile l’amministrazione. Rileva che tale domanda era presente nel ricorso ex art. 414 c.p.c. e che la Corte del rinvio avrebbe omesso di pronunciare sull’integrale domanda risarcitoria.

6. Il motivo è infondato.

Valga, al riguardo, considerare che i giudici del rinvio non hanno affatto ritenuto che la domanda di risarcimento danni per responsabilità precontrattuale non fosse stata avanzata anzi hanno richiamato quanto affermato da questa Corte sul punto (v. quarto capoverso pag. 9) e poi ritenuto che non vi fossero state tempestive allegazioni e prove di tale danno.

7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 416 c.p.c., comma 3, art. 420 c.p.c., comma 5, art. 421 c.p.c., comma 2 e art. 437 c.p.c., comma 2 per aver ritenuto erroneamente tardiva la produzione documentale depositata in sede di rinvio afferenti alcuni documenti allegati e comunicati con il ricorso in riassunzione nell’indice in calce allo stesso.

8. Il motivo è infondato.

Sostiene il ricorrente che si trattasse di documentazione successiva all’inizio del giudizio di primo grado.

Anche ammesso che sia così, andava chiarito se i documenti in questione (oltre ad essere indispensabili) fossero anche di formazione successiva al giudizio di rinvio perchè, altrimenti, era nella precedente fase di appello che gli stessi andavano prodotti, salvo che non venisse dimostrata una qualche impossibilità per causa di forza maggiore (v. anche infra).

Questa Corte ha, infatti, affermato, che la riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio si configura non già come atto di impugnazione, ma come attività di impulso processuale volta alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata e, come tale, instaura un processo chiuso, nel quale le parti sono obbligate a riproporre la controversia nei medesimi termini e nel medesimo stato di istruzione, senza possibilità di svolgere conclusioni diverse nonchè nuove attività probatorie (eccetto il giuramento decisorio) – salvo che queste siano rese necessarie da statuizioni della sentenza di cassazione – e, dall’altro, al giudice di rinvio competono gli stessi poteri del giudice di merito che ha pronunciato la sentenza cassata (cfr. ex multis Cass. 7 luglio 2004, n. 12479; Cass. 27 luglio 2004, n. 14134; Cass. 17 febbraio 2004, n. 3109; Cass. 1 ottobre 2014, n. 20743; Cass. 23 febbraio 2006, n. 4018; Cass. 5 giugno 2014, n. 12633).

In conformità con l’indicato principio, è stato affermato (v. Cass. 29 agosto 2011, n. 17690) che, in sede di giudizio ex art. 392 e ss. c.p.c., anche la sopravvenuta formazione del giudicato esterno deve essere presa in considerazione dal giudice del rinvio a condizione che la stessa sia intervenuta – come fatto impeditivo, estintivo o modificativo della pretesa azionata – in un momento successivo a quello della sua possibile allegazione nelle pregresse fasi processuali.

Peraltro, nella specie, per quanto si rileva dallo stesso ricorso per cassazione si tratta di documenti (che il ricorrente assume essere stati resi indispensabili dall’evolversi della vicenda processuale) volti a dimostrare la diversa consistenza dell’indennità di fine rapporto e del trattamento pensionistico “atteso che la Corte Suprema con la sentenza n. 21700/2013 aveva riconosciuto il buon diritto del S. a vedersi risarcito il danno provocato dall’amministrazione e che tale danno è comprensivo di quello futuro relativo anche alle voci retributive di posizione variabile e di risultato incidenti sul trattamento pensionistico” – v. pag. 32 del ricorso per cassazione -. Ma i relativi rilievi poggiano sull’erronea premessa che un danno fosse identificabile con la perdita delle retribuzioni per il mancato conferimento dell’incarico dirigenziale.

Nè fondatamente il ricorrente sostiene che un’attività istruttoria integrativa fosse stata resa necessaria dalla stessa pronuncia rescindente.

