Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18405 del 20/09/2016


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Cassazione civile sez. lav., 20/09/2016, (ud. 05/05/2016, dep. 20/09/2016), n.18405

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 20600/2012 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA G. MAZZINI 27, presso lo STUDIO TRIFIRO’ & PARTNERS,

rappresentata e difesa dall’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.C.G., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato ANNA

BEVILACQUA, rappresentato e difeso dall’avvocato MIRCO RIZZOGLIO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 768/2011 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 15/09/2011 R.G.N. 2289/10;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

05/05/2016 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito l’Avvocato ZUCCHINALI PAOLO per delega verbale Avvocato

TRIFIRO’ SALVATORE;

udito l’Avvocato CONCETTI MICHELA per delega Avvocato RIZZOGLIO

MIRCO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso, depositato il 21.11.2003, P.C.G., esponeva che Poste Italiane S.p.A., sua datrice di lavoro, aveva posto in essere nei suoi confronti un gravissimo e totale demansionamento, per averlo applicato a mansioni non equivalenti a quelle di quadro da lui fino allora svolte nell’Ufficio di (OMISSIS), con destinazione all'(OMISSIS).

Ciò premesso, chiedeva che la convenuta fosse condannata ad assegnargli mansioni equivalenti alla qualifica contrattuale posseduta e al risarcimento dei danni (danno patrimoniale, danni alla professionalità, danno esistenziale, danno da perdita da chances). La società contestava le avverse deduzioni ed argomentazioni, chiedendo il rigetto del ricorso.

All’esito, il Tribunale di Milano con sentenza n. 1125 del 2004, accertata l’avvenuta assegnazione del ricorrente a mansioni non equivalenti, condannava Poste Italiane al risarcimento del danno alla professionalità, nella misura del 100% della retribuzione percepita durante il periodo di dequalificazione, in ragione di 97.204,00 Euro; respingeva le restanti domande di risarcimento. Tale decisione, impugnata da Poste Italiane in via principale e dal P. in via incidentale, veniva confermata dalla Corte di Appello di Milano con sentenza n. 674 del 2005, che ribadiva il demansionamento del P., per essere stato adibito a mansioni inferiori alla qualifica di quadro di 2^ livello; ritenuto sussistente il danno esistenziale, tuttavia manteneva fermo l’importo complessivo indicato dal primo giudice, riducendo però l’ammontare del danno da demansionamento al 50% ed imputando il restante 50% al danno esistenziale; rigettava nel resto l’appello incidentale; confermava la decorrenza degli interessi dalla domanda e il danno da svalutazione, ricompresso nella valutazione equitativa.

POSTE ITALIANE S.p.a. ricorreva per cassazione sulla base di quattro motivi, contrastati dal P. con controricorso contenente ricorso incidentale.

Con il primo motivo del ricorso principale Poste Italiane lamentava violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia. Al riguardo sosteneva l’ingiustificata esclusione delle prove testimoniali chieste dalla società in ordine al demansionamento, ritenuto provato da parte dei giudici di merito.

Con il secondo motivo del ricorso principale la società denunciava violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1226, 2103 e 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione circa un punto decisivo della controversia. Affermava a tal proposito che l’impugnata decisione non aveva fatto corretta applicazione della richiamata normativa, come illustrata da questa Corte, riconoscendo il danno professionale da demansionamento, senza che nel ricorso introduttivo fosse contenuta una specifica allegazione sulla natura e sulle conseguenze del pregiudizio medesimo.

Analoghe considerazioni venivano svolte da Poste Italiane con riguardo alla liquidazione del danno esistenziale.

Gli anzidetti motivi, posti a sostegno del ricorso principale, congiuntamente esaminati da questa Corte con sentenza n. 14199 del 27/04 – 14/06/2010, venivano giudicati fondati.

