Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18408 del 09/07/2019

Cassazione civile sez. lav., 09/07/2019, (ud. 08/05/2019, dep. 09/07/2019), n.18408

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amalia – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27351-2014 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI, 12;

– ricorrente –

contro

M.P., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA G.

MAZZINI 8, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO DELLA VALLE, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ANNAROSA

CHIRIATTI, ROBERTO DELLA VALLE;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3911/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/05/2014 R.G.N. 10284/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/05/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ANNAROSA CHIRIATTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso al Tribunale di Roma M.P., nominato esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario (SECIT) istituito con D.P.C.M. 27 agosto 2007 ed assunto presso il Dipartimento delle Politiche fiscali, agiva nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze al fine di ottenere la declaratoria della illegittimità della revoca dell’incarico comunicatagli in data 11/6/2008 con conseguente risarcimento del danno.

2. Il Tribunale accoglieva la domanda e condannava il Ministero a corrispondere al M. a titolo di risarcimento del danno la somma di Euro 157.301,46 pari ai compensi che l’amministrazione avrebbe dovuto corrispondere nel periodo 24/6/2008-28/9/2010.

3. La decisione era solo in parte riformata dalla Corte d’appello di Roma che, decidendo sull’impugnazione principale del Ministero e su quella incidentale del M., rideterminava il risarcimento a quest’ultimo spettante in Euro 300.905,45.

4. Riteneva la Corte territoriale che la sola soppressione del SECIT stabilita dal D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 45(Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, con decorrenza dal 26 giugno 2008, con attribuzione delle relative funzioni al Dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia e delle finanze (MEF), non giustificasse la disposta revoca anticipata non essendo stato allegato e dimostrato che la situazione del Dipartimento, presso il quale le funzioni erano state trasferite, fosse tale da rende impossibile l’utilizzazione del dipendente.

5. Richiamava la pronuncia della Corte costituzionale n. 160/2013 che aveva dichiarato l’incostituzionalità del D.L. 5 agosto 2010, n. 125, art. 2, comma 1-ter, (Misure urgenti per il settore dei trasporti e disposizioni in materia finanziaria), aggiunto dalla Legge di conversione 1 ottobre 2010, n. 163, norma che aveva stabilito: “il D.L. 25 giugno 2008, n. 112, art. 45, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 6 agosto 2008, n. 133, si interpreta nel senso che l’incarico onorario di esperto del servizio consultivo ed ispettivo tributario si intende in ogni caso cessato ad ogni effetto, sia giuridico sia economico, a decorrere dalla data di entrata in vigore della predetta disposizione”.

6. Riteneva, in conformità con il decisum del giudice delle leggi, che, pur non essendo imputabile la causa soppressiva all’amministrazione, nondimeno sotto il profilo contrattuale la risoluzione del rapporto non sarebbe potuta conseguire senz’altro a tale evento, se esso non avesse comportato l’impossibilità di ogni proficuo riutilizzo dell’ispettore. Infatti, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta, di cui all’art. 1463 c.c., sarebbe stato applicabile alla descritta fattispecie di cessazione anticipata del contratto di lavoro a tempo determinato solo nel caso in cui l’evento generatore della cessazione avesse reso assolutamente impossibile la prestazione lavorativa.

7. Evidenziava che, nel caso dei contratti a prestazioni corrispettive, fosse infatti da escludere che il factum principis costituisse, di per sè, elemento sufficiente a configurare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, dal momento che ad esso si doveva accompagnare la dimostrazione, da parte del datore di lavoro o del dante causa, dell’impossibilità di continuare a ricevere la prestazione.

8. Riteneva, poi, che erroneamente il giudice di primo grado avesse quantificato le spettanze considerando il trattamento economico mensilmente spettante come pari ad Euro 5.377,83 e non alla somma lorda di Euro 10.755,66 comprensiva dell’indennità di funzione.

9. Per la cassazione di questa pronuncia ha proposto ricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze affidandosi a tre motivi.

10. M.P. ha resistito con controricorso.

11. E’ stata depositata comparsa di costituzione di nuovi difensori del M. ed altresì memoria da parte di detto controricorrente.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. In via preliminare va disattesa l’eccezione inammissibilità del ricorso formulata ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1, dal controricorrente.

1.1. Va osservato che l’art. 360-bis c.p.c., n. 1, prevede (anche dopo il mutamento di indirizzo, ad opera della sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 7155 del 2017, secondo cui lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, da svolgere relativamente ad ogni singolo motivo e con riferimento al momento della decisione, la declaratoria d’inammissibilità e non il rigetto per manifesta infondatezza), soltanto laddove la giurisprudenza della Corte di cassazione già abbia giudicato nello stesso modo della sentenza di merito la specifica fattispecie proposta dal ricorrente oppure quando il caso concreto non sia stato ancora deciso ma, tuttavia, si presti palesemente ad essere facilmente ricondotto, secondo i principi applicati da detta giurisprudenza, a casi assolutamente consimili, e comunque in base alla logica pacificamente affermata con riguardo all’esegesi di un istituto nell’ambito del quale la vicenda particolare pacificamente si iscriva.

1.2. Ebbene, queste evenienze non ricorrono nella fattispecie in esame perchè le censure formulate nel ricorso principale, a prescindere dalla loro fondatezza, investono la corretta ricostruzione della natura dell’incarico agli esperti SECIT e la risoluzione del rapporto per impossibilità sopravvenuta alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 160/2013 che non sono facilmente riconducibili a casi assolutamente consimili con conseguente applicazione di principi di diritto già affermati da questa Corte di legittimità.

2. Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4.

Lamenta che la Corte territoriale si sarebbe limitata a riportare interi passaggi della decisione della Corte costituzionale aderendovi acriticamente piuttosto che dare conto in modo puntuale della natura di rapporto subordinato degli esperti SECIT.

3. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha spiegato le ragioni della condivisione del decisum della Corte costituzionale evidenziando altresì che, in relazione alla qualificazione del rapporto, il Ministero appellante si fosse limitato a dedurre la violazione della L. n. 163 del 2010, art. 2 dichiarato poi incostituzionale.

4. Con il secondo motivo il Ministero denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in connessione con le norme di cui alla L. n. 146 del 1980, con il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 19 con il D.Lgs. 25 giugno 2008, n. 112, art. 45, comma 1, nonchè, per quanto occorrer possa, con l’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Censura la sentenza impugnata nella parte in cui, condividendo il giudizio espresso dalla Corte costituzionale, ha ritenuto che il rapporto di lavoro degli esperti del SECIT fosse un rapporto di lavoro subordinato di pubblico impiego e non un rapporto iure privatorum.

Rileva che nella specie non fosse stata fornita dal M. alcuna prova della eterodirezione e che la fondatezza della pretesa non potesse derivare dalla sola declaratoria di illegittimità della norma interpretativa.

5. Il motivo è inammissibile.

Come si evince dalla sentenza impugnata, il rilievo dell’appellante era fondato solo sulla norma interpretativa, poi dichiarata incostituzionale.

Nessuna censura risulta dunque specificamente prospettata dal Ministero ai giudici di appello con riferimento al passaggio argomentativo della sentenza di primo grado (riportato nella stessa sentenza della Corte capitolina: v. pag. 2) secondo cui: “il pieno ed integrale inserimento del ricorrente nell’ambito dell’organizzazione del servizio nonchè l’estensione agli esperti della L. n. 146 del 1980, art. 10 inducevano a ritenere instaurato un rapporto di pubblico impiego, configurabile anche nell’ipotesi in cui il dipendente venga assunto a termine e senza il previo espletamento della procedura concorsuale”.

6. Con il terzo motivo il Ministero denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1463 e 1256 c.c. in connessione con il D.L. n. 112 del 2008, art. 45, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che l’abolizione ope legis del SECIT non fosse di per sè elemento sufficiente a configurare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa.

7. Il motivo è infondato.

7.1. Come ha osservato la Corte Costituzionale nella citata sentenza n. 160/2013, “la soppressione del SECIT per factum principis costituisce un evento che incide sul contesto organizzativo presso il quale era svolto il servizio. Pur non essendo imputabile la causa soppressiva all’amministrazione, nondimeno sotto il profilo contrattuale la risoluzione del rapporto non potrebbe conseguire senz’altro a tale evento, se esso non comportasse l’impossibilità di ogni proficuo riutilizzo dell’ispettore. Infatti, l’istituto dell’impossibilità sopravvenuta, di cui all’art. 1463 c.c., sarebbe applicabile alla descritta fattispecie di cessazione anticipata del contratto di lavoro a tempo determinato solo nel caso in cui l’evento generatore della cessazione rendesse assolutamente impossibile la prestazione lavorativa. Nel caso dei contratti a prestazioni corrispettive è infatti da escludere che il factum principis costituisca, di per sè, elemento sufficiente a configurare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, dal momento che ad esso si deve accompagnare la dimostrazione, da parte del datore di lavoro o del dante causa, dell’impossibilità di continuare a ricevere la prestazione”.

7.2. Va anche osservato che è consolidato nella giurisprudenza di questa Corte il principio, condiviso dal collegio, secondo cui il rapporto a termine può risolversi anticipatamente solo in presenza di una delle ipotesi di risoluzione previste dalla disciplina generale dei contratti dettata dagli artt. 1453 c.c. e ss., sicchè le mutate esigenze organizzative del datore di lavoro e/o del committente rilevano solo se ed in quanto le stesse determinino una sopravvenuta impossibilità di ricevere la prestazione lavorativa, da valutarsi obiettivamente avendo riguardo alle caratteristiche, anche dimensionali, dell’azienda o dell’ufficio ed alla natura delle attività affidate, mentre non rileva l’imprevedibilità del fatto sopravvenuto, che può essere causa di risoluzione anche se prevedibile, purchè l’evento non sia evitabile da parte del datore (Cass. n. 15562/2015, n. 25902/2014, n. 14871/2004; Cass. n. 16414/2013, relativa a rapporto di impiego pubblico contrattualizzato).

7.3. La Corte territoriale ha fatto corretta applicazione dei principi innanzi richiamati alla fattispecie dedotta in giudizio in quanto ha escluso che fosse ravvisabile nel concreto la sopravvenuta impossibilità della prestazione per effetto della sola soppressione del SECIT rilevando, al riguardo, che il Ministero non avesse allegato o dedotto la impossibilità di riutilizzare l’odierno controricorrente nell’Ambito dell’Amministrazione, successivamente alla soppressione del SECIT.

8. Sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso deve essere rigettato.

9. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza;

10. Non può trovare applicazione nei confronti dell’Amministrazione dello Stato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13,comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che la stessa, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 29 gennaio 2016, n. 1778).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il Ministero ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 luglio 2019

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