Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 18401 del 12/07/2018


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Civile Sent. Sez. 5 Num. 18401 Anno 2018
Presidente: CAPPABIANCA AURELIO
Relatore: D’ORAZIO LUIGI

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 29069/2011 R.G. proposto da
Argentarius s.r.I., in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa dall’Avv. Paolo mFiorilli, elettivamente domiciliata presso
lo studio dello stesso, in Roma, Via Cola di Rienzo n. 180, giusta delega a
margine del ricorso
– ricorrente CO ntro
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore,
rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i
cui uffici domicilia, in Roma, Via dei Portoghesi n. 12 ;
– controricorrente 1

Data pubblicazione: 12/07/2018

avverso la sentenza della Commissione Regionale del Lazio n. 393/38/2011
depositata il 6 ottobre 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 15 maggio 2018 dal
Consigliere Luigi D’Orazio;

Umberto De Augustinis, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso
e, in subordine, per il rigetto;

udito l’ Avv. Paolo Fiorilli per la ricorrente;

FATTI DI CAUSA
1.Con avviso di accertamento relativo all’anno 1991 l’Agenzia delle entrate
contestava alla Argentarius s.r.l. l’assenza di documentazione di costi per
acquisti per lire 16.950.000, la non deducibilità di costi per lire 14.921.000
perchè di competenza dell’anno 1990, l’omessa contabilizzazione di interessi
attivi su crediti di imposta per lire 915.000 e maggiori ricavi da “vendita
oreficeria” per lire 57.314.000 ai sensi dell’art. 39 lettera d.p.r. 600/1973 sulla
base di un raffronto delle percentuali di maggiorazione sul costo del venduto
dichiarato dalla società in esercizi precedenti.
2.La Commissione tributaria provinciale accoglieva il motivo della ricorrente in
ordine ai costi per l’acquisto di monete d’oro, in quanto annotato sul libro
giornale, riteneva di competenza dell’anno 1991 le cinque fatture emesse a
dicembre 1990, non considerava giustificato l’accertamento induttivo.
3.La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello della Agenzia delle
entrate.
4.Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la società.
5.Resisteva l’Agenzia delle entrate con controricorso.

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udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott.

RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “violazione o falsa
applicazione dell’art. 22, comma 3, del d.p.r. 600/1973 in relazione all’art. 360,
comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto la prova della sussistenza del costo emerge
dalla registrazione dello stesso nel libro giornale e nel Registro di commercio.
La registrazione, infatti, consente la identificazione del cedente e la verifica che

1.1.Tale motivo è infondato.
Invero, per la Suprema Corte il principio in virtù del quale è consentito
all’imprenditore, in sede di accertamento dell’imposta sul reddito, dedurre dal
reddito imponibile anche i costi d’impresa non risultanti dalle scritture contabili
non costituisce una deroga alle regole generali in tema di riparto dell’onere
della prova, restando, quindi, a carico dell’imprenditore (ovvero, dopo il suo
fallimento, del curatore fallimentare) dimostrare di avere effettivamente
sostenuto i costi dei quali chiede la deduzione, prova, questa, che, ai sensi
dell’art. 2709 c. c., non può essere fornita attraverso la mera annotazione del

costo nel libro giornale (Cass.Civ., 28 febbraio 2017, n. 5079).
Il libro giornale, infatti, non fa fede della veridicità dei dati in esso esposti e
non fa prova a favore dell’imprenditore stesso, ai sensi dell’art. 2709 c.c.
In tema di imposte sui redditi e con riguardo ai costi d’impresa non
regolarmente registrati ai sensi dell’art. 2215 cod. civ., l’abrogazione (ad opera
dell’art. 5 del d.P.R. 9 dicembre 1996, n. 917) del sesto comma dell’art. 75 del
d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 – che precludeva l’ammissione in deduzione
dei costi la cui registrazione era stata omessa o eseguita irregolarmente -, non
comporta l’automatica deducibilità di tali costi ma, non incidendo sull’ordinario

criterio di distribuzione dell’onere della prova,

soltanto la possibilità, prima

assolutamente preclusa al contribuente, di provarli anche con mezzi diversi

dalle scritture contabili, purché rispondenti ai requisiti fissati al quarto comma
dello stesso art. 75 (Cass.Civ., 14 maggio 2007, n. 10964; Cass.Civ., 12
gennaio 2007, n. 531; Cass.Civ., 11 luglio 2002, n. 10090).
Peraltro, dal controricorso risulta che gli acquisti delle monete d’oro non
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le monete che sono state vendute corrispondono a quelle entrate in magazzino.