Invero, la sentenza di appello aveva riconosciuto al dipendente il danno connesso alla violazione dell’art. 2103 c.c., non avendo posto in rilievo se lo stesso avesse allegato o provato la natura e le caratteristiche della dequalificazione professionale. Sul punto poteva richiamarsi l’orientamento, che aveva posto in evidenza come in tema di demansionamento e di dequalificazione il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale (biologico o esistenziale) non deriva automaticamente in tutti i casi di inadempimento del datore di lavoro, dovendo il danno, oltre che essere allegato in modo specifico nel ricorso introduttivo, anche dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro rilievo precipuo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (Cass. S.U. n. 6572 del 24 marzo 2006; Cass. n. 28932 del 2008; Cass. n. 20980 del 2009 e altre conformi). Orbene, tali principi non avevano trovato applicazione nel caso di specie, nè con riferimento al contenuto strettamente patrimoniale, nè con riferimento alla sfera del c.d. danno esistenziale. Quanto, in particolare, al c.d. danno esistenziale, inteso come pregiudizio alle attività non remunerative della persona e riconducibile – nel sistema bipolare introdotto nel sistema ordinamentale in materia risarcitoria – nell’ambito del danno non patrimoniale (cfr. Cass. S.U. n. 26972 dell’11 novembre 2008), il giudice di appello si era limitato a riconoscere a tale voce di danno una quota del 50% nel quadro di una valutazione globale delle circostanze, ma senza alcun concreto accertamento delle sue caratteristiche nel caso concreto.

Gli altri motivi addotti da Poste Italiane (in via subordinata, il mancato esame delle richieste istruttorie svolte dalla società appellante in punto di concorso di responsabilità del creditore nella determinazione del danno – liquidazione degli interessi legali dalla domanda, anzichè dalla data della sentenza) erano invece da ritenersi assorbiti per effetto ed in conseguenza della ritenuta fondatezza dei primi due.

Da parte sua ti controricorrente, in sede di ricorso incidentale, aveva mosso rilievi all’impugnata sentenza in relazione alla quantificazione del danno professionale ed esistenziale e all’esclusione del danno da perdita di chances (1^ motivo) ed in relazione al mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria (2^ motivo).

Anche tali rilievi potevano considerarsi assorbiti dall’accoglimento del ricorso principale.

In conclusione il ricorso principale veniva accolto, assorbito l’incidentale, di modo che l’impugnata sentenza era cassata con rinvio alla Corte di Appello di Milano, in diversa composizione, per procedere al riesame della causa, tenendo conto dei principi evidenziati in ordine alla liquidazione del danno alla professionalità, ove ritenuto accertato il demansionamento, nel duplice profilo del contenuto patrimoniale e di quello non patrimoniale, nel cui ambito andava ricondotto il c.d. danno esistenziale, inteso come categoria non autonoma (cfr. cit. Cass. S.U. n. 26972 del 2008). Il giudice di rinvio avrebbe, quindi, dovuto provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.C.G. riassumeva il giudizio con ricorso del 14 settembre 2010, chiedendo, oltre alla conferma delle voci di danno riconosciutegli in primo grado, anche il riconoscimento di tutte le altre voci di cui al ricorso introduttivo del giudizio e come da precedente appello incidentale.

POSTE ITALIANE si costituiva nuovamente davanti al giudice di rinvio, resistendo al pretese avversarie, delle quali chiedeva il rigetto, in mancanza di specifiche allegazioni e prova, instando altresì per la condanna dell’attore alla restituzione di quanto corrispostogli in esecuzione della sentenza di primo grado.

La Corte di Appello di Milano, ammessa ed espletata prova testimoniale, in data 30 giugno – 15 settembre 2011 pronunciava la sentenza n. 768, con la quale, in parziale riforma della precedente decisione n. 1125/2004, assunta dal locale Tribunale, riduceva a 80.000,00 Euro la somma capitale, oggetto di condanna di Poste Italiane S.p.a.; confermava nel resto la sentenza appellata; condannava il P. a restituire alla società l’eccedenza percepita in esecuzione della sentenza di primo grado e condannava, infine, Poste Italiane al rimborso, a favore del P., delle spese di tutti i gradi di giudizio successivi al primo, come ivi liquidate.