In realtà, nel caso in esame la controversia è stata rimessa al giudice di rinvio solo per una valutazione dell’assetto, di fatto, risultante in causa con riferimento all’affermata tutelabilità della posizione soggettiva del S. il relazione al comportamento (violativo delle regole di correttezza e buona fede) posto in essere dall’Amministrazione nella fase, informale, delle “trattative” volte all’attribuzione dell’incarico di funzione dirigenziale.

In sostanza, la decisione rescindente ha imposto la rivalutazione del corredo allegatorio e probatorio alla luce dell’affermato principio di diritto.

Le indicazioni fornite dalla Corte di legittimità lungi dal rendere necessaria una specifica attività istruttoria operano, allora, nell’ambito di una cornice di riferimento fattuale già delineata nella iniziale prospettazione di cui al ricorso introduttivo del giudizio.

In tale contesto è, allora, pienamente applicabile il principio già sopra ricordato secondo cui, in sede di rinvio, non sono ammesse nuove prove: certamente, non sono riaperti i termini in ipotesi di preclusioni ormai formatesi.

Invero l’art. 345 c.p.c. non trova diretta applicazione, vigendo la speciale disciplina dell’art. 394 c.p.c.: il riferimento al solo giuramento decisorio, da un lato, ed alle “conclusioni” già in precedenza assunte di cui all’art. 394 c.p.c., comma 3, va interpretato nel senso dell’esclusione di qualsiasi novità, intendendosi il termine “conclusioni” come riferito anche alle asserzioni ed alle prove relative (che appunto costituiscono la premessa di nuove conclusioni) v. Cass. 26 giugno 2013 n. 16180 -. Quella di cui all’art. 394 c.p.c. è, dunque, una disciplina “autosufficiente” e che “sintonizza il criterio per scrutinare le novità (assertive e probatorie) ammissibili sulla diversa lunghezza d’onda dell’indagine fattuale imposta dalla sentenza di cassazione” (v. Cass. 22 aprile 1996, n. 3816; Cass. n. 16180/2013 cit.; Cass. 12 aprile 2017, n. 9507). Tale norma è pertanto autonoma rispetto alla disposizione di cui all’art. 345 c.p.c. (nel testo sia anteriore e sia successivo alle modifiche di cui alla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46, comma 18 e D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134).

Tanto precisato, la giurisprudenza di legittimità è ormai attestata nel senso che le nuove prove possono essere ammesse soltanto quando sia la stessa Corte di cassazione ad avere ordinato il rinvio allo scopo di consentirne l’assunzione (cfr. Cass. n. 16180/2013 cit., con riguardo ai documenti; Cass. 1 marzo 2012, n. 3186, con riguardo alla prova testimoniale, secondo cui il giudice del rinvio, al quale la S.C. abbia demandato il compito di procedere ad ulteriori accertamenti di fatto, non può sottrarvisi adducendo la tardività delle relative istanze istruttorie; Cass. 12 ottobre 2009, n. 21587, con riguardo alla produzione di una nota di trascrizione; Cass. 28 aprile 2006, n. 9859; Cass. 21 febbraio 1996, n. 1339).

Fermo è anche il principio secondo cui nel giudizio d’appello riassunto su rinvio dalla Corte di cassazione si possono produrre nuovi documenti che non si siano potuti produrre in precedenza per causa di forza maggiore (v. Cass. 3 agosto 2012, n. 14101).

E’ altresì pacifico che in sede di rinvio sia intangibile il decisum della Corte di cassazione, salva solo l’evenienza di jus superveniens o di dichiarazioni di illegittimità costituzionale, ovvero di sentenze della Corte di giustizia su di esso incidenti (Cass., Sez. Un., 3 luglio 2009, n. 15602).

Nella presente fattispecie, per quanto sopra evidenziato, non si verte in alcuna delle indicate ipotesi derogatorie.

9. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., art. 116 c.p.c., comma 1, art. 132 c.p.c., n. 4 nonchè dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Lamenta che il giudice del rinvio avrebbe integralmente ignorato la prova offerta sin dal primo grado di giudizio (buste paga e cedolini relativi alle mensilità di giugno 2000 e marzo 2001 e primi conteggi offerti) nonchè omesso di fare ricorso al ragionamento presuntivo per la valutazione delle risultanze probatorie documentali che, incrociate con il c.c.n.l. Aran Area 1 dirigenti pubblici per il quadriennio 19982001, con una semplice operazione matematica avrebbero consentito di pervenire ad una corretta liquidazione del danno. Censura, inoltre, la sentenza impugnata per il mancato ricorso alla liquidazione equitativa.

10. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha valutato tutte le prove tempestivamente offerte.

A fronte della ricostruzione in fatto operata dai giudici di appello il ricorrente contrappone inammissibilmente una propria lettura delle risultanze di causa.

Peraltro, come già evidenziato al punto sub 8. che precede, anche in questo caso i rilievi sono incentrati su documenti volti a dimostrare la perdita patrimoniale subita con riferimento al contratto non concluso per i quali sussisteva la già ricordata preclusione derivante dalla pronuncia resa in fase rescindente.

Quanto alla liquidazione equitativa, questa era preclusa dalla mancanza di elementi certi offerti dal ricorrente dai quali desumere innanzitutto la prova del danno subito.

Tale liquidazione equitativa del danno postula, infatti, il concreto accertamento dell’ontologica esistenza di un pregiudizio risarcibile, il cui onere probatorio ricade sul danneggiato e non può essere assolto dimostrando semplicemente che un inadempimento dell’altra parte vi fosse stato se non si dimostri che a tale inadempimento fosse conseguito un concreto danno (v. Cass. 8 gennaio 2016, n. 127; Cass. 17 ottobre 2016, n. 20889; Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310).

11. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 420 c.p.c., comma 5, artt. 437,112,115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 4, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 per omessa pronuncia su un motivo di gravame reiterato in sede di rinvio afferente un’istanza di ammissione di ctu.

12. Il motivo è infondato.

Il diniego di ctu è infatti implicito nel complessivo argomentare della Corte territoriale.

Del resto la consulenza tecnica non è un mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negato qualora la parte tenda con esso a supplire alla carenza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero a compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (v. Cass. 7 luglio 2005, n. 14306; Cass. 10 gennaio 2006, n. 154; Cass. 8 febbraio 2011, n. 3130; Cass. 11 marzo 2011, n. 5878; Cass. 15 dicembre 2017, n. 30218).

13. Con il settimo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c..

Lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente posto a carico dell’odierno ricorrente la condanna al pagamento di gran parte delle spese di lite dei gradi di merito, del giudizio di legittimità e di quello di rinvio, anzichè disporre l’integrale loro compensazione.

14. Il motivo è infondato.

Nella specie non vi è stata alcuna violazione del principio della soccombenza dovendosi, al riguardo, ricordare che, in tema di spese processuali, il giudice del rinvio, cui la causa sia stata rimessa anche per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità, si deve attenere al principio della soccombenza applicato all’esito globale del processo, piuttosto che ai diversi gradi del giudizio ed al loro risultato, sicchè non deve liquidare le spese con riferimento a ciascuna fase del giudizio, ma, in relazione all’esito finale della lite, può legittimamente pervenire ad un provvedimento di compensazione delle spese, totale o parziale, ovvero, addirittura, condannare la parte vittoriosa nel giudizio di cassazione – e, tuttavia, complessivamente soccombente – al rimborso delle stesse in favore della controparte (v. Cass. 29 marzo 2006, n. 7243; Cass. 9 ottobre 2015, n. 20289; Cass. 13 giugno 2018, n. 15506).

15. Da tanto consegue che il ricorso deve essere respinto.

16. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

17. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. n. 228 del 2012, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato dovuto dal ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del Ministero controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2019

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