risultano neppure nel registro di commercio.
Inoltre, si deve sottolineare che il giudice di merito ha rilevato che il costo non
era documentato, mentre lo stesso contribuente ha dichiarato di non essere
stato in grado di rinvenire la documentazione comprovante l’acquisto dal
privato, in quanto era stata “smarrita”.
2.Con il secondo motivo di impugnazione la società deduce “violazione o falsa
applicazione dell’art. 75, terzo comma, del d.p.r. 22.12.1986 n. 917 in

nel contestare la indeducibilità dei costi nell’esercizio 1991 non ha verificato se
la merce oggetto delle fatture era stata introdotta o meno nel magazzino alla
data del 31 dicembre 1990″.
2.Tale motivo è inammissibile.
Invero, la società, pur censurando la motivazione della sentenza della
Commissione regionale per ragioni di diritto, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n.
3 c.p.c., incentra però le sue doglianza su circostanze di fatto, quali la mancata
verifica da parte della Guardia di finanza del rinvenimento o meno della merce
nel magazzino alla data del 31-12-1990.
La questione sollevata dalla ricorrente è, peraltro, del tutto nuova ed
inammissibile.
Era, poi, del contribuente l’onere di dimostrare che la merce era entrata in
magazzino nel 1991, sì che i costi relativi potevano essere dedotti in tale anno.
Infatti, per la Suprema Corte, in tema di reddito d’impresa, l’art. 75 del d.P.R.
22 dicembre 1986, n. 917 (numerazione anteriore a quella introdotta dal d.lgs.
12 dicembre 2003, n. 344) nel prevedere che i ricavi, le spese e gli altri
componenti positivi e negativi concorrono a formare il reddito nell’esercizio di

competenza e che, ai fini dell’individuazione di tale esercizio, le spese di
acquisizione dei beni mobili si considerano sostenute alla data della consegna o
spedizione, non consente di attribuire rilievo alla data in cui perviene la fattura
della spesa sostenuta, né permette la detrazione dei costi in esercizi diversi da
quello di competenza, non potendo il contribuente essere lasciato arbitro della
scelta del periodo in cui registrare le passività, in quanto l’imputazione di un
determinato costo ad un esercizio anziché ad un altro può, in astratto,
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relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”, in quanto “la Guardia di finanza

comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi
di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi (Cass.Civ., 12
febbraio 2010, n. 3418).
L’argomentazione della società si mostra anche irrilevante ai fini del decidere,
in quanto non coglie la ratio decidendi della sentenza della Commissione
regionale.
Infatti, la ricorrente avrebbe dovuto almeno allegare, e poi provare, che la

consegnata solo nel 1991. A nulla rileva, quindi, la doglianza per cui la Guardia
di finanza avrebbe dovuto verificare se la merce fosse stata introdotta o meno
nel magazzino alla data del 31-12-1990. Non è una contestazione alla sentenza
della Commissione regionale, ma all’operato della Guardia di finanza e come
tale inammissibile.
3.Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione dell’art.
112 del codice di procedura civile ed art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360
comma 1 n. 3 c.p.c. Difetto di motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio
in relazione all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.”, non sussistendo i presupposti per
procedere all’accertamento induttivo dei maggiori ricavi. L’accertamento
induttivo di cui all’art. 39 lettera d d.p.r. 600 del 1973 non sarebbe consentito
in caso di contabilità regolare.
3.1.Tale motivo è infondato.
Si rileva che, a prescindere dalla erronea invocazione dell’art. 112 c.p.c. da
parte della ricorrente, l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il
quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, anche se di
rilevante importo, è consentito, ai sensi dell’art. 39 primo comma lettera d del
d.p.r. 600 del 1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta,
giacchè la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute e , tuttavia,
contestabili in forza di valutazioni condotte su presunzioni gravi, precise e
concordanti, che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della
contabilità esaminata (Cass.Civ., 24 settembre 2014, n. 20060; Cass.Civ., 15
dicembre 2017, n. 30276).
La motivazione della decisione risulta, poi, completa e sufficiente, in quanto la
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merce oggetto delle fatture emesse nel dicembre 1990, era in realtà stata

Commissione afferma che i maggiori ricavi non contabilizzati sono emersi dalla
applicazioni delle percentuali di maggiorazione dichiarate dalla stessa società
negli esercizi precedenti, tenendo conto anche della “consistenza patrimoniale
che rispecchia un rilevante volume di affari indicativo di maggiore capacità
contributiva”.
La Commissione, dunque, si è limitata a constatare che, una volta ritenuti
sussistenti gli indizi gravi, precisi e concordanti per utilizzare l’accertamento

contraria.
La stessa ricorrente, nella articolazione del motivo, ammette che “vero è,

infatti, che l’unica prova che l’Ufficio ha fornito dell’evasione è presuntiva”.
4.Le spese del giudizio vanno poste a carico della società e si liquidano come
da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente a rimborsare alla Agenzia delle
entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi C
4.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio del 15 maggio 2018
Il Consigliere est.
Luigi D’Orazio

induttivo dei maggiori ricavi, spettava poi al contribuente fornire la prova

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