Secondo la Corte milanese, la controversia aveva ad oggetto domanda di risarcimento del danno da demansionamento relativamente all’arco temporale decorrente da (OMISSIS) (data di assegnazione del lavoratore all’ufficio di (OMISSIS)) fino al (OMISSIS), data in cui all’attore erano state conferite mansioni di direttore della succursale (OMISSIS), da lui ritenute satisfattive (come da verbale d’udienza 8 marzo 2011, precisando altresì che la data finale, del (OMISSIS), era successiva a quella del deposito del ricorso introduttivo del giudizio, con il quale si lamentava che il demansionamento fosse ancora in corso). Occorreva, peraltro, verificare se tale domanda fosse compatibile con l’eventuale giudicato interno, formatosi a seguito del parziale appello incidentale proposto a suo tempo dal P.. Infatti, la sentenza di primo grado aveva espressamente limitato il risarcimento al periodo di demansionamento, individuato da (OMISSIS) sino al momento del deposito del ricorso introduttivo, avvenuto il (OMISSIS). Di conseguenza la Corte territoriale riteneva che il lavoratore per ottenere il risarcimento relativamente all’ulteriore periodo ((OMISSIS)) avrebbe dovuto formulare sul punto specifico appello incidentale, da riproporre in sede di rinvio, ciò che invece era mancato.

Pertanto, il periodo da considerare restava limitato a quello oggetto della pronuncia di primo grado ((OMISSIS)).

Tanto premesso, la Corte distrettuale riteneva che in merito al demansionamento, nei limiti anzidetti, fosse intervenuto il giudicato, essendo stata cassata la precedente sentenza di appello unicamente perchè la stessa aveva liquidato il danno professionale ed esistenziale, però senza motivare specificamente in ordine all’allegazioneealla prova dei relativi fatti costitutivi (la Corte di Cassazione, pur avendo considerato unitariamente il 10 ed il 20 motivo di ricorso, proposto dalla società, aveva cassato la pronuncia di appello con esclusivo riferimento al secondo).

La Corte di Appello, tuttavia, riteneva di riesaminare anche la questione del demansionamento, le cui caratteristiche era comunque necessario accertare al fine di verificare la sussistenza e l’entità del danno, cui commisurare il risarcimento. Al riguardo reputava che le allegazioni dell’attore fossero state confermate dall’espletata istruttoria, tenuto altresì conto che il P. aveva descritto le sue mansioni conformemente alla declaratoria contrattuale di quadro di 1^ livello, anteriore all’assegnazione all’ufficio di (OMISSIS), assegnazione che però aveva comportato mansioni non conformi a quelle pertinenti al suo inquadramento, anzi privandolo di ogni mansione.

Secondo la sentenza qui impugnata, tale assunto era risultato indiscutibilmente provato dall’esito dell’istruttoria svolta, tenuto altresì conto delle difese spiegate dalla società resistente, che sembravano dunque limitate a sostenere l’ammissibilità dell’assegnazione del P., quadro di 1^ livello, a quell’ufficio, nonostante la presenza in sito di altro direttore (quadro di 2^ livello), restando comunque il fatto che all’attore presso quella sede non furono mai concretamente assegnate mansioni di responsabile dell’ufficio, alla pari o in supporto dell’altro direttore, sicchè egli era stato costretto alla totale inattività, ciò che costituiva il livello più grave di demansionamento.

Quanto poi ai danni, la Corte milanese rilevava che il ricorrente non aveva riproposto domanda di risarcimento del danno patrimoniale connesso alla indennità di funzione, già rigettata dal primo giudice, avendo egli invece insistito oltre che per la conferma di risarcimento del danno alla sua professionalità, già riconosciuto dal tribunale, per l’accoglimento dell’appello incidentale, quanto al danno relativo alla perdita di chances di carriera e in relazione al danno esistenziale e all’immagine.

A sua volta, Poste Italiane, invece, aveva insistito per il rigetto di tutte le domande del lavoratore.

La Corte distrettuale riteneva, quindi, che si era trattato di un grave demansionamento, durato a lungo nel tempo, nella totale indifferenza della filiale, non essendo mai stato utilizzato l’attore nelle mansioni di sua competenza, nè riqualificato per diverse mansioni. Si era trattato, inoltre, di un demansionamento evidente agli occhi dei colleghi e del pubblico che accedeva all’ufficio, presumibilmente, data la sua posizione nel centro della città ed attesa la sua ampia operatività, frequentato anche da familiari e conoscenti dell’interessato. Ricorrevano, dunque, tutti gli elementi indicati dalla sentenza di cassazione, come significativi a livello presuntivo in ordine alla sussistenza di danno derivato da demansionamento: gravità dello stesso con privazione dell’occasione di crescita professionale e di carriera, significativa durata, sua evidenza agli occhi dei colleghi e del pubblico, con riflessi altresì sulla serenità della vita familiare. Alla luce di questi dati di fatto occorreva procedere alla quantificazione del risarcimento, laddove sotto il profilo patrimoniale venivano in considerazione danno alla professionalità e alla possibilità di carriera, valutati unitariamente.

Vero è che sotto il profilo patrimoniale, l’attore aveva continuato a percepire le sue retribuzioni di quadro di primo livello, tuttavia la professionalità era una caratteristica che aveva autonomo valore economico, eventualmente spendibile anche in un diverso rapporto di lavoro, la cui perdita o riduzione andava adeguatamente risarcita. La Corte, pertanto, riteneva di utilizzare a questi fini il parametro retributivo, come già fatto dal giudice di primo grado. Pertanto, ritenuto che la professionalità del P. non potesse aver subito un decremento superiore a 30%, date le sue solide basi professionali, la Corte territoriale quantificava il danno, tenuto conto dell’anzidetta percentuale di riduzione (30% della retribuzione mensile, così 767,41 Euro per 38 mesi, pari quindi a 29.161,165 eUro, quindi arrotondati a complessivi 30.000). Andava, altresì, considerato il danno non patrimoniale relativo all’immagine e al disagio personale sofferto dal lavoratore per il fatto stesso della sua inoperosità. Pertanto, con valutazione equitativa considerato come dato meramente indicativo quello rappresentato dal danno non patrimoniale per inabilità temporanea assoluta di cui alle tabelle Tribunale di Milano, attualmente quantificato in un ventaglio di valori, da Euro 91 a 136 giornalieri; considerato che nella specie il danno subito non aveva la consistenza di quello biologico, ma comunque un soggettivo riscontro, si riteneva di poter essere adeguata la somma giornaliera pari a poco più della metà, circa il 60% dell’importo minimo, arrotondando poi a Euro 45,00 giornalieri, di modo che si perveniva per 38 mesi ad un ammontare 51.300,00 (45 x 30 gg.; per 38 mesi), arrotondato ulteriormente Euro 50.000. Sugli importi calcolati in valori monetari propri dell’epoca della domanda erano giustificati gli interessi di legge, con la stessa decorrenza, non verificandosi alcuna duplicazione, sicchè sul punto era infondato il motivo di appello di POSTE.

Pertanto, la società andava condannata a corrispondere a P. La minor somma (rispetto a quella liquidata dal primo giudicante) di 80.000,00 sicchè inoltre lo stesso P. era tenuto a restituire alla società l’eccedenza percepita in esecuzione la sentenza di primo grado, provvisoriamente esecutiva.

Avverso l’anzidetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione Poste italiane S.p.A. con due motivi:

1) violazione e falsa applicazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) degli artt. 1227 e 2197 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., trattandosi di palesi error in iudicando laddove si era ritenuto che il P. avesse provato l’effettiva sussistenza di tutti gli elementi indicati nella precedente sentenza di cassazione con rinvio, significativi della sussistenza di un danno da demansionamento, patrimoniale e non. In particolare, non era stato provato anzitutto l’elemento del riflesso sulla serenità della vita familiare, visto che il teste M. aveva riferito di non aver mai incontrato i familiari del P.. Nemmeno era stato provata la conoscibilità all’esterno del luogo di lavoro del demansionamento, sicchè non era dimostrato che la situazione del P. fosse evidente pubblico. Dunque, l’impugnata sentenza aveva valutato le risultanze istruttorie ricavabili dalle prove articolare dalle parti, con conseguente violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.. Inoltre, la società in primo grado aveva dedotto di avere offerto più volte al ricorrente sistemazioni alternative, però da costui rifiutate. La Corte di Appello aveva erroneamente disatteso tali circostanze, non contestate ex adverso, ed aveva, ingiustificatamente, escluso la prova testimoniale offerta della società in ordine al concorso di colpa del P. nella determinazione dell’asserito pregiudizio cima comportamenti tali da aggravare il preteso danno ai sensi dell’art. 1227 c.c.. Di conseguenza, nessun danno poteva essere posto a carico di Poste Italiane, atteso che l’attore aveva rifiutato la (Alone di responsabile dell’ufficio postale (OMISSIS) offertagli sin da (OMISSIS) ed aveva egli stesso chiesto l’assegnazione come coadiutore dell’ufficio di (OMISSIS), come ammesso in sede d’interrogatorio.

La gravata pronuncia, poi, aveva indirettamente violato anche il disposto dell’art. 2697 c.c., essendo pervenuta all’accoglimento delle pretese avversarie in assenza di qualsivoglia prova a sostegno delle stesse ed anzi in presenza di significativi elementi di segno contrario;

2) insufficiente motivazione cima un fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non essendo stata l’impugnata sentenza congruamente motivata, perchè la Corte milanese da un lato aveva ritenuto che erano emersi tutti gli elementi indicati dalla sentenza della Cassazione circa la sussistenza del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale, mentre d’altro canto nulla aveva detto circa la sussistenza di alcuni motivi, quali quelli relativi all’evidenza agli occhi pubblico del demansionamento e al riflesso sulla serenità della vita familiare.

P.C.G. ha resistito all’impugnazione avversaria mediante controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

I due motivi di ricorso, che per la loro evidente connessione possono esaminarsi congiuntamente, vanno disattesi in forza delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, il ricorso appare carente ex art. 366 c.p.c., visto che non enuncia, in modo sufficiente, ancorchè sommariamente, i fatti causa, segnatamente a seguito dell’anzidetta pronuncia di rinvio, nè confuta in qualche modo il giudicato di cui pure si tratta nella sentenza qui impugnata.

Nulla, in particolare, risulta circa tutti i mezzi di prova testimoniale, così come compiutamente articolati dalle parti interessate; nulla è stato precisato in ordine all’interrogatorio nel quale il P. avrebbe ammesso di aver rifiutato la posizione offertagli da (OMISSIS).

D’altro canto, va evidenziata l’irrilevanza di quanto asseritamente accaduto nel mese di (OMISSIS), visto i fatti di cui all’azionata pretesa risarcitoria riguardano un diverso arco temporale (da (OMISSIS), epoca di assegnazione all’ufficio di (OMISSIS), sino al (OMISSIS), data di assegnazione delle mansioni di direttore della succursale 91), per cui tuttavia la pronuncia de qua in virtù delle anzidette ragioni ha poi ulteriormente delimitato il periodo di demansionamento, da (OMISSIS) sino al (OMISSIS), data di deposito del ricorso introduttivo del giudizio, richiamando tra l’altro l’ordine di servizio per cui con decorrenza dal (OMISSIS) l’attuale controricorrente veniva assegnato temporaneamente all'(OMISSIS), per coadiuvare l’attuale responsabile dell’ufficio.

La Corte, quindi, ha ritenuto ad ogni modo fondata la domanda in ordine alla mancata assegnazione di compiti attinenti alla qualifica posseduta, di quadro di primo livello, a partire dall’assegnazione al suddetto ufficio postale di (OMISSIS), sulla scorta delle riportate deposizioni rese dai testi M. (il quale tra l’altro citava quanto riferitogli dalla moglie, che aveva incontrato il coniuge del P., da cui aveva appreso che anche in famiglia questi rimaneva inquieto e portava le conseguenze della situazione lavorativa negativa, affermando altresì che tutti i colleghi erano stupiti di questa situazione a seconda del loro carattere e del loro atteggiamento alcuni facevano commenti negativi e altri, invece, capivano la situazione di disagio del P., vedendo che lui stava male, ma non avendo mai avuto il coraggio di affrontare il discorso…), MA., C. e CA..

La ricorrente, poi, pare non aver considerato affatto quanto pure motivato a pag. 12 della sentenza, circa l’inconferenza del preteso concorso di colpa del P., che avrebbe rifiutato altre posizioni direttive; circostanza che non avrebbe comunque giustificato il perdurante demansionamento e che, peraltro, sebbene ammessa a prova, non era stata confermata da alcun teste, ed anzi smentita in base alle riportate dichiarazioni rese dai suddetti testi C. e MA..

Per altro verso, la Corte territoriale, quale giudice di merito esclusivamente competente in proposito, ha richiamato, ancorchè succintamente, pure elementi presuntivi, tratti dall’accertato demansionamento, da cui poter anche desumere la sussistenza del danno patrimoniale e non (gravità dello stesso con privazione di occasioni di crescita professionale e di carriera, significativa durata e evidenza del medesimo).

Parimenti va osservato quanto al secondo motivo, alla luce degli stessi precedenti ed assorbenti rilievi, nonchè in base al testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, atteso che tra l’altro non è sufficiente al riguardo soltanto una omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, occorrendo inoltre che la stessa motivazione riguardi anche un punto decisivo della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile d’ufficio. Orbene, l’enunciazione del secondo motivo di ricorso, peraltro alquanto sintetica, nulla di preciso indica sul connesso punto decisivo della controversia. Per contro, la motivazione dell’impugnata sentenza risulta ampia, logica ed esauriente, nonchè del tutto coerente con le citate fonti di prova (cfr. tra l’altro pag. 14: … si è trattato di un demansionamento evidente agli occhi dei colleghi e del pubblico che accedeva all’ufficio, nel cui ambito – data la posizione dell’ufficio nel centro della città e la sua ampia operatività anche a livello orario – può presumersi fossero ricompresi anche familiari/conoscenti dell’interessato…”; v. ancora pag. 15 della stessa sentenza: “…partendo dal fatto noto rappresentato dalla totale inattività e dal fatto notorio rappresentato dalla rapida evoluzione che ha caratterizzato l’organizzazione e le modalità operative di Poste nel periodo considerato, può ritenersi concretato un significativo danno al bagaglio professionale del P., che, rimasto ai margini della via aziendale, senza stimoli operativi nè occasioni di aggiornamento, ha subito una obsolescenza, direttamente proporzionale al processo di rinnovamento che nel frattempo investiva l’azienda…).

Dunque, il ricorso di POSTE ITALIANE va senz’altro respinto, con conseguente condanna della stessa società, quale parte rimasta soccombente, al pagamento delle spese.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle relative spese a favore del controricorrente, che liquida in Euro 4000,00 (quattromila/00) per compensi professionali, oltre a Euro 100,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2016